Cultura
“Ritorno a Birkenau”. Un libro di Ginette Kolinka

La memoria e il fare memoria nel racconto della sopravvissuta francese

“Non bisogna tornare a Birkenau in primavera. Quando i bambini giocano sugli scivoli, nei giardini delle casette che costeggiano le rotaie in disuso che portavano al campo e alla sua funesta fermata d’arrivo, la Judenrampe“.

Già, perché in quella stagione i campi si coprono di fiori, l’aria odora di alba fresca e si incontra persino qualcuno che fa jogging proprio lì, “su quella terra grassa e irriconoscibile, che aveva visto tanti morti”. Perché in quella stagione, anche a Birkenau il paesaggio diventa bello.

Bello. “Era bello”, scrive l’autrice di questi pensieri, “Come posso usare una frase simile?”, continua, “Eppure l’ho detta questa frase, l’ho pensata: era bello”. Le parole sono di Ginette Kolinka, raccolte nel suo Ritorno a Birkenau, un piccolo quanto intenso memoire scritto a quattro mani con la giornalista Marion Ruggieri, sulla sua storia di sopravvissuta e il suo impegno nel fare memoria. Perché dopo anni di silenzio assoluto, Kolinka ha deciso non solo di testimoniare la storia raccontando la sua personale vicenda nelle scuole, ma addirittura accompagnando i ragazzi in visita a Birkenau, appunto, il campo di sterminio in cui era stata rinchiusa.

Così si passa subito a un’altra primavera, quella del 16 aprile 1944, il giorno in cui Ginette Kolinka, 19enne, con il fratellino di 12, il nipote di 14 e il padre di 61 scende dal treno che dalla Francia l’ha condotta lì, a Birkenau. Carro bestiame, chiavistelli, buio, sovraffollamento… Eppure lei quando scende mantiene ancora il suo ottimismo: andremo a lavorare e andrà tutto bene, pensa. Indirizza il padre e il fratellino verso i camion perché sente dire che per chi è stanco è possibile usufruire di quel mezzo di trasporto: “Ci sono dei camion per i più stanchi”, qualcuno le traduce. “Questa frase, settant’anni dopo, echeggia ancora in me. Nella mia ingenuità, quell’ingenuità che forse ha salvato me e ha condannato loro, penso a mio padre (…) penso a Gilbert, il mio fratellino che ha solo 12 anni (…). E sento me stessa che grido loro: “Papà, Gilbert, prendete il camion!”. Se non altro, non dovranno farsela a piedi. Non li bacio. Spariscono. Spariscono”.

La memoria è intervallata da riflessioni attuali e al suo ruolo di accompagnatrice in quel luogo atroce. “Io stessa, lo racconto, lo vedo, e penso che non è possibile essere sopravvissuti a cose simili. Vedo e sento. Ma voi, vedete?”, si chiede, anzi chiede ai lettori e ai suoi studenti, quelli che accompagna nelle visite di baracche vuote e ben pulite, dove occorre fermarsi, sapere, vedere. Altrimenti non si può capire.

Capire, poi. Si può capire la Shoah? Ginette Kolinka racconta, va nei dettagli della memoria, inclusi i vuoti che porta con sé, con una potenza sconcertante. Per provare a rispondere a questa domanda. Per svegliare le coscienze. Per dire a tutti che cosa è stato. E passare ai giovani il testimone:

Se oggi, a 94 anni, sono come sono, lo devo a quei viaggi, ai sentimenti e agli studenti che prenderanno il nostro posto quando noi non ci saremo più

 

 

Ginette Kolinka con Marion Ruggieri, Ritorno a Birkenau, Ponte alle Grazie, pagg. 90, 12 euro.

 

 

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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