Alla terza puntata della nostra piccola inchiesta identitaria, rispondono sette persone. Ognuna con la propria personale e intima visione dell’ebraismo.
Cosa significa essere ebreo?
Valerio Fiandra: Essere ebrei è una condizione esistenziale, fondata biologicamente e confermata, o smentita, culturalmente.
Anna Segre: Essere nata da padre ebreo e madre convertita, ebrea come me stessa, come essere femmina, di carnagione chiara, chiarissima, quasi trasparente, come respirare. Un’identità come una natura.
Gadi Luzzatto Voghera: Innanzitutto si tratta di una constatazione. Sono nato da genitori ebrei quindi sono ebreo. Tuttavia l'”essere” ebreo è il frutto di una costruzione culturale, che è quindi l’esito di un percorso in parte guidato dalle scelte della famiglia di origine, in parte frutto di scelte personali compiute nel corso degli anni. Per me personalmente tutto questo si può riassumere in questo modo: la famiglia, di solide radici culturali ebraiche ma senza un radicamento nell’osservanza delle mitzvoth, mi ha trasmesso una necessaria conoscenza della lingua ebraica e un’educazione basilare relativa alle tradizioni e al mantenimento di una continuità nella ritualità. Alcuni momenti fondamentali che rafforzano anche i legami famigliari e comunitari (Pesach con il seder, il digiuno di Yom Kippur, l’accensione della lampada di Hanukka), frequentazione non assidua del Beth Hakenesset il Sabato, Kiddush il venerdì sera. A questo si è aggiunta in me la coscienza di far parte di una Comunità e quindi di condividerne le sorti. Infine, ma direi più importante di tutti, la frequentazione in adolescenza (quindi in età formativa) dell’Hashomer Hatzair che ha radicato in me in maniera indelebile un’identità ebraica associata a un legame forte con l’esperienza dello Stato d’Israele come momento di svolta ineludibile nel definire l’ebraismo contemporaneo. Come esito di tutto ciò, in me è maturata la scelta di occuparmi professionalmente di storia degli ebrei, il che mi ha permesso di studiare con continuità e di arricchire la mia componente identitaria.
Rachele Jesurum: Essere ebrea per me significa essere me stessa, una delle tanti componenti che mi vengono in mente se penso a chi e cosa sono. Certo, come per tutte le minoranze che vivono in un contesto diasporico, il tratto che ti distingue dall’altro diviene spesso quello preponderante, più ingombrante, nel bene e nel male: così il mio essere semplicemente un’ebrea italiana tra i miei compaesani cattolici, si declina nell’essere un’ebrea laica e shomrista quando sono in Israele, un’ebrea di sinistra quando sono in ambiente comunitario, un’ebrea donna quando sono nel mio ambito lavorativo, ovvero quello accademico degli studi ebraici.
Massimo Acanfora Torrefranca: Il verbo essere è quello giusto. Si è ebrei perché si sceglie di riconoscere la propria appartenenza al popolo ebraico e ci se ne fa carico, in modi anche molto diversi da persona a persona, con
tutto ciò che consegue. Si è ebrei perché si riconosce un retaggio culturale molto composito e sfaccettato come proprio, e si orientano le proprie scelte di vita e quotidiane di conseguenza. Insomma, secondo me non si è ebrei allo stesso modo in cui si hanno i capelli neri o rossi, si è alti o bassi, dati genetici immutabili, ma perché lo si ri-sceglie giorno per giorno, compiendo coscientemente atti quotidiani orientati su quel patrimonio culturale ed etico. Insomma, si è ebrei perché si appartiene al popolo ebraico e si vive da ebrei, qualunque cosa ciò possa significare…
Marina Morpurgo: La domanda “che cosa significa essere ebrea per te?” è molto difficile. L’ebraismo per me, un ebraismo molto laico, è la mia infanzia. È la mia cultura e credo anche la mia forma mentis.
Bruno di Porto: Tra le definizioni dell’ebraismo, opto, come ampia e poliedrica, per quella di civiltà, con riferimento al testo di S. N. Eisenstadt, Civiltà ebraica. L’esperienza storica degli Ebrei in una prospettiva comparativa, prefazione di David Meghnagi, Roma, Donzelli, 1992. Contemplando il complessivo insieme dell’ebraismo, penso, come del resto riscontro, che gruppi o persone possano sentire e coltivare aspetti che sentano più congeniali.
Una questione identitaria, fondata su cosa?
Valerio Fiandra: Sulla tradizione, sull’apprendimento, sulla disponibilità a comprendere, sul capire più che sul credere.
Anna Segre: Sul modo di ragionare, sulla cultura, sull’etica, sulla narrazione.
Gadi Luzzatto Voghera: Non capisco la domanda.
Rachele Jesurum: Un’identità che si fonda sull’educazione famigliare, su come si viene tirati su. Nel mio ricordo ho sempre saputo di esserlo, mi è sempre stato detto e spiegato, quindi forse sintetizzerei l’essere ebreo come il primo rapporto educativo specifico che si ha con i genitori, i primi gesti che si distinguono dai generici – seppur fondamentali – passaggi d’imparare a mangiare a dormire e a giocare; mia figlia di due anni, che se le chiedi cosa si mangia a Shabbat ti risponde challah.
Massimo Acanfora Torrefranca: Un’identità fondata su due parametri: l’appartenenza secondo i criteri definiti dall’ebraismo; il fare proprio quel patrimonio di cui parlavo sopra, nelle declinazioni che ciascuno liberamente sceglie. Nascere da madre ebrea o convertirsi secondo la halakhà per me costituisce una condizione necessaria ma non del tutto sufficiente; occorre anche il secondo parametro, che è frutto di una scelta cosciente, deliberata e continuativa. La frase “questione identitaria” francamente mi provoca un po’ di orticaria…
Marina Morpurgo: È certamente una parte della mia identità, per quanto non certo totalizzante e a peso variabile (ma sempre ben presente).
Bruno di Porto: Essere ebreo significa per me essere partecipe e latore di un retaggio di oltre tre millenni, con fedeltà alle radici e nel contempo con senso storico ed attitudine evolutiva. L’ebraismo è una religione, un popolo, una cultura. Il popolo ebraico ha felicemente ricostituito un centro nazionale, ma mantiene, specialmente nella diaspora, un carattere trasversale, nel senso che, situato o suddiviso, fin dall’antichità, in tanti paesi, ha acquisito molte affinità con le rispettive popolazioni, condividendone caratteristiche, vicende, linguaggi, esperienze, culture, e le sue diverse frazioni hanno conseguito, con la moderna emancipazione, diritti ed impegni di cittadinanza, non solamente leale ma attiva, sentita e fervida, nei diversi stati e tra tante nazioni. Ciò particolarmente vale per l’Italia, malgrado e a condanna delle leggi antiebraiche, che ci hanno colpiti, estromessi, eliminati. Di tale trasversalità gli ebrei costituiscono un esempio ragguardevole, ma il fenomeno è diffuso per molti gruppi etnici e culturali, crescendo e sviluppandosi in un mondo globalizzato, dove le identità si conoscono, si confrontano, possono aggregarsi e dialogare.
Dentro o fuori dalla comunita e perché? Cioè, il senso di appartanenza serve a costruire l’identità ebraica?
Valerio Fiandra: Una Comunità è il luogo della pratica, soprattutto religiosa, e certamente serve a confermare, o a contrastare l’identità.
Anna Segre: Esiste una comunità ideale e la mia comunità. Per il fatto di desiderare l’incontro, il sostegno, il confronto e il soccorso, pago le tasse alla mia comunità, Torino, mentre vivo, da sempre, a Roma. Perché la mia formazione ed educazione sono torinesi, somiglio agli ebrei torinesi per la faccia, la postura, stessi scaffali di libreria e analogo approccio ai problemi: perciò sono iscritta alla comunità che mi corrisponde cognitivo/comportalmente, e vivo in una diaspora ebraica, a Roma, avendone, come ogni diasporico che si rispetti, assorbito usanze, linguaggio, abitudini, costumi. Domanda interessante, se essere o no iscritti a una comunità. La non appartenenza come identità mi tenta sempre come le sirene di Ulisse. L’ebraismo è l’albero maestro cui sono legata.
Gadi Luzzatto Voghera: Viviamo in un’epoca di rinascita del comunitarismo (che è una dinamica della destra politica). L’appartenenza “esclusiva” a una comunità è in qualche modo limitativa se messa in relazione alla costruzione dell’uomo e della donna nella loro essenza individuale. Voglio dire: per essere ebreo la dimensione di comunità è importante, direi essenziale. L’ebreo è tale nel momento in cui si relaziona all’altro ebreo e condivide con lui servizi e dinamiche di gruppo. È la tradizione che conduce a questo: il minian, il rispetto delle regole di purità (miqveh), il sistema educativo sono tutti elementi che necessitano di una comunità per esserci. Tuttavia l’essere ebreo non definisce in toto un essere umano. Io sono ebreo ma assommo nella mia persona anche altre identità: sono maschio, sono italiano, sono veneto, ho una radicata appartenenza politica ecc. ecc. Queste altre forme identitarie non necessariamente hanno a che vedere con la comunità ebraica per cui l’appartenenza da ebreo ad una comunità non è esclusiva. Si può essere ebrei e vivere gran parte della propria esistenza al di fuori della comunità ebraica. In poche parole, non credo nelle identità comunitarie monolitiche, che sono essenzialmente un’aspirazione fascista (nella quale come ovvio non mi riconosco).
Rachele Jesurum: Dentro, sempre e a qualunque costo. L’ebraismo ai miei occhi è collettività, condivisione, minian. Poi si può discutere dentro a quale comunità, a me è andata bene: figlia di madre non ebrea sono stata convertita ai tempi di Laras, quando si convertivano i neonati, di conseguenza è andata di lusso anche a mia figlia. Ma non ho, per carattere e attitudine, smanie di bollini e riconoscimenti, credo nella comunità come insieme di persone che lavorano per uno scopo affine, non deve essere per forza la kehilà principale, riconosciuta dal rabbinato e col Tempio più sfarzoso, mi vanno bene associazionismi giovanili e luoghi di ritrovo e discussione, tavole apparecchiate e bambini che guardano le candele impazienti di accenderle, il pedigree l’ho sempre trovato superfluo.
Massimo Acanfora Torrefranca: Vivere da ebrei è una scelta individuale che presuppone un dialogo con “tu” costituito da un collettivo umano cui si appartiene e si decide di appartenere. L’ebraismo su un’isola solitaria o in cima alla montagna o nel chiuso di una meditazione individuale non è in realtà concepibile, è una contraddizione in termini. Certo, le dinamiche del collettivo ebraico, sia esso la propria comunità, il proprio Beth HaKnesseth, il popolo d’Israele nel suo complesso, fanno spesso venire la tentazione della scelta solitaria. Ma, semplicemente, non è una scelta praticabile.
Marina Morpurgo: Fuori dalla comunità, perché da tempo non mi ci riconosco più, forse è il momento di avere più comunità diverse, e non una in cui spesso volano parole di fuoco. Per me la comunità è come il PD: abitata da anime difficilmente conciliabili.
Bruno di Porto: Credo che sia bene organizzare e manifestare l’identità ebraica con l’iscrizione a comunità ebraiche (anche più di una) e con partecipazione alla vita comunitaria, nei modi e nei tempi che ciascuno possa accordare. In corrispondenza con tale indicazione, desidero che le comunità ebraiche siano accoglienti ed inclusive verso i figli di madre non ebrea e verso i proseliti, con giusto vaglio e preparazione. Rendendomi conto dei criteri halachici, applicati con maggior rigore in seno alle comunità ebraiche riunite nella UCEI, ho trattato la possibilità della coesistenza tra correnti diverse dell’ebraismo, come tende ad avvenire, di fatto, anche nel nostro paese, con un nesso confederativo che le possa connettere.
Ci si può sentire ebrei senza esserlo?
Valerio Fiandra: Sì, ma è una diminutio – di se stessi e dell’ebraismo.
Anna Segre: Per come la vedo io, l’ebraismo distilla in sé un concetto di minorità, esilio, esproprio, false accuse, gogna sociale, prepotenza subita, che si può concretizzare in mangiatore di carne a una cena vegetariana, essere cattolici a casa Segre, essere un nicaraguegno senza permesso di soggiorno, manifestare per il pride a San Pietroburgo. Si è ebrei, secondo me, quando non si può dire chi si è, cosa si pensa, si è ebrei nel non riconoscimento dei meriti, nel giudizio che precede la conoscenza, cioè quando un pre-giudizio pregiudica un’assunzione, un dottorato, un contratto d’affitto.
Si è ebrei quando, cittadini disarmati, si deve scappare da una guerra, lo si è anche quando le divise sono un pericolo e non una tutela, si è ebrei nel pensiero divergente, nella creazione di archivi, nella raccolta di testimonianze, nella tessitura della memoria. La Aleksjevich, Nobel letteratura 2015, è la mia ebrea non ebrea esempio cardine: ha intervistato migliaia di donne per dar loro voce sulla guerra, di persone che erano bambini, durante la guerra, di testimoni dell’incidente di Chernobyl. Un lavoro certosino che fa assurgere a nuova considerazione la storiografia e che, con migliaia di singole tessere, crea un vero affresco. Che nessuna vita sia indifferente e che ogni testimonianza sia rilevante è ciò che io credo essere un seme di ebraismo in persone di religione non ebraica. Li considero ebrei, diciamo.
Gadi Luzzatto Voghera: L’ebraismo non è un sentimento, ma un dato di fatto. Ci sono delle norme che determinano l’essere o meno ebrei. Tuttavia la storia ci ha anche insegnato che a volte l’essere considerati ebrei non è dettato dalle regole interne all’ebraismo, ma da imposizioni provenienti dal di fuori. L’antisemitismo in questo gioca un fattore essenziale perché offre una definizione di ebreo che non ha nulla a che vedere con l’ebraismo ma che a livello politico, sociale, culturale e antropologico ha un peso fondamentale. Le leggi razziste imposte dal fascismo hanno incluso nella categoria di ebreo persone che nulla avevano a vedere con l’ebraismo da un punto di vista culturale, comportamentale e anche religioso. E le conseguenze sono state tragiche. In alcuni casi si moriva da ebrei senza sentirsi ebrei (e quindi senza comprendere il perché della persecuzione). Quindi la questione dell’identità fondata sul sentimento si complica molto e si scontra con le norme della tradizione ebraica. Io personalmente penso che il sentimento di vicinanza e di condivisione della vita di una comunità ebraica, delle sue norme, dei suoi ritmi, sia un sentimento legittimo che le comunità ebraiche dovrebbero rispettare e incoraggiare. Se una persona si sente di rispettare lo Shabbat, di frequentare il Beth Hakenesset e gli eventi comunitari, di assistere a lezioni di tradizione ebraica ecc. pur senza essere ebreo, io penso che debba essere accolta con spirito inclusivo, che non necessariamente significa fare del proselitismo (pratica peraltro molto in uso nelle comunità ebraiche del lontano passato). Lo “straniero che dimora fra noi” è un elemento essenziale, uno specchio su cui possiamo ritrovare noi stessi. Trovo che le comunità ebraiche dovrebbero essere in questo molto più inclusive, mentre spesso sono respingenti.
Rachele Jesurum: In Forrest Gump dicono “stupido è chi lo stupido fa”, se un individuo si sente per ragioni intime e personali ebreo e decide di comportarsi da tale, kol ha kavod, non toglie nulla a me e sicuramente arricchisce se stesso. Non sarà mai ebreo da un punto di vista halachico e non godrà di alcuni privilegi ritualistici legati a quella condizione, ma ognuno decide cosa gli basta e cosa gl’importa ed è libero di sentirsi e vivere come preferisce, creando per sé la via migliore. L’importante a mio avviso è essere profondamente consapevoli quando si sceglie di sviare da un canone ben specifico, assumendosene la totale responsabilità, in primis davanti a se stessi. Io ho fatto matrimonio misto, non mi sarei mai permessa d’invitare il mio amato Rav dei tempi della scuola, ci sono tempi e luoghi per gioire assieme senza mettere in imbarazzo nessuno.
Massimo Acanfora Torrefranca: Si può essere ciò che ci pare, nella propria coscienza e immaginazione. E certo questa immagine che costruiamo di noi stessi ha un ruolo centrale nella nostra autopercezione e nella percezione che di noi hanno gli altri. Tuttavia, il fatto che io mi senta intimamente un airone non fa necessariamente di me una creatura in grado di librarsi nell’aria… Perciò la mia risposta è che sì, uno può anche sentirsi ebreo, per carità, può anche sognarsi di essere il Grande Sacerdote ai tempi di Ezra, ma l’immagine eidetica che una persona costruisce di sé non corrisponde necessariamente ad una realtà… Se uno si sente così fortemente ebreo, o attratto dall’esserlo, deve porsi secondo me nella prospettiva di mettere a dura prova questo sentimento, e passare per il test della conversione, di qualunque tipo (e questo lo dico da ebreo deliberatamente “ortodosso”, espressione priva di senso, giacché in ambito ebraico la “correttezza” del pensiero e del sentire ha scarsa importanza, mentre ne hanno una enorme gli atti concreti). Chiaro che come ogni test anche questo può dare risultati negativi: come accorgersi di non volere esattamente proprio quello, essere ebrei. Occorrono secondo me sempre un percorso e un passaggio formale. Sono passi che pongono la persona di fronte alla realtà delle proprie scelte, e alle conseguenze di quest’ultime. Posso anche sentirmi nell’intimo un islandese, ma finché non parlo la lingua, non vado a vivere in Islanda e non ne divengo cittadino, questo “sentirsi” è una semplice mozione degli affetti o una costruzione immaginaria… L’attrazione culturale è un’altra cosa. Io leggo e rileggo con piacere il Bhagavad Ghita, lo medito, vi apprendo sempre del nuovo, e lo stesso dicasi per i Vedda. Ciò non fa di me sul piano culturale ed esistenziale un indiano, né tantomeno mi passa per la testa di mettere in pratica i loro atti di devozione che da quella letteratura nascono o che forse la precedono. Essere ebrei non è solo leggere, è fare. Fare ebraicamente, espressione che copre un vasto arco di comportamenti e azioni. Solo attuandoli e compiendole, si capisce pienamente cosa voglia dire essere ebrei, espressione di difficile definizione e dall’ampio raggio…
Marina Morpurgo: Probabilmente ci si può sentire ebrei senza esserlo, chi sono io per sindacare sensazioni altrui? Anche se personalmente mi pare una bizzarria innocua e solo raramente molesta.
Bruno di Porto: Penso, senz’altro, che persone non ebree possano, per diversi motivi, avvicinarsi agli ebrei e all’ebraismo, fino a desiderare e a proporsi di entrare a farne parte. Il fenomeno ha illustri precedenti e si verifica in concreti casi e soggetti. Credo che vi possa essere una vicinanza e prossimità, prevista dall’ebraismo nella prospettiva noachide, ma che si debbano tenere aperte le vie della completa inclusione.
Sei ebreo se ti chiedi che cosa significhi per te essere ebreo (o no?).
Io non posso rispondere “scientificamente ‘. Il mio ebraismo e sotto la mia pelle, nel mio cuore, nel mio cervello, nel miei sentimenti…Ogni tanto tristezza, ogni tanto gioia, orgoglio, ogni tanto ricordi belli poi ricordi terribili. Ma SONO IO.
Grazie per i vostri commenti e il vostro interesse verso l’argomento! In arrivo altri approfondimenti.
Grazie ad Anna Segre ho capito perché mi sentivo ebrea senza esserlo. Il desiderio di far parte di una comunità dove trovar conforto da un mondo che appariva folle, il non sentirmi mai ‘a casa’ in nessun luogo. Il voler arrivare al nucleo di ogni cosa, sminuzzandola per poi ricomporla. Il voler brindare ‘alla vita’ pur avendo una malinconia nei confronti della stessa. Il desiderio di libertà di pensiero, col senso di colpa annesso se tale libertà infrangeva una regola. La mancanza d’ipocrisia nella dialettica e lo smarrimento e lo stupore nel solo sbirciare alla Kabbalah. Non saremo mai ebrei, ma amiano ciò che significa esserlo nel nostro immaginario. Non è una diminutio, come non lo è l’umiltà davanti alla grandezza.