Cultura
Cos’è la cultura di destra? Da Furio Jesi alla trap, in un’intervista a Enrico Manera

Miti d’oggi, tic sociali e universi giovanili letti con la lente dell’intellettuale torinese che ha indagato il mondo della destra

Parlare di un sistema culturale capace di definire la destra significa connettersi immediatamente al pensiero di Furio Jesi che nel 1979 pubblicava una raccolta di saggi con il titolo Cultura di destra. Analizzava i tanti aspetti della destra, conservatrice e tradizionale, fascista e neofascista. Quella chiave di lettura però è estremamente attuale e permette di guardare la contemporaneità con uno strumento pensato per scandagliare i tic della società attuale, in una lettura che si snoda sui concetti di mito, lusso, conformismo. Ne abbiamo parlato con Enrico Manera, specializzato in Scienze della cultura e dottore di ricerca in Filosofia, studioso delle teorie del mito e della memoria culturale in età contemporanea e sulla convergenza tra storia, antropologia e politica.

Cosa si intende con l’espressione cultura di destra?
Nel 1979 Furio Jesi pubblica Cultura di destra. Da studioso e militante di sinistra, in anni in cui mancavano studi su quell’ambito, Jesi esplora aspetti del linguaggio, delle iconografia e delle mitologie e individua le radici comuni al mondo della destra non solo nel pensiero politico ma anche nella religione, nella tradizione esoterica, nei modelli letterari alti e bassi. Jesi è stato un pioniere della decostruzione oggi diffusamente praticata e ha anticipato l’attenzione alla componente razzista e antisemita negli studi culturali, con una visione sensibile agli aspetti antropologici e alla mentalità più profonda rispetto all’idea di una ideologia pensata come propaganda.
In estrema sintesi, la cultura di destra mostra un accentuato carattere mitico e appare radicata nel patrimonio di idee e valori della cultura europea moderna. Jesi scriveva per un’opinione pubblica che riduceva la destra a ignoranza e incultura, credendola di fatto passata o irrilevante e sottovalutandone la persistenza: il mondo mentale di destra è per lui qualcosa che deriva per estenuazione e per sintesi dalla cultura classica, umanistica e borghese, che si forgia negli anni del ferro e del fuoco del Novecento e che viene trasmesso in modo inconscio nel linguaggio. Jesi sosteneva infatti che «la maggior parte del patrimonio culturale è residuo culturale di destra», anche per chi non pensa di esserlo. La destra è uno stile antropologico, una serie di fatti linguistici caratterizzati da un rapporto con il tempo: il passato è idealizzato e visto come legittimazione di un futuro meraviglioso che deve essere attuato nel presente, a sua volta vissuto come tempo di crisi e decadenza; la cultura di destra si realizza in retoriche e pratiche, patrimoni di idee e modi di agire. Ha un elevato tasso di «tecnicizzazione», manipolazione di determinate immagini rese mitiche e quindi strumento di mobilitazione e azione. Jesi la definì (su L’Espresso, in un’intervista del 1979) come «la cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile». Non è un caso che in anni caratterizzati da un uso pubblico della storia spregiudicato e continuo, fatto di revisionismi o fake news storiche volti a nobilitare e giustificare le destre del presente, il lavoro di Jesi sia guardato con rinnovato interesse anche all’estero, in Francia e nel mondo anglosassone.
Ma è anche «una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari», «una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire». Si tratta di un linguaggio fatto di «idee senza parole» (secondo la definizione datane da Spengler negli anni Trenta): un linguaggio mitico perché capace di esprimere l’azione, gesti e rito, attraverso parole spiritualizzate che si scrivono con la lettera maiuscola – Tradizione, Terra, Sangue, Razza, Origine, Nazione, Famiglia, Sacrificio, Martiri… Per Jesi la loro funzione è quella di significare un surplus di valore in una cornice di lusso spirituale che le rende simboli, dotati di valore magico e capaci di realizzare verità che si presentano come eterne, preziose e esoteriche.

Tra gli elementi che meglio la caratterizzano ci sono i mitologemi e quella macchina mitologica che agisce sulle persone.
Nell’analisi di Jesi la mitologia è un prodotto socioculturale che si concretizza nella circolazione di idee, immagini, gesti, azioni. Jesi ha coniato fin dai primi anni Settanta la felice formula della “macchina mitologica”, che si può definire una forma indefinita di congegno che genera manifestazioni del mito.
In un primo senso la macchina mitologica indica l’elaborazione teorica sul mito nel suo farsi storico e nella produzione teorica delle varie “scuole” che si sono dedicate alla scienza del mito: Jesi la usa per indicare la difficoltà di parlare del mito e per circoscrivere un oggetto elusivo e che non deve ipostatizzarsi ed essere pensato come sostanza, secondo le molte concezioni metafisiche che il Novecento ha ereditato e riproposto.
In un secondo senso le macchine mitologiche sono intese come dispositivi, dinamiche che conducono alla fabbricazione di miti, nei diversi tempi e società che se ne servono: pratiche, sistemi e processi generano materiali caratterizzati da un’aura mitica. Se la prima accezione è significativa dal punto di vista teorico per una scienza della cultura, questa seconda è utile a comprendere “come si fanno cose con le parole”, ad esempio con le retoriche e lo storytelling.
Yves Citton, un pensatore francese contemporaneo, utilizza il concetto di «potere di scenarizzazione», ovvero la capacità di sceneggiare/mettere in scena stili di vita, modelli e ruoli che le persone attuano nelle loro vite: da questo punto di vista la capacità del mito è quella di avere forza di “metaconduzione” delle condotte altrui. Se nella prima accezione si avvicina alla filosofia decostruzionista di Derrida, in questa il discorso di Jesi assomiglia a quello semiotico di Roland Barthes sulle mitologie moderne.
Quello che chiamiamo “mito” come genere e che decliniamo al plurale nei suoi tanti volti è il risultato di un complesso meccanismo che produce reti di significato che garantiscono identità, ovvero la consapevolezza dal forte valore emotivo di uno o più appartenenze. In questo senso senso “mito” – con le debite differenze rispetto al suo significato religioso – può essere riferito alle credenze di gruppi umani nel passato o in altrove geografici tanto quanto alla società attuale in cui viviamo. Ogni contesto crea e condivide propri miti.
Come funziona? La macchina mitologica, diceva Jesi, produce fatti mitologici, «concentra in un sol punto, extra temporale, extraspaziale, le luci che provengono dal passato e dal futuro». Addensa storie, immagini, ricorrenze, le rende esemplari con effetto di intensificazione della loro significatività. La metafora della compressione, anche in senso informatico, mi sembra molto pertinente: poprio in relazione a Jesi, Wu Ming 1 ha definito il mito un “discorso zippato”, una scorciatoia cognitiva, che chi riceve decomprime, articola e ridefinisce.
Dal punto di vista di chi emette un messaggio l’uso di stereotipi, frasi fatte, locuzioni ricorrenti, l’icasticità di pochi vocaboli e sintagmi è un modo di produzione mitica. La retorica di destra è in grado di produrre una circolazione chiusa e rituale, tende a creare senso di appartenenza e familiarità con l’ascoltatore, riproduce logiche di vicinanza nella massa. La lingua rigida e codificata delle identità politiche, razziali, nazionali, di genere e della normatività è una sorta di cerchio protettivo e semplificatore che risponde alla complessità della realtà, ai cambiamenti sociali e individuali, alla destabilizzazione percepita che le crisi economiche, i flussi mondiali e globalizzanti portano con sé.

Quali sono i mitologemi che attualmente agiscono in questa direzione?
In termini generali sono molti i mitologemi moderni che si agitano nel nostro mondo e, benché la forma mitica non sia necessariamente di destra, nella maggior parte dei casi lo diventa quando si cristallizza al punto da diventare dogma e in quanto strumento di legittimazione di forme di potere, politico, economico, simbolico.
Inoltre nell’impostazione antropologica e linguistica dell’analisi jesiana il concetto di cultura di destra è riferito alla prassi politica in cui le parole e simboli, indipendentemente dal contenuto apparente, sono reazionarie de facto, per la presa emozionale sull’individuo, capace di motivare un’adesione al gruppo di tipo sacrale: posto che ogni movimento politico necessita di spinta simbolica anche le parate con le bandiere rosse al vento o le magliette di Che Guevara, quando sono più importanti dei discorsi e della portata critica che dovrebbero significare, cambiano di segno.
I mitologemi contemporanei della destra partono da fatti e fenomeni reali e si trasformano in narrazioni stilizzate e amplificate che poi si sostituiscono ai fatti, alle cause e alle metamorfosi, per ossificarsi in fenomeni rigidi: la Crisi, l’Invasione di immigrati, la Grande sostituzione, la Casta, i Poteri forti, sono esempi di alcune delle mitologie di destra più tossiche e pericolose. Il punto è il come del loro formarsi: di fronte a un problema dalle cause molteplici e dalle diverse possibili soluzioni che hanno sempre pro e contro, in nome di una sbandierata iper-moralizzazione e spiritualizzazione all’interno di un sistema gerarchico e rigidamente autoritario si riproduce l’apologia e l’invocazione di un sistema semplice ed elementare basato sul culto del capo e su un rozzo darwinismo sociale profondamente razzista. Il fascismo e il populismo hanno un tratto mitico in questo senso. Riducono la complessità, additano un presente di crisi rimandando a un passato mai esistito e a un futuro di ritorno alla perduta integrità e felicità…
I nostri giorni, con i tempi ridotti della fruizione e la pervasività della comunicazione virale, sono un ambiente di sviluppo eccezionale per la semplificazione cognitiva, la riduzione dell’angoscia, l’individuazione di responsabilità esterne a sé che una visione mitica offre.

L’utilizzo di un linguaggio che discende direttamente dalla macchina mitologica, poi, crea il conformismo e l’omogeneità culturale. In che modo?
Il lavoro di Jesi offre spunti notevoli per interpretare il tempo presente.
Analogamente sono molte le direzioni in cui il metodo e gli strumenti proposti da Jesi possono essere applicati. Il nodo centrale riguarda dinamiche umane universali – circolazione linguistica, ripetizione, ridondanza, proliferazione di idee e temi chiave – concentrate e focalizzate nell’uso politico e ribadite nei vari sistemi culturali o nella rete come ipermedium. David Bidussa, a cui si deve moltissimo per la riscoperta di Jesi, ha sottolineato gli aspetti di macchina mitologica che riguardano la storia, la storiografia, l’archivio di significati storici, la memoria pubblica, le retoriche paranoiche del complottoAlessandro Lolli ha usato con intelligenza l’idea di macchina mitologica in un libro sui meme, sulla loro evoluzione e propagazione in rete in relazione all’affermazione dell’alt-right americana, un contesto lontano rispetto alla sua formulazione.
Attualmente vedo moltissimi fenomeni di viralità volti ad accrescere consenso a sfondo politico e destrorso. Prendete il caso di “Io sono Giorgia, sono una donna, etc”. O l’immaginario di Salvini al Papeete o le sua avventure su Twitter, Facebook per la comunicazione politica e su Instagram e TikTok con il cibo, la nutella in particolare, per un pubblico diverso… I messaggi sono ripetuti, estenuati, trasformati in simbolo ed evocazioni non solo per il numero di condivisione ma anche nella loro distorsione e nei remix più lontani dall’originale.
La comunicazione politica funziona così ovunque, con diversi gradi di modulazione mitologica. Basta andare indietro di poco per vedere analoghi meccanismi con altri media, penso a Renzi con le sue camicie bianche e le riunioni in treno o la grafica della Buona scuola, simile al menu di un fast-food “organic and bio”. Oppure penso alle utopie futuriste del nuovo ordine mondiale profetizzato da Grillo e Casaleggio, per un movimento ambiguo e molto sensibile alle teorie complottiste. Si tratta in ogni caso di racconti, atti o vestiti simbolici che accompagnano i discorsi e li rendono più efficaci e pervasivi .
Il punto di non ritorno di tutto questo è stato il momento in cui venne prodotto per Berlusconi Una storia italiana, il rotocalco che nel 2001 ha segnato un salto di qualità nella narrativa politica. Il 2001 è un anno chiave per molte cose, tra cui l’avvio della fase del web 2.0. In questo senso, il libro di Marco Belpoliti, Il corpo del capo, è uno studio su quella macchina mitologica nel suo rapporto con il sistema mediatico e con l’egemonia culturale.
Se torniamo ai meccanismi virali della contemporaneità a noi più vicina, il rintracciamento consentito dal sistema dei tag, l’estrema personalizzazione dei messaggi, il modo in cui funzionano le condivisioni sui media sociali fanno sì che un “mito tossico” venga amplificato e diffuso anche da chi è contro quel contenuto e ne riconferma involontariamente il ruolo dichiarando la propria contrarietà per confermare la propria identità, proprio mentre pensa di contrastare quella altrui che in realtà finisce per essere rafforzata dalla mole di intenzioni a cui, possiamo ipotizzare, non fanno seguito azioni reali di dissenso.
La cultura di destra oggi è paradossalmente rafforzata da chi ne denuncia ossessivamente la presenza: “parlarne” sui social la riafferma, la macchina si alimenta comunque e poiché il web ha sempre bisogno di “portare” e tenere il pubblico da qualche parte, cioè su qualche pagina, più un soggetto è attrattivo più crea massa gravitazionale.
Jesi in Cultura di destra, che è scritto in un’epoca pre-televisione commerciale, si ferma al mondo del rotocalco; Jesi si sofferma su un numero di Grazia del 1975 in cui l’allora giovane Luca Cordero di Montezemolo veniva descritto come il “marchesino dei Bolidi” che sarebbe divenuto cavaliere del re per investitura, con tratti di autorità sacrale tipica dei regnanti, in questo caso la famiglia Agnelli. Per fare altri esempi si parla già di pubblicità di lusso, ad esempio del Porto, il “vino leggendario”, raccontato come fosse un documentario, e della narrativa rosa di Liala. Da lì si spinge a ragionare sul concetto di “esoterismo” come produzione di significato aggiuntivo e di comunicazione iniziatica, che è quello che succede nella logica del brand e della corporate identity e in tutta la narrativa sullo stile di vita e di consumo, che vogliono offrire non cose ma esperienze ed emozioni.
La grande intuizione di Jesi è che da un punto di vista semiotico e della comunicazione dai primi del ‘900 religione, nazionalismo e mercato si saldano insieme strettamente.

La questione del lusso oggi sembra coinvolgere anche i giovanissimi, declinata in beni di consumo da possedere, ma anche in forme musicali come il rap attuale e la trap, trasmettitori di un immaginario particolare ma incentrato sul potere del denaro.
Nello studio della storia il tema dello stile delle classi agiate, della distinzione come correlato della ricchezza e agio appartiene già al mondo antico e si perfeziona con i codici di comportamento dall’aristocrazia alla borghesia e alle classi medie. Senza fare analisi troppo impegnative, questo rapporto che c’è con il denaro, il lusso e alcuni suoi simboli in Italia esplode negli anni Ottanta perché il media televisivo è quello dominante al tempo. È lì che la cultura produttiva della borghesia tradizionale ha abbandonato definitivamente i propri valori ‘grigi’ in favore di una logica edonista e narcisistica prima che economicista.
Il valore mitologico dei beni di consumo, a cui hanno avuto parziale accesso i ceti subordinati, ha giocato un ruolo chiave nell’emulazione sociale e nella costruzione del consenso, con una dilatazione del concetto di classe media schiacciata sempre più verso il basso e priva di qualsiasi specifica identità se non il circolo desiderio-consumo-successo. Da adolescente negli anni Ottanta ricordo bene i “paninari”, la musica commerciale, l’onnipresenza della TV e l’americanizzazione stereotipata, l’ostentazione della ricchezza e la tracotanza, il loro voler essere “fascisti”.
La questione si complica se si pensa che il rap invece nasce come linguaggio di una sottocultura urbana ribelle, non priva di tratti politici, e che progressivamente si fa sempre più pop, commerciale e “gangsta”, estrema ed “esplicita” nei contenuti cioè eversiva ma non più politica. La trap è una sua filiazione tarda che arriva alla fine di tutto. La produzione estetica che viene dalle subculture giovanili è sempre stata essenzialmente ribellione generazionale e antisistema salvo poi venire integrata e assorbita dal mercato e dalla logica del consumo.
Ne so troppo poco, ma mi sembra che l’aspetto che emerge nella trap sia un racconto del denaro e del successo come via di riscatto individuale del giovane maschio emarginato che ce la fa, diventa ricco, si droga malamente e fa tanto sesso, incorporando un racconto narcisistico del disagio, della marginalità, della mascolinità tossica e della devianza che da la colpa agli altri di aver creato un sistema sbagliato. Al di là sintomo sociologico di qualcosa che è andato male nei processi di socializzazione, mi sembra l’ultimo episodio di una lunga storia in cui negatività, squallore, disagio e bruttezza vengono estetizzati e in un rovesciamento paradossale vengono eletti a valori mitologici. Ci dicono come i modelli sociali ed educativi mainstream delle società occidentali con le loro contraddizioni siano stati fallimentari, soprattutto in alcuni segmenti sociali e in alcune aree. Se il denaro e il successo sono al centro di questa narrazione, sesso, droga, rapporti di genere sono portati alle loro conseguenze iperboliche.
Non so se la trap abbia la stessa funzione del punk per i giovanissimi di oggi. Fa irritare gli adulti, l’opinione pubblica, è oltre anche per un genitore che sia stato alternativo, è inconciliabile con il rock e le sue mutazioni, è uno sfregio che può essere commercializzato e rende bene per i consumi giovanili… A differenza del punk che ha avuto un tratto di nichilismo auto-affermativo e che ha assunto anche aspetti di utopia politica io vedo una clamorosa e infantilistica richiesta di attenzione e di approvazione “nonostante tutto” e al tempo stesso la sua denegazione. La sua ricezione da parte dei giovanissimi temo si fermi a una glorificazione nichilista e autoassolutoria, dagli effetti reazionari e involutivi. Si risolve in una conferma apocalittica dello stato delle cose che ha come conseguenze un adeguamento cinico: se il mondo è un posto terribile e tutto è ugualmente sbagliato non si può che essere autorizzati a dare il volto peggiore di sé.
Può essere “di destra” per questo tratto mitologico, per la celebrazione del capitalismo e del maschilismo nelle forme più aberranti e per il suo carattere decisamente anti-illuminista e parassitario rispetto al presente e apologetico della devianza, anche se non ha il tratto iper-morale e fanatizzante delle destre radicali che si pretendono rivoluzionarie.

Viviamo in una società che abbina il consumo alla cultura. Mi viene in mente Foster Wallace con il suo geniale reportage da una crociera (Una cosa divertente che non farò mai più) che, con la sua feroce e caustica critica sociale, mette in ridicolo rituali e miti di oggi. Quel senso di manipolazione di cui si perde il bandolo in un rimbalzo tra manipolatore e manipolato riporta anche al luogo comune letterario. Che funzione ha oggi?
Emerge in Jesi l’idea che l’eredità della destra e del fascismo italiano sia nella cultura popolare, formulata in un momento in cui esplode l’era del consumo di massa. Quando Jesi cita Liala ne parla come di un «linguaggio della vacanza organizzata, da chi ha il potere per chi non lo ha», il linguaggio dell’alienazione nella fase storica in cui si compie la «mutazione antropologica» denunciata da Pasolini. Non dimentichiamoci che Jesi era un intellettuale finissimo di cultura europea, sostanzialmente un uomo di un altro secolo, politicamente vicino al marxismo operaista della “nuova sinistra” e impegnato a capire se e come fosse possibile una cultura rivoluzionaria non borghese…
Jesi immagina una lettrice che segue «con il dito» le parole sul testo, un pubblico appartenente a una classe subalterna e maggiormente esposto «all’urto contro il prossimo e contro le cose». In cerca di parole che fanno sognare e intravedere un riscatto attraverso un buon matrimonio, amore, lusso e avventura, denaro, prestigio, distinzione. Il passaggio centrale è la struttura logica che unisce lusso materiale e spirituale in una stessa forma mentis capace di cancellare la questione della giustizia sociale, di pensare soltanto a soluzioni di fortuna biografica e non collettive. In estrema sintesi, la negazione della politica e dell’impegno.
Quasi tutta la cultura, popolare e industriale (quella che Adorno definiva semi-cultura), è da tempo associata al consumo con l’effetto di divenire puro intrattenimento. Jesi parla di un “vuoto puro”, serve a “credere di capire”, “suscita stimoli sentimentali”, “crea un’atmosfera”. Il suo linguaggio è un «feticcio che serve a dare piacere, e specialmente il piacere che deriva dalla riduzione della fatica di pensare». Il «capire» infatti implica uno «sforzo della ragione o della partecipazione affettiva irrazionale», di «simpatia, che costa, fino a divenire angoscioso».
Il linguaggio dell’intrattenimento non deve essere capito ma solo ripetuto: è da notare come questo abbia la stessa funzione sociale che ha avuto la lettura di Rilke per l’alta borghesia, che non lo capiva veramente ma lo venerava come simbolo di distinzione e cultura. Jesi è impietoso nei confronti della borghesia colta, da cui proveniva; in un passo molto ironico parla del cosiddetto «rilking», l’arte di citare Rilke nei salotti buoni per fare bella figura… Ancora una volta, l’uso lussuoso, evocativo e superficiale della cultura è considerato un tratto culturale di destra.
Ma anche la sinistra deve fare attenzione a evitare l’uso “esoterico” degli autori difficili da leggere, per il loro linguaggio, ma che vengono esibiti da chi vuole accreditarsi nel mondo culturale. Può funzionare con autori come Heidegger (che di destra era veramente) ma anche con Derrida contro le sue intenzioni e in genere con autori di sinistra se un contenuto diventa un simbolo di preziosa segretezza e profonda distinzione indipendentemente dal suo significato… è parte del paradosso per cui la cultura post-moderna nasce con intenzioni emancipative e finisce per diventare strumento in mano ai conservatori al punto di essere poi triturata e riutilizzata dall’alt-right in funzione anti-democratica.
Recentemente mi ha colpito leggere che un autore come Byung-chul Han, un importante sociologo critico tedesco-coreano, sarebbe diventato in Italia un riferimento per la nuova destra, che ha sempre ripreso e “nazionalizzato” temi e stili della cultura di sinistra. Pur essendo un autore di sinistra, Byung-chul Han infatti sembra venir apprezzato dalla destra radicale per la denuncia della modernità tecnologica, l’invettiva contro la decadenza, la posizione anticapitalista, l’insterilimento spirituale di massa. Il suo linguaggio icastico, il fascino asiatico minimalista e una certa asservitività auratica e poco analitica probabilmente lo rendono spendibile sul mercato delle idee e possono consentire una diffusione tra chi si serve di “idee senza parole”. Credo sia questo che può farne oggi un autore letto a destra (suo malgrado) in un area storicamente bisognosa di legittimazione intellettuale.

A ogni forma di semplificazione e stilizzazione della realtà Jesi, politicamente un marxista critico e libertario, ha opposto la coscienza della complessità, il distacco storicizzante, la messa in discussione di ciò che si vorrebbe naturale in favore della ricerca della profondità di cause e relazioni dinamiche. Credo che la sua eredità stia in questo: pensare ‘a sinistra’ consiste nel decostruire e demistificare il linguaggio e la sua seduzione, riconducendo la dimensione metafisica e mitologica a quella linguistica e letteraria e in definitiva a una rigorosa antropologia illuminista e materialista.

Enrico Manera (Torino, 1973) è specializzato in Scienze della cultura e dottore di ricerca in Filosofia, insegna in un liceo di Torino, città in cui vive. Ricercatore presso l’Istoreto, ha svolto lavori editoriali in area storico-filosofica, pubblica su riviste scientifiche e on line, principalmente per Doppiozero.com. Attualmente collabora con il Master in Public History della Fondazione Feltrinelli di Milano.
Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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