Cultura
Conscious Collective: la complessità di Israele in mostra a Roma

L’arte di Tsibi Geva, Maria Saleh Mahameed e Noa Yekutieli racconta la variegata realtà culturale di Israele. Tra identità, luoghi, memoria e legami.

Tsibi Geva, Maria Saleh Mahameed, Noa Yekutieli: tre grandi artisti israeliani sono ospiti al MAXXI di Roma fino al 3 giungo. Il titolo della mostra Conscious Collective – curata da Bartolomeo Pietromarchi e Shai Baitel si propone di narrare una storia corale ma al tempo stesso individuale, caratterizzata dalla peculiarità di ciascun artista e la propria tecnica stilistica, attraverso una narrazione in cui i tre punti di vista si intrecciano assieme, producendo una sinfonia site-specific, pensata appositamente per lo spazio espositivo del MAXXI.

L’“inconscio collettivo” in questione è quello di un Paese in costante conflitto. Tuttavia, ogni artista arricchisce l’esperienza del conflitto attraverso la propria prospettiva che è al tempo stesso individuale e nazionale, rappresentando ciascuno genere, generazione, identità etnica e religiosa diversa. Diverse le origini, le influenze, le sensibilità, persino le tecniche e i materiali che i tre artisti prediligono, pur mettendo in gioco inattese connessioni e andando a toccare, ciascuno, le radici delle proprie biografie e le proprie esperienze, intime ma universali al tempo stesso: Tsibi Geva (Israele, 1951), di origine ebraica askenazita, nato e cresciuto in un kibbutz, fu il figlio di uno dei maggiori esponenti del Bauhaus israeliano, ed è considerato oggi uno dei più importanti artisti israeliani a livello internazionale, avendo rappresentato Israele alla Biennale di Venezia del 2015 e lavorando costantemente tra Tel Aviv e New York; Maria Saleh Mahameed (Israele, 1990) nata e cresciuta ad  Umm el-Fahem – una delle più grandi città araba di Israele – è figlia di padre palestinese musulmano e madre ucraina cristiana; Noa Yekutieli (USA,1989) è un’artista multidisciplinare autodidatta nata in California da madre giapponese e padre israeliano, che vive tra Tel Aviv e Los Angeles.

 

©Musacchio, Ianniello, Pasqualini & Fucilla

Come raccontato dai curatori, richiamando il concetto junghiano di “inconscio collettivo” – un’eredità appartenente a un lontano passato comune a tutta l’umanità – l’obiettivo di questa mostra a sei mani è quello di indagare come sia possibile ritrovare un senso di collettività anche in una terra in cui il conflitto è costante, accettando la vita con tutte le sue contraddizioni e facendo di questo la chiave per un’esistenza migliore, in Israele e nel mondo.

In particolare, i tre lavori esposti narrano alcuni dei “topos” frequentemente esplorati dai tre artisti nella loro arte: Where I Come From di Tsibi Geva è un’opera modulare composta da tele di diverse dimensioni ma assemblate come un organo collettivo la cui collocazione è stata pensata in modo olistico. Ogni tela, quindi, da un lato ha una sua autonomia e identità; dall’altro, attraverso il rapporto con le altre tele, sviluppa nuove connessioni e disconnessioni, creando una sorta di “pattern” che diventa metafora di quegli incontri casuali e di quelle decisioni che hanno fatto sì che questo artista – così come le altre due – si sia ritrovato a vivere in Israele. Il tema dei “pattern” – come quello della kefiah, i pavimenti terrazzati a balatot, e le recinzioni – è un motivo spessoricorrente nelle opere di Geva, quasi come se l’artista volesse esplorare il modello ripetitivo tipico della complessarealtà israeliana dove i confini, ma anche la vita quotidiana, si intrecciano.

Allo stesso modo, nell’installazione progettata per il MAXXI, questi elementi modulari si sviluppano rizomaticamente in direzioni e contesti diversi, inaspettati come le linee che, tra continuità e disconnessioni, costituiscono una sorta di“road map”, senza né un inizio né una fine ben precisa, con un approccio che si propone “aperto” ad ogni possibilità.

Anche i lavori di Maria Saleh Mahameed sono spesso caratterizzati – per via delle lunghe tele su cui racconta momenti cruciali della sua vita – dal sembrare di non avere né un inizio né una fine, come se ognuno avesse le sue radici in un lavoro precedente e trovasse il suo proseguimento in quello successivo, attraverso una narrazione intima ma al tempo stesso nazionale: quella del popolo palestinese.  In particolare, Ludmillal’opera esposta al MAXXI – descrive un paesaggio immaginario in cui si coniugano riferimenti alla città natale dell’artista, Umm el Fahem, e Kiev, città natale di sua madre, Ludmilla, da cui l’opera prende il nome. È questo il primo capitolo di una serie dedicata alla storia dei suoi genitori e di come, a loro volta, le loro storie abbiano influenzato la sua arte.

In questa tela, realizzata con la tecnica del carbone – materiale caratteristico di Umm el-Fahem (letteralmente “madre del carbone”) e dominante nel lavoro di Saleh Mahameed che, quasi come in un disegno infantile, esplora la propria espressività intima e viscerale – vengono rappresentate le memorie della madre, giovane donna ucraina cristiana, trasferitasi per amore in una società caratterizzata da una forte identità culturale islamica e palestinese.

Come la memoria stessa – e come in molti altri lavori dell’artista – la narrazione in mostra non è ricostruita attraversouna prospettiva lineare, piuttosto grazie a una raccolta fluida di immagini in cui paesaggi sovietici si fondono con panorami mediorientali, con motivi che vanno dagli ulivi palestinesi a Misha, l’orsetto mascotte delle Olimpiadi di Mosca del 1980. In questo modo Ludmila si propone anche di essere un’opera sulla femminilità e sulle relazioni intergenerazionali, ambientata in diversi luoghi del mondo e segnata dalle diverse identità che costituiscono la complessa identità dell’artista.

Infine, l’installazione Where We Stand di Noa Yekutieli, composta da finestre di carta ritagliata, incornicia un amalgama di immagini eterogenee che evocano di volta in volta paesaggi naturali e paesaggi di distruzione e conflitto, associati all’illusione ottica creata dalle finestre, che induce chi le osserva a mettere costantemente in discussione le relazioni prospettiche tra gli elementi che la compongono. La distorsione, infatti, tende a far riflettere i visitatori su come lo spazio che li circonda possa modificare la percezione di sé e della società, ed al tempo stesso invita a esaminare le visioni socio-politiche soggettive, mostrando come ogni percezione possa essere molto più flessibile di quanto non si creda. L’installazione, dunque, aldilà del conflitto arabo-israliano, ci interroga sulla propensione dell’essere umano ad aprire e chiudere selettivamente gli occhi sulla realtà, e a mascherare o negare la verità per poter sopravvivere.

Anche dal punto di vista della tecnica, la pratica interdisciplinare di Yekutieli – che combina elementi scultorei, objets trouvés e l’arte del taglio della carta giapponese – si propone di abbracciare le sue diverse identità, spesso contrastanti, di donna nippo-israelo-americana, prendendo in esame le diverse tensioni tra esperienza umana e prospettivamulticulturale. Per questo, anche nei suoi altri lavori, Yekutieli combina spesso diverse tecniche di raffigurazione dello spazio, obbligando il visitatore ad osservare le sue opere da prospettive diverse e inducendolo a mettere costantemente in discussione la lettura dell’opera stessa.

Tre approcci diversi e complementari, per raccontare la complessità di un Paese i cui confini, come possiamo apprendere dai tre lavori esposti al MAXXI, trascendono quelli fisici dello Stato di Israele. Per citare il grande regista israeliano Uri Zohar: “Israel is not a State, is a state of mind…” Mai come questa mostra, con questi tre grandi artisti in dialogo tra loro, ce lo ricorda.

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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