Hebraica Parashot
Lekh Lekhà: un nuovo inizio con il cammino di Abramo

La chiamata di Abramo e la nascita del popolo ebraico in tre diverse letture

Le prime tre parashot della Torah riguardano l’inizio. Un inizio diverso, ciascuna: Bereshit, l’inizio del mondo; Noach, l’inizio della nuova umanità, dopo il diluvio e la torre di Babele; e infine, Lekh Lekhà, l’inizio del cammino di Abramo e, quindi, del popolo ebraico. Un’esortazione forte e diretta, Lekh lekhà, vicina all’intraducibilità: “vattene, vai via”; ma anche, “vai per te stesso”. In ogni modo, comincia col primo passo e poi non voltarti. La storia da scrivere è davanti, non indietro.

La parashà di Lekh Lekhà racconta della partenza di Abramo, con la moglie Sara, dalla città natia di Ur e della rottura (in tutti i sensi) con il credo politeista della famiglia; del viaggio in Egitto, della guerra di Siddim e della separazione dal nipote Lot (che ritroveremo nella parashà seguente con la storia della distruzione di Sodoma e Gomorra); della nascita di Ismaele e dei primi screzi tra Agar e Sara; del patto di alleanza, segnato dalla circoncisione, e della promessa di una discendenza “numerosa come le stelle del cielo”, che sarà suggellata dalla nascita di un altro figlio. Questa volta di Sara, che pure è vecchia e sterile. Qui di seguito, tre spunti per riflettere sui significati di queste pagine.

Halakhà, ovvero non restare fermi

Uno degli aspetti più caratterizzanti di Abramo, commenta Moriah Dayan su Ohr Torah Stone, è quello di non restare mai fermo nello stesso posto. I termini che il testo biblico gli associa, in questa parashà e nelle seguenti, hanno continuamente a che fare col movimento: “incamminarsi”, “mettersi in viaggio”, “svegliarsi presto la mattina”.

La vocazione di Abramo al movimento è estensivamente discussa nella letteratura rabbinica. In Bereshit Rabbah, per esempio, Abramo viene paragonato a un vassoio che contiene incenso. Se il piatto rimane immobile, non si sente alcun profumo; ma se il piatto prende a oscillare, ecco che quel profumo può essere avvertito anche a lunga distanza. “Questo è forse il tratto più rilevante di Abramo. Qualcosa di nuovo che egli porta al mondo. In Bereshit Rabbah leggiamo “Il mondo intero da un lato, e Abramo dall’altro”. Abramo non rimane rigido. Non aderisce alle norme. Al contrario, si pone in costante evoluzione e instancabile ricerca. Il suo continuo movimento diffonde un buon profumo intorno al mondo”.

Non è un caso, prosegue Dayan, che la parola indicante il corpus giuridico dell’ebraismo, Halakhà, derivi dal verbo lalekhet, “andare”, proprio quello che nel titolo della parashà troviamo all’imperativo. Halakhà è la legge, ma anche il percorso in sua direzione. Un’esortazione al cammino, e non all’immobilismo: “La Halakhà è un percorso che ci chiede di udire la stessa chiamata che udì Abramo: camminare, cercare, muoverci, svilupparci in sintonia con le nostre condizioni di vita”.

Perché Abramo?

Rabbi Jonathan Sacks su Algemeiner ci fa immergere in una domanda intrigante: perché Dio scelse proprio Abramo per suo il patto di alleanza? La Torah, in quanto a spiegazioni, è laconica. Mentre di Noè scrive esplicitamente che “era un uomo giusto”, di Abramo e della sua vita prima della chiamata divina rivela ben poco. La letteratura rabbinica propone tre interpretazioni dell’enigma.

La prima: Abramo è l’iconoclasta, il distruttore di idoli. Secondo la tradizione, infatti, distrusse gli idoli che il padre nel proprio laboratorio fabbricava e vendeva. Il racconto non manca di una punta di ironia. Una volta conclusa l’opera, Abramo lasciò il bastone che aveva utilizzato accanto all’idolo più grande. Quando il padre tornò e chiese spiegazioni di tutto quel macello, Abramo lo indicò e disse: “È stato lui”. Alla collera del genitore – “Mi stai prendendo in giro? Gli idoli non possono nulla” – rispose: “Se sai che non possono nulla, perché dunque li veneri?”. In tale aspetto, Abramo rappresenta la rottura col pensiero prefabbricato, con le illusioni, con il rifiuto della ricerca. Avraham Ha-Ivri, l’ebreo, “colui che attraversa, che passa oltre”.

La seconda spiegazione, proposta da Maimonide e in un certo senso legata alla prima, è che Abramo fu il primo filosofo, il primo a porsi domande di tipo metafisico: fin da giovane, non si accontentava di vivere il mondo senza capirlo. “Com’è possibile che il mondo sia in continuo movimento senza che nessuno lo muova?”.

La terza, infine, è che Abramo fu il primo essere umano a ribellarsi all’ingiustizia. Un midrash paragona la chiamata di Abramo a un uomo che, vagando di terra in terra, si trova di fronte un palazzo in fiamme e chiede: “Possibile che il palazzo non abbia un padrone”? E in quel momento qualcuno si affaccia: “Sono io il padrone del palazzo”. Il palazzo rappresenta l’universo e le fiamme il male che lo tormentano. La domanda di Abramo significa dunque “Possibile che il padrone dell’universo non si curi del male che rischia di distruggerlo?”. Il fatto è che per donare la libertà, Dio si è “ritirato” dal mondo, ha “contratto” la sua presenza perché non opprimesse l’umanità: tzimtzum è il termine cabalistico che descrive questo fenomeno. Così, le fiamme non si possono spegnere se non ci mettiamo del nostro. La risposta enigmatica che proviene dal palazzo può allora significare: “Serve il tuo aiuto per spegnere le fiamme”. Abramo è il primo uomo a farsi strumento di tikkun olam, “il padre della fede, dove fede non è accettazione ma protesta”. Un’attitudine che si rivela in modo folgorante nella parashà successiva, con l’appassionata preghiera a Dio di riconsiderare i piani per la distruzione di Sodoma e Gomorra; il primo ad agire in nome di Dio cambiare il mondo, invece di accettarlo passivamente così com’è.

Ismaele, l’altro figlio di Abramo: un appello all’unità

La vicenda della chiamata di Abramo e della nascita di un legame speciale tra Dio e la sua discendenza, il popolo ebraico, cattura la nostra attenzione al punto da distoglierla da una storia dentro la storia, non meno importante: quella del primogenito di Abramo, Ismaele. Nato dall’unione tra Abramo e Agar, la schiava egiziana di Sara, Ismaele è considerato il capostipite dei musulmani.

Erika Davis su My Jewish Learning riflette sulla dinamica che in Lekh Lekhà si sviluppa all’interno di questa ancestrale “famiglia allargata”. Abramo e Agar si uniscono per volontà di Sara, perché una discendenza sia assicurata; ma durante la gravidanza di Agar, Sara ne diventa così gelosa che la maltratta ripetutamente, fino a che la malcapitata, presa dalla disperazione, si decide a prendere la via del deserto. Molte interpretazioni vedono in queste righe il seme della divisione tra ebrei e musulmani. Ma secondo Davis, sotto la superficie è nascosto invece un richiamo all’unità. La fuggitiva Agar viene infatti consolata da un angelo di Dio, che non solo promette benedizione e prosperità al nascituro Ismaele e alla sua discendenza, ma le intima anche di tornare da Sara. “Non penso che Dio abbia ordinato ad Agar di tornare da Sara così, tanto per, ma che abbia voluto mostrare a tutti noi che dobbiamo unirci. La storia avrebbe potuto essere diversa. Dio avrebbe potuto lasciare andare Agar con la promessa di una grande nazione per il figlio non ancora nato. Invece, Dio fa riunire le due donne, riunisce la famiglia complessa di Agar, Sara, Abramo e i loro figli. (…) Dio promette una grande discendenza a entrambi i figli di Abramo, stabilisce il medesimo patto in modi e tempi diversi”.

Il ritorno di Agar nella famiglia di Abramo, benché preludio della successiva, definitiva separazione, non è una storia melensa “in stile kumbaya, bensì è un racconto di unità familiare complesso e concreto”, tra le cui righe possiamo leggere un appello a guardare oltre le divisioni e ad ascoltare, come suggeriscono le parole stesse: Ishmael, “Dio ascolta”, lo stesso verbo che nella preghiera per eccellenza dell’ebraismo viene pronunciata all’imperativo: shemà, ascolta.

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


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