Cultura
Come conciliare particolarità e universalità: il diluvio e la torre di Babele

Una società senza legge e senza morale in cui ciascuno è proteso al soddisfacimento del proprio utile da una parte, un’unità perfetta all’insegna della concordia e dell’organizzazione produttiva dall’altra. Eppure, il giudizio divino è in entrambi i casi di condanna

“Perché, prima di tutto, Dio ha bisogno di scegliere? Perché Isacco e non Ismaele? Perché Giacobbe e non Esaù? Perché Abramo e non tutti? Perché Israele e non tutta l’umanità?”, si chiede rav Jonathan Sacks nel suo importante Non nel nome di Dio. Confrontarsi con la violenza religiosa (Giuntina). In altre parole, perché il Dio della Torà decide sulla base di quello che, da una prospettiva umana, appare come un arbitrio tanto più insindacabile quanto più assoluto? E come può questa divinità essere allo stesso tempo creatrice del mondo intero, non dunque di un singolo popolo ma di tutti i popoli? Come conciliare particolarità e universalità? Secondo alcuni interpreti, tra cui lo stesso Sacks, occorre rivolgere lo sguardo a due episodi biblici la cui storia viene letta in questi giorni nelle sinagoghe di tutto il mondo. Si tratta delle vicende del diluvio e della torre di Babele.

“Il Signore vide che la malvagità degli uomini sulla terra era grande e che ogni inclinazione dei pensieri del loro cuore era sempre e soltanto male”. Così comincia la storia del diluvio. Il racconto biblico, come noto, prosegue con Dio che si pente di aver creato l’uomo e decide di distruggerlo insieme agli animali, con la significativa eccezione di Noè, uomo giusto, della sua famiglia e delle coppie di animali che salgono sull’arca e che in seguito ripopoleranno la terra. Quello su cui ci soffermeremo qui il punto di partenza, cioè la constatazione della malvagità umana. “La terra”, spiega il testo, “era corrotta e piena di violenza. Dio vide che la terra era corrotta, che ogni creatura seguiva una via di corruzione sulla terra”. Questa descrizione in cui “ogni creatura seguiva una via di corruzione sulla terra”, cioè agiva senza regole, sulla base dell’utile strettamente individuale in inevitabile collisione con quello altrui, evoca quella dello stato di natura nella teoria politica di un pensatore come Thomas Hobbes. Nel tempo fuori dal tempo che precede la convivenza tra uomini, spiega il filosofo inglese, le persone vivono in uno stato di caos, violenza e paura. È la guerra di tutti contro tutti per il cui superamento è necessaria l’istituzione dello stato e della civiltà.

Completamente diversa, a una prima lettura, la descrizione dell’episodio di Babele. Il contesto, in questo caso, è una pianura in cui “si parlava una lingua unica e si usavano le stesse espressioni”. Qui abbiamo non la guerra endemica che rende homo homini lupus, come prima del diluvio, bensì una sorprendente unità di linguaggio, pensiero e intenti. Uniti, gli uomini di Babele intraprendono la costruzione della famosa torre che svetta fino al cielo. Ma il racconto riferisce che al Signore non piace constatare che gli uomini “sono un popolo solo, parlano tutti la stessa lingua […] Niente impedirà loro di fare tutto ciò che si proporranno”. Segue la confusione delle lingue, una pagina di intermezzo con la discendenza di Sem figlio di Noè e infine l’inizio della vicenda di Abramo con la pericope Lech lechà.

I due episodi scaturiscono da situazioni opposte. Una società senza legge e senza morale in cui ciascuno è proteso al soddisfacimento del proprio utile da una parte, un’unità perfetta all’insegna della concordia e dell’organizzazione produttiva dall’altra. Eppure il giudizio divino è in entrambi i casi di condanna. Perché? Se nel caso del diluvio la spiegazione – l’ingiustizia generalizzata – può sembrare evidente, non vale altrettanto per i babelici. Nel Commentario alla Genesi Shemuel D. Luzzatto spiega che obiettivo della generazione successiva al diluvio è di “raccogliersi e non disperdersi su tutta la terra”. Di conseguenza quegli uomini scelgono di edificare una città e una torre che servano come centro. Luzzatto mette quindi in relazione i due episodi e precisamente ritiene che l’atteggiamento degli uomini di Babele trovi spiegazione (non beninteso giustificazione) dal punto di vista psicologico, in quanto ancora forti sono il ricordo dell’atomismo sociale in cui ciascuno agiva in opposizione a tutti gli altri e quello della distruzione tra i flutti. Luzzatto non è il primo a suggerire un legame tra i due episodi. Giuseppe Flavio, nelle Antichità giudaiche, ritiene che la costruzione della torre risponda al tentativo di garantire un rifugio nel caso di un secondo diluvio. Chiudersi in una unità di mattoni e bitume risulta d’altronde espediente altrettanto fallimentare. Secondo un’interprete contemporanea come Donatella Di Cesare la torre di Babele assurge ad archetipo di ogni totalitarismo concentrazionario in quanto incapace di tollerare l’incompiutezza (Grammatica dei tempi messianici, Giuntina).

Dio interviene condannando sia la generazione del diluvio sia quella di Babele. Non lo fa però nello stesso modo, perché destina la prima alla distruzione, la seconda alla dispersione sulla faccia della terra. L’influente commentatore medievale Rashi spiega nel Commento alla Genesi (Marietti) che la differenza sta nell’intenzione. Mentre gli uomini del diluvio hanno intenzioni completamente malvagie, la colpa di quelli di Babele “non era poi così grande, dato che volevano vivere d’amore e d’accordo”, avevano dunque un’intenzione buona. Rashi riprende un midrash contenuto nella raccolta Bereshit Rabbà in cui si dice che “della generazione del diluvio non rimase nessuno, ma della generazione della dispersione rimase un resto”. Gli uomini della prima furono annientati perché interamente corrotti e rapaci, quelli della seconda no “perché si amavano l’un l’altro, come è detto: e su tutta la terra si parlava una lingua unica”.

Secondo gli esegeti le diverse conseguenze nei due episodi corrispondono dunque a colpe diverse. E tuttavia di colpa si parla anche per la vicenda di Babele, che pure non si conclude con una nuova distruzione dell’umanità. Per rav Naftali Zvi Yehuda Berlin di Volozhin (Netziv) il problema sta precisamente nel fatto che al tempo di Babele “si parlava una lingua unica e si usavano le stesse espressioni”. Questo significa che a Babele non è consentito avere opinioni diverse da quelle dei costruttori della torre. “A nessuno era permesso abbandonare la città”, scrive il Netziv, “e coloro che esprimevano idee contrarie erano condannati a morte”. Babele diventa così lo stato della negazione del dissenso e della repressione, uno stato in cui il potere è nelle mani di una fazione piena di buone intenzioni, coerentemente fedele a un’idea e disposta a tutto pur di realizzarla. Negli ultimi secoli, da Robespierre a Pol Pot, sono numerosi gli esempi di simili sette di uomini puri al servizio di un ideale, e delle tragedie che sono seguite.

Per rav Sacks “le storie del diluvio e di Babele sono descrizioni esattamente combacianti con le due grandi alternative: l’identità senza l’universalità, e l’universalità senza l’identità”. Considerati insieme, i due racconti costituiscono “una dichiarazione filosofica sull’identità e la violenza”. Il diluvio è la conseguenza di una situazione in cui ogni altro è un nemico e manca qualsiasi regola in grado di organizzare la convivenza. Come nello stato di natura di Hobbes, manca un potere riconosciuto con la funzione di mantenere l’ordine e il monopolio della violenza legittima. Babele è invece l’esito del tentativo di imporre un ordine unico e universale annullando la pluralità. In questo secondo caso c’è una legge, declinata però in direzione della mancanza di libertà e del totalitarismo. Se il puro arbitrio individuale è un culto dell’identità che porta al diluvio, l’universalismo senza alcun bilanciamento conduce all’imperialismo. Dopo il fallimento del progetto di imporre un’unica lingua e un unico pensiero a Babele, scrive Sacks, “Dio sceglie Abramo e gli dice di abbandonare la sua terra e di viaggiare verso un luogo dove sarà uno straniero e un estraneo: diverso”. Il patto stabilito tra Dio e Noè dopo il diluvio rappresenta universalità e giustizia. Quello con Abramo e la sua discendenza particolarità e amore. Ma per Sacks è fondamentale sottolineare che “la nostra umanità comune”, sancita dal patto di Noè, “precede le nostre differenze religiose”. Il diritto alla differenza, che i babelici ignorano, può innestarsi soltanto sull’uguaglianza che deriva dall’essere parte della medesima specie.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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