Cultura
Percorsi di libertà minima in tempo di Covid-19

Un gioco: colmare quei sei gradi di separazione esistenti tra i concetti di liberazione e libertà. Per scoprire che l’illuminismo…

Vorrei fare un gioco. Ovvero immaginare come si possa costruire una consapevolezza intorno alla libertà in sei mosse. Qualcosa che assomigli al passaggio dei sei gradi di separazione. A differenza di quella immagine e di quella teoria il mio obiettivo non è coprire il massimo possibile di significato della libertà ma descrivere la condizione minima. Per condizione minima intendo quel lento passaggio in cui appunto in sei tappe arriviamo a dare un volto alla sfida di libertà che oggi abbiamo di fronte.
Quando dico oggi, intendo l’oggi che materialmente sta davanti a noi.
Quei sei passaggi, infatti, non sono gli stessi che avrei definito anche meno di un mese fa, comunque prima che Covid 19 arrivasse e ci proiettasse fuori dal nostro tempo verso un domani che non riusciamo a delineare.

Primo passaggio: distinzione tra liberazione e libertà.
Credo che la definizione più chiara la fornisca Hannah Arendt. [Hannah Arendt, Sulla rivoluzione Edizioni di Comunità, Milano 1983, p.25]

Liberazione e libertà non sono la stessa cosa: che la liberazione può essere una condizione della libertà, ma è assolutamente da escludere che vi conduca automaticamente; il concetto di libertà implicito nella liberazione può essere solo negativo, e quindi l’intenzione di liberare non si identifica col desiderio di libertà.
Tuttavia, se queste ovvietà vengono frequentemente dimenticate, è perché la «liberazione» è sempre apparsa come una cosa grandiosa e la fondazione della libertà è sempre stata incerta, se non del tutto inconsistente.

Quando facciamo il seder di Pesach festeggiamo la liberazione, non la libertà.
Nei processi di liberazione la prima cosa che accade è la rottura del vincolo di sudditanza che proviamo nella nostra vita quotidiana. È una condizione felicità quella che caratterizza l’istante della liberazione. Non solo quando questo avviene, ma, soprattutto, quando periodicamente, spesso annualmente, ricordiamo quella data, quell’attimo e la condizione di quel momento. Quando costruiamo nel nostro calendario civile il momento del ricordo della liberazione, il nostro tempo in un qualche modo si ferma e ciascuno di noi torna a quel tempo zero in cui percepisce che la propria possibilità di esistere, di essere un soggetto e un attore si origina in quell’attimo.
Quell’attimo ha anche un’altra caratteristica: l’atto di liberazione evoca sempre un atto di potenza, nel senso che è la consapevolezza di aver abbattuto un nemico, una forza percepita fino a poco tempo prima come imbattibile, come potente. Nell’atto di liberazione noi celebriamo e ricordiamo il momento in cui abbiamo infranto la nostra condizione di subordinati, di schiavi.
Il seder di Pesach è un rito di celebrazione della liberazione.
Non dice ancora come vivremo, come ci relazioneremo, come saremo governati. Dice solo che cosa della nostra condizione di ieri non c’è più.

La libertà è invece un passaggio fondato sulla responsabilità, riguarda la firma di un patto.
Di che cosa si nutre quel patto – oltre al presupposto, appunto, di non essere più schiavi?
Qui sta il secondo passaggio
Questo secondo passaggio si sostiene su due diverse scene.

La prima.
L’idea di libertà e la sua pratica concreta non si reggono su una proiezione astratta in nome del fatto che, semplicemente, ciò che ciascuno vuol fare è garantito dalla dimensione della libertà astratta. La libertà si definisce nel progetto dei moderni – e i moderni sono coloro che si riconoscono nel Progetto inaugurato nel 1789 – come possibilità di congiunzione e di convergenza tra eguaglianza e libertà, ovvero tra eguale opportunità e libertà.
Per dirla più semplicemente: Il progetto moderno è basato sull’invenzione della nozione di eguale cittadinanza per individui autonomi e liberi di scegliere.
Non erano forse liberi Giulio Cesare, Carlo Magno, Federico II, Ludovico il Moro? Certo! Ma la domanda saliente è: i loro sudditi – appunto sudditi e non cittadini – erano altrettanto liberi?

La seconda.
Libertà si coniuga con ricerca e perseguimento dell’eguaglianza, dunque. Il che implica che libertà non è natura, è progetto, è artificio politico. Meglio: è possibilità per individui che – individualmente o collettivamente considerati non nascono eguali e liberi – aspirano a divenire eguali e liberi.
La libertà è allora un diritto dentro un vincolo: quello per cui la libertà degli altri prevede anche la difesa e la garanzia della mia libertà.
Dunque, in prima sintesi: la libertà non è un territorio astratto. Per parlare di libertà devo sempre parlare di qualcos’altro. Scrive il filosofo Salvatore Veca [Salvatore Veca, Libertà, Treccani, Roma 2019, pp.73-74]:

Se ci chiediamo com’è fatto un discorso a proposito della libertà possiamo rispondere così: ogni discorso sulla libertà connette a suo modo la libertà con qualche altra cosa.
Connette la libertà con l’eguaglianza, con l’efficienza, con la sicurezza, con la solidarietà, con la giustizia.
Ogni discorso a proposito della libertà identifica un particolare concetto di libertà, distinguendolo da altri. Libertà positiva e negativa, libertà come autonomia e autorealizzazione delle persone, libertà dalla paura e dal bisogno, libertà come indipendenza individuale, e così via.

Bene facciamo ora un terzo passaggio.
Su quali presupposti si tiene il contratto e il patto di libertà?
All’inizio degli anni’80 Ralf Dahrendorf si risponde così: “La generalizzazione della dignità di cittadini rappresenta il grande progetto degli ultimi due secoli e quel progetto”, prosegue, “può realizzarsi solo se continuamente rivisto e aggiornato nelle sue urgenze”. [Ralf Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, Laterza, Bari 1988, p. 87]
Che cosa significa?
Significa che così come nel secondo passaggio abbiamo ricavato che per parlare di libertà, dobbiamo “parlare di libertà con qualche altra cosa” ora questa sfera della mia libertà non include solo il quanto, ma riguarda anche le condizioni che nel tempo ci rendono consapevoli delle necessità che l’esercizio della libertà impone e richiede. In altre parole: libertà non è solo possibilità. È contratto e mutualità e anche progetto con qualcuno.

Ovvero la libertà non è solo l’affermazione “io sono libero” ma include che ciascuno si misuri con ciò che può fare e con chi.
Esiste un processo di affinamento delle pratiche, di scoperta anche di problemi in un primo tempo non visti o non colti. Ma soprattutto esiste la voglia di cercare. Questo ci dice Dahrendorf.
È sufficiente? Sì e no.

Proviamo a fare un passo ulteriore, il quarto.
Quando parliamo di libertà di che cosa parliamo, di chi parliamo o chi consideriamo soggetto del nostro discorso?
È la riflessione che propone Isaiah Berlin alla fine degli anni ’60, quando mette al centro della partita non tanto l’azione libera di ciascun individuo, ma quello che possiamo considerare il suo presupposto, ovvero la possibilità dell’azione.
Facciamo un esempio:
Se pur avendo il diritto di varcare porte aperte, io preferisco non farlo e starmene invece seduto a vegetare. Questo non mi rende meno libero.
Ne discende che libertà è avere la facoltà di agire. Non l’azione in sé.
Per questo, precisa Berlin, occorre distinguere tra la libertà e le condizioni dell’esercizio della libertà. Così scrive [Isaiah Berlin, Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano 1989, p. 51]:

È importante distinguere tra la libertà e le condizioni dell’esercizio della libertà.
Se una persona è troppo povera, troppo ignorante o troppo debole per far uso dei propri diritti giuridici, la libertà che questi diritti le conferiscono non è niente per lei, ma non per questo è annullata.
Il dovere di promuovere l’istruzione, la salute, la giustizia, di elevare la qualità della vita, di garantire la possibilità della crescita delle arti e delle scienze, di prevenire condotte politiche, sociali e giuridiche reazionarie e disuguaglianze arbitrarie, non diventa meno urgente per il fatto di non essere necessariamente diretto alla promozione della libertà in se stessa, bensì delle condizioni nelle quali soltanto il possesso della libertà può aver valore o di valori che possono essere indipendenti da essa.

E tuttavia anche precisata questa distinzione tra libertà e condizioni in cui si dà il suo esercizio, ancora resta da definire un passo ulteriore
Il tema è di chi parliamo (a differenza del secondo passaggio non riguarda la libertà più qualcos’altro). Il «nocciolo duro» di questo passaggio ulteriore è costituito dal vincolo di patto perché la libertà dia luogo a un esercizio, e non si limiti ad essere un preliminare.
È il quinto passaggio
La libertà è un costrutto in cui l’individuo, la prevalenza del singolo sul complesso sociale entro cui è inserito, non sono criteri discriminanti e forse nemmeno dei criteri fondanti o copartecipi.
L’individuo nella concezione della libertà dei moderni non è un dato primitivo ma è l’esito di un processo complesso di evoluzione, invenzione e costruzione sociale che concerne tutti gli individui di un consorzio sociale.
È John Stuart Mill ad aver indicato il criterio dirimente e fondante di una teoria liberale e democratica con cui oggi ancora facciamo i conti e che fa da criterio per giudicare del reale esercizio della libertà.

Il principio è – scrive Stuart Mill nelle prime pagine del suo Saggio sulla libertà – che l’umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d’azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri.
Il bene dell’individuo, sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa perché è meglio per lui, perché lo renderà più felice, perché, nell’opinione altrui, è opportuno o perfino giusto: questi sono buoni motivi per discutere, protestare, persuaderlo o supplicarlo, ma non per costringerlo o per punirlo in alcun modo nel caso si comporti diversamente.
Perché la costrizione o la punizione siano giustificate, l’azione da cui si desidera distoglierlo deve essere intesa a causare danno a qualcun altro.
Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello riguardante gli altri (..). [John Stuart Mill, Saggio sulla libertà, il Saggiatore, Milano 1991, pp. 12-13. Il corsivo è mio].

Nell’ultimo passaggio mi chiedo: a quale condizione è possibile l’ultima raccomandazione di Stuart Mill?
La riscrivo: “Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello riguardante gli altri”.
Perché si dia questa possibilità, perché la cura di sé e degli altri fondi un contratto occorre un normarlo. Tutta la discussione su ciò che possa essere la libertà, sulle regole su cui fondarla, sulle modalità di praticarla, deve presumere un sistema che regola la discussione. In breve, un regolamento che dice delle regole del gioco.
La libertà deve essere tutelata da se stessa, soprattutto da coloro che si propongono come suoi guardiani e che spesso hanno la tentazione di mettersi a lato, sottraendosi, pensando di non essere parte del gioco perché svolgono una funzione di “regolatori” o di “controllori”, e dunque di garanti.
È importante perché in questi tempi la tentazione di mettere la sordina all’illuminismo ha avuto molti protagonisti e molte opportunità. Per questo chiudo con questa riflessione di Jean Améry.
A che cosa ci esorta Améry? A prestare attenzione e ad avere cura dell’illuminismo e delle sue eredità, spesso fragili. Questo perché, ci dice, che chi rinnega l’Illuminismo rinuncia all’etica della libertà responsabile. In tempi difficili. Soprattutto in tempi difficili. Oggi, nei nostri tempi, non solo incerti, ma anche in attesa, in cui la nostra vita è sospesa, ma anche molto sotto controllo.
Anche per questo è bene non dimenticare l’illuminismo, il primo movimento che ha messo al centro la lotta alla tirannide. Soprattutto, non volta a giragli le spalle. Scrive dunque Améry [Jean Amery, L’illuminismo come “philosophia perennis”, in “MicroMega”, 2001, fasc.5, pp. 257-269]:

Per chiedere giustizia non abbiamo bisogno di alcuna filosofia del diritto. Cosa sia la libertà lo sa chiunque abbia vissuto nell’illibertà. Che l’eguaglianza non sia un mito ne sa qualcosa chi fu vittima dell’oppressione.
La realtà è sempre più saggia della filosofia che, impotente, vuole rispecchiarla.
Per questo l’illuminismo non è una costruzione dottrinaria priva di connessioni, ma il continuo, rischiarante colloquio che dobbiamo fare con noi stessi e con gli altri.
La luce dell’illuminismo classico non fu una distorsione ottica, non fu un’allucinazione. Là dove è minacciata la sua eclissi, la coscienza dell’uomo è offuscata. Chi rinnega l’illuminismo, rinuncia all’educazione del genere umano.

Una raccomandazione esignte. Forse. Ma è importante ricordare e sottolineare: per garantire una libertà minima. Ovvero perché il contratto di libertà faccia un passo avanti. Anche minimo. Comunque, perché non arretri, almeno.

David Bidussa
Redazione JOI Mag

Classe 1955, nato e cresciuto a Livorno, studia a Pisa dove inizia la facoltà di Filosofia, ma si innamora di quella di Storia. Ha insegnato al liceo e all’università, da anni lavora alla Fondazione Feltrinelli in quanto Direttore dei contenuti editoriali. Si definisce uno storico sociale delle idee (ci ha assicurato essere una vera specialità, benché nessuno finora abbia capito cosa sia). Scrittore e giornalista, dicono che il suo branzino al sale sia leggendario.


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