Cultura
Cosa significa pensare un museo del fascismo?

Storia, politica e visioni del mondo in forma di teca. Analisi di un’idea controversa

Si torna stancamente a discutere della plausibilità di un non meglio precisato «museo del fascismo», una sorta di istituzione nazionale non solo espositiva ma informata a criteri di pedagogia pubblica. Così era già stato in quel di Predappio, con un conflitto vissuto soprattutto nel centro-sinistra, nel quale trovavano spazio sia sostenitori che detrattori. Poi ancora rispetto ad altri luoghi – con minore risonanza di stampa – per arrivare adesso a Roma. La qual proposta, in quest’ultimo caso, ha il medesimo sapore (e l’impostazione di fondo) della titolazione congiunta, oppure in simultanea, di una via ad Enrico Berlinguer e a Giorgio Almirante. Poiché sarebbero due «brave persone», due politici «di razza» accomunabili, oggi evocati come simulacri di quella «pacificazione» alla quale il cripto-fascismo di ogni pasta, da sempre aspira nel nome di una sua rilegittimazione a pieni voti. Non solo elettorali, per intenderci. Una pacificazione da leggersi come parificazione, ossia qualcosa del tipo: posto che in storia ognuno ha le sue ragioni, a nessuno va imputata altra colpa che non sia quella di essere ciò che è stato, sospendendo al riguardo qualsiasi giudizio di ordine politico ed etico.

La mediocre operazione che associa il segretario del Partito comunista italiano a quello del Movimento sociale italiano è un perfetto, compiuto, “adamantino” esempio di opacizzazione e deliberata confusione del passato. Che costituisce, nella maggioranza dei casi, il vero obiettivo di chi evoca, ad ogni piè sospinto, il bisogno di guardare ancora una volta il passato senza «veli ideologici» né filtri del tempo o «steccati precostituiti». Come se l’allontanarsi cronologicamente da un fenomeno sia di per sé una delle migliori garanzie di imparzialità di valutazione, al pari del falso convincimento che la narrazione dei fatti debba essere, al medesimo tempo, non solo rigorosamente oggettiva ma, in qualche modo, risarcitoria per gli «sconfitti». Si tratta di meccanismi pienamente ideologici, invece, quelli che ispirano tali atteggiamenti. Inscrivendosi nel novero dell’ideologia che elogia il tempo della fine delle ideologie.
E non meno significativo il fatto che i conflitti di interpretazioni sulla plausibilità o meno di processi di rilettura dei trascorsi attraversino, a volte lacerandolo, quel campo di forze politiche e sociali che espresse, nelle generazioni trascorse, il rifiuto del fascismo. Sono infatti il segno della decadenza delle culture politiche di cui tali forze si sono alimentate fino a non molto tempo fa. Un vuoto, generatosi in questi ultimi tre decenni, al quali si sostituisce non tanto un’abiura dell’antifascismo medesimo quanto la sua incomprensione rispetto alle dinamiche dell’oggi, ovvero alla sua persistente necessità. Riferirsi nell’oggi al dibattito sulla storia del fascismo come oggetto di pedagogia civile (per l’appunto musei, topografie, simbolismi e quant’altro), ci restituisce assai di più il segno del disagio e della confusione che allignano in quanti dicono di volersi (ancora) opporre ad esso che non dei propositi apologetici dei nipotini di quel tempo. Questi ultimi, infatti, non hanno la forza di un progetto culturale proprio né, in tutta plausibilità, ambiscono a dargli sostanza, ritenendo semmai che il rapporto con ciò che è stato coincida con il farne l’apologetica rivalutazione e null’altro.

Parlare di fascismo, in Italia, è tanto difficile quanto, nei fatti, esercizio diffuso, inflazionato, retorico. Poiché la sovrapposizione tra il Paese e la memoria storica di quel periodo della sua esistenza è pressoché non solo perdurante nel tempo ma radicale. Ovvero, rimanda alla radice comune. Quasi fosse la matrice di un’irrisolta identità collettiva. Si ripete quindi a distanza di più di settant’anni dalla sua tragica conclusione, al limite dell’ossessività. Sapendo che quanto rimane sospeso nel limbo della ripetitività è quasi sempre indice di un conflitto interiore non risolto. Come tale, destinato a pungere in maniera maniacale, ovvero a disturbare ad ogni passo, al pari del sassolino che sta dentro la scarpa nel mentre si cammina e del quale non ci si riesce a liberare. Al punto che il dichiararsene invece del tutto estranei, adducendo a motivo, tra gli altri, la differente appartenenza generazionale, è spesso invece un indice di irrisolta simpatia verso qualcosa che è in sé ancora accomunabile all’eco stesso del fascismo storico. Un esempio, a tale riguardo, sono le polemiche che, tanto stancamente quanto aggressivamente, si levano con periodica petulanza da certe parti dello schieramento politico, evocando l’anacronismo del continuare a ricordare i fatti del passato. A corredo di una tale lamentazione, quasi sempre si accompagnano il rimando al fatto che «la storia è scritta dai vincitori»; la bislacca scenografia di un regime che, in fondo, troppo male non sarebbe stato (né avrebbe fatto); la finzione di un’inedita scoperta, quelle delle colpe dei «vincitori», che si sarebbero macchiati di crimini non diversi da quelli del fascismo medesimo; soprattutto, l’irrisione dell’antifascismo, descritto come un’arrugginita icona del passato, priva di qualsiasi riscontro non solo morale ma anche e soprattutto sociale. Il nesso tra Liberazione come concreto fatto storico, manifestazione di una volontà collettiva, che si vorrebbe archiviare, e la libertà come puro richiamo nominale, individualistico, si inscrive in questo spazio di voluta ambiguità.

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Parliamo peraltro di memoria storica, e non di storia in quanto disciplina. Come neanche di memorie in senso stretto, intendendo queste ultime perlopiù come un esercizio individuale che confluisce poi in una sensibilità collettiva. Poiché le immagini del fascismo che affollano i nostri pensieri sono non solo durevoli ma destinate a continuare a modellare le identità collettive. In questo, il regime mussoliniano è riuscito nel suo scopo: occupare stabilmente le fantasie, prima ancora che i pensieri strutturati, critici o meno che siano, degli italiani, obbligandoli a pronunciarsi costantemente sulla sua lunga ombra. L’essenza di quel fascismo che “non se ne va via”, che non passa – infatti – non è la persistenza di un progetto politico; non è un’ideologia definita, in verità mai esistita (quando semmai, la sua forza è stata quella di adattarsi camaleonticamente alle circostanze dettate dal caso e dai contesti, coniugando opportunismo a conformismo e qualunquismo); non è una prospettiva verso il tempo a venire (il fascismo si identificò sempre con l’erotismo necrofilo della morte, ovvero di ciò che era stato e non di quello che potrebbe essere) bensì il desiderio continuo e inappagato di uno sguardo retrospettivo, ripetuto ossessivamente come se fosse il fuoco di un’armonia da recuperare.

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La nostalgia per un «ordine» ed una «gerarchia» intese come naturali – ossia rispondenti ad una sorta di equilibrio precostituito, messe altrimenti in discussione da una modernità feroce e senza volto, nei confronti della quale il regime dei valori e delle identità imperiture si incaricava di intervenire per ripristinare le sicurezze smarrite (si pensi al fatto che i fascismi storici sorgono e si affermano dopo la Grande guerra, nel mezzo di un succedersi di crisi economiche e sociali a ripetizione) – è il fulcro della sua eterna “desiderabilità”.
Anche per queste ragioni, che persistono e si rinnovano nelle infinite maglie del pensiero collettivo, rimane un fascismo come substrato emotivo, identificativo, suggestivo. Non è ignoranza, autoinganno e neanche, necessariamente, sola apologia. Semmai è una risposta affermativa al richiamo di protezione che il regime seppe allora intercettare e riprodurre come strumento di auto-accreditamento, facendosi garante di un simulacro di identità collettiva dinanzi a collettività smarrite dal duplice effetto degli sconvolgimenti mondiali e dell’essere violentemente proiettate sull’agone politico. Il comunismo storico, da questo punto di vista, è morto. Non lascia alle sue spalle vestigia di grandezza che non siano le sue stesse, insopportabili rovine. Verrà quindi ricordato come la grande distopia del Ventesimo secolo. Rimarrà un tale frame, una cornice soprattutto di delusioni, fallimenti e disillusioni, a fronte di un sistema sociopolitico che, promettendo di sciogliere definitivamente i vincoli alla libertà e alla giustizia, praticò invece la coercizione come forma più “elevata” di autorealizzazione. Del fascismo, invece, è rimasto ben altro. Poiché non si è mai posto nella logica di garantire un “nuovo mondo”, prodotto necessario delle “leggi della storia”, proiettato come tale verso il futuro, bensì di recuperare e ripristinare un tempo perduto, quello interrotto dai processi rivoluzionari borghesi. Il tempo perduto è quello di una coerenza che la modernità ha invece brutalmente compromesso. Molti contemporanei, al netto delle loro opinioni politiche, cercano non la sedizione, la ribellione e poi la rivoluzione ma piuttosto l’autorità che sancisce la prevedibilità, il potere che divide severamente ciò che è cattivo da quanto è buono per poi, dopo essersi riconosciuti in questo secondo gruppo, chiedere di essere tutelati dalla sventura di una storia senza pietà, quella che abbandona i singoli al loro destino. Ancora una volta, la storia del fascismo e i suoi tentativi di ricostruirla sul piano museale ci restituiscono alle contraddizioni, alle aporie del tempo che stiamo vivendo.

Esiste poi un conflitto tra storici (questi ultimi intesi come vera e propria corporazione, che rivendica a sé il giudizio di merito sulla bontà di qualsiasi operazione museale e memorialistica) e il resto dell’agone pubblico, perlopiù composto da pubblicisti ed opinionisti. Non è un confronto da sottovalutare né da risolvere sbrigativamente. Il fascismo, essendo un generatore continuo di immagini e quindi di costrutti mitologici, rivendica per sé il diritto di non essere analizzato bensì immaginato e raffigurato. Quindi “capito” ed accettato come parte di una identità collettiva. L’intera intelaiatura del regime storico, come dei lunghi echi che ha prodotto, fino a quelle parti di Roma e dell’Italia che a tutt’oggi esprimono architettonicamente e stilisticamente la sua trascorsa presenza, sono la cornice di questa dimensione metastorica. Le immagini, tanto più in un caso come questo, non sono elementi superficiali ma parti profonde di un modo di pensare uomini e cose, relazioni sociali e rapporti di potere. Qualcosa che non si liquida con la fine del sistema politico che le ha generate. Tutta l’astiosa polemica sulla continuità e sulle discontinuità rispetto al Ventennio mussoliniano, deve quindi confrontarsi con un tale campo di indagine.

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Come ha scritto recentemente David Bidussa, se si parla di un museo sul fascismo, particolare ordine di problemi è dettato: «dall’arco cronologico che si propone. Ovvero se con fascismo intendiamo la crisi dello Stato liberale, la definizione di un linguaggio, la costruzione di un movimento, la definizione di un regime, il suo crollo e dunque fissiamo quel tempo lungo un arco temporale più o meno solido (1914- 1945) oppure 1919-1945, o, invece non pensiamo che quel museo sia in realtà un’occasione per pensare più in una dimensione di “lunga durata” e dunque non mettiamo in partita non gli eventi, ma le mentalità e, appunto la storia del processo di nazionalizzazione degli italiani che dunque include altri fenomeni e altri percorsi anche temporalmente diversi che hanno un’influenza sul nostro oggi. [Ovvero], più precisamente, ancora oggi». Così come: «la questione della continuità e della discontinuità del fascismo nell’Italia democratica è stata spesso intesa come mantenimento delle strutture e delle persone […]. Continuità è solo questo o anche altro? E se è altro, non conviene avere appunto del fascismo un’informazione che non ci racconti solo i fatti ma anche cosa è successo nella mentalità dei nostri nonni e quanto di quella mentalità (intatto, modificato, rivisto, oppure inconsapevole …) si è conservato in noi, ora? E andando alle origini: come si è costruito? Definito? Attraverso quale idea di identità e di politica si è dato? Non sarebbe questo appunto non un museo/mostra, ma un museo laboratorio dove la storia parla a noi e anche chiede di parlare di noi?  Diversamente: un luogo in cui periodicamente tornare per fare il bilancio di sé e non solo un luogo per mettere in sicurezza le nostre certezze?».

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A queste considerazioni, in conclusione, si possono aggiungere alcune note su ciò che, al momento, dopo il disfacimento delle culture politiche antifasciste, afferma invece di volersi contrapporre alle logiche fasciste. Se queste ultime si alimentano del richiamo ad un tutto indistinto (la nazione, la comunità popolare, la stirpe), l’antidoto che viene identificato è l’esaltazione dell’identità personale e soggettiva. Ovvero, dell’individualità come il punto di inizio e di arrivo delle libertà. Assai più difficilmente, invece, della giustizia sociale. Per molti aspetti, un tale orizzonte è più il sintomo di una crisi in atto che non di un suo tentativo di soluzione. In altre parole, si inscrive dentro l’incapacità di dare una risposta allo sbandamento delle collettività, sotto l’impellente urgenza di una trasformazione che sta purtroppo investendo tutti gli spazi della vita, personale e collettiva. Il tema della colpa, e quindi dell’accusa di colpevolezza nei confronti degli oppressori, è diventato il sostituto di qualsiasi progetto di emancipazione. Anche nella fruizione del giudizio storico. Il contenuto politico di questo modo di reagire allo stato delle cose esistenti, coniuga il moralismo dell’offeso, dell’individuo che riesce a pensarsi solo come vittima, all’individualismo che riconosce se stesso come unico indice sul quale valutare il resto del consorzio umano. Sembra un paradosso ma, nella realtà dei fatti, presenta molte analogie con il narcisismo dei poteri che non decidono, con l’insieme dei populismi, degli identitarismi, dei sovranismi. Ne è una sorta di specchio capovolto. Poiché fa piazza pulita del bisogno di storia.
Come ha affermato il politologo Carlo Galli, in questo caso: «l’obiettivo politico è giudicare con moralità assoluta, apodittica, sottratta al tempo e allo spazio. La neolingua non conosce la storia, la nega, e attraverso l’anacronismo tende all’acronia», ossia alla negazione dello scorrimento del tempo. Ed ancora: «nel politicamente corretto la severa ideologia liberal che ne fa la propria bandiera si mostra parente dell’euforica ideologia del neoliberismo, della sua visione della società come un giustapporsi di attori individuali, che abitano un eterno presente. Ciò che si dice del politicamente corretto sotto il profilo linguistico in senso stretto – la polizia e la pulizia del linguaggio – vale anche per quei linguaggi materiali che sono i monumenti e le architetture, attraverso i quali lo spazio pubblico viene scritto e riscritto nei secoli. La lotta per l’immagine e il simbolo, o contro di essi, è vecchia come l’umanità: non c’è da scandalizzarsi se avviene sotto il segno della politica, poiché ne fa parte. Si tratta ogni volta di decidere chi è meritevole di rappresentazione e chi no […]. Ma è lecito, appunto, leggere quella lotta politicamente, e rifiutarle [invece] la patente morale che si auto-assegna. Così, se è comprensibile che non si erigano monumenti a Hitler, ma semmai alle sue vittime, è assurdo che si sia pensato di abbattere la statua di Churchill perché razzista; il suo spirito di dominio imperiale, venato di superiorità dell’uomo bianco, è stato vinto dai processi materiali della  storia reale; mentre ciò che conta è che quell’istinto lo ha spinto a capire che il nazismo era un nemico mortale, con cui non si poteva scendere a patti».
Il punto, quindi, è uno solo: nessun museo potrà mai assolvere ad una pedagogia democratica se esso non incorporerà, nella sua offerta, la complessità, la stratificazione, la conflittualità come elementi permanenti dell’azione politica. Sostituendola all’insindacabilità della condanna morale che tutto giudica ma nulla spiega. Perdere di vista questi elementi, vuol dire semmai interrogarsi su come si disponga, in successione, una raccolta di teche, la cui destinazione può benissimo adattarsi ad un’apologia acritica così come al gioco degli anatemi astorici. Poiché il rifiuto del fascismo va riargomentato costantemente, mutando nelle sue ragioni, di generazione in generazione. Non è un punto di arrivo bensì di partenza.

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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