Cultura
Credenze e superstizioni: il pensiero magico

L’Hebrew Union College-Jewish Institute of Religion di New York ospita (fino al 5 gennaio) una mostra dedicata alle scaramanzie che non trovano spazio nella pratica religiosa

Non è vero ma ci credo. O, per usare le parole del Sefer Chasidim, guida etica alla vita quotidiana nella Germania del XIII secolo, “non si dovrebbe credere nelle superstizioni, ma è comunque meglio farci attenzione…”. In fondo, il senso cambia di poco. È sempre qualcosa che non ha basi scientifiche né religiose, ma che tutto sommato può tornare utile rispettare. Partendo da riflessioni come queste, il Dr. Bernard Heller Museum presso l’Hebrew Union College-Jewish Institute of Religion di New York  ospita fino al 5 gennaio una mostra proprio dedicata alla posizione delle credenze nella cultura ebraica.

Intitolata Magical Thinking: Superstitions and Other Persistent Notions l’esposizione raccoglie le opere di oltre cinquanta artisti contemporanei. Consultandone il catalogo, scaricabile online, salta all’occhio la molteplicità degli stili e delle tecniche, con pitture, disegni, acquarelli, collage, fotografie, ricami e assemblage. Soprattutto, colpisce il diverso modo che hanno gli autori di intendere la superstizione. Va detto poi che solo alcune delle opere sono state realizzate espressamente per la mostra, le rimanenti sono state selezionate tra quelle di centinaia di artisti, tutti ebrei e convocati dal museo, che a un certo punto della carriera hanno affrontato il tema delle credenze popolari. Si passa dalla rappresentazione del Golem a quella del Dybbuk passando dai dipinti di gatti neri o anche, semplicemente, di donne allo specchio. Piuttosto frequenti sono gli amuleti, dagli hamsa ai fili rossi, così come l’interpretazione di credenze legate alla nascita dei bambini, alle prime mestruazioni e persino ai tatuaggi. Si tratta perlopiù di credenze che non trovano spazio nella pratica religiosa propriamente detta e che anzi, quando toccano stregoneria, astrologia, fantasmi e simili, sono decisamente proibite dalla Torah. Eppure, come dimostrano le stesse opere esposte, sono parte integrante della tradizione popolare, che da generazioni si tramanda credenze e usanze scaramantiche.

Intervistata da New York Jewish Week, la direttrice del museo Jeanie Rosensaft ricorda che “in ogni civiltà ci sono prove della credenza nella superstizione, personaggi mistici che possono sia proteggere sia danneggiare o rituali che possono scongiurare il male”, ma che tutto questo è in fondo “solo una cosa affascinante” che lei e i curatori volevano indagare. Dalla mostra e dalle parole degli artisti e degli studiosi interpellati dal periodico newyorkese si capisce che un conto sono i precetti e un’altra gli usi popolari. E a volte la stessa libera interpretazione dei testi sacri ha prodotto credenze senza fondamento religioso. Di sicuro, per quanto non ufficialmente, l’occulto ha una sua posizione nell’ebraismo. Secondo Sara Ronis, autrice di Demons in the Details: Demonic Discourse and Rabbinic Law in Late Antique Babylonia, il soprannaturale è stato in realtà per molto tempo un elemento significativo e potente della vita ebraica. “Molti ebrei ashkenaziti oggi hanno una comprensione del giudaismo come altamente razionale, scientifico e spirituale più che materiale” dice la studiosa, aggiungendo che questa parte così importante della storia ebraica, legata all’Europa occidentale del XIX secolo, non è però l’unica. Secondo la Ronis anche “i rabbini del Talmud avevano riconosciuto che il mondo era pieno di fenomeni al di là della loro comprensione e i demoni e altri esseri intermedi svolgono ruoli importanti nella narrativa e nella legge rabbinica”.

Persino usanze e tradizioni indicate in yiddish con il termine dispregiativo di bubba meises, racconti di “vecchie mogli”, avrebbero un significato importante. Secondo Noam Sienna, autore di A Rainbow Thread: An Anthology of Queer Jewish Texts From the First Century to 1969, per tratteggiare un’immagine inclusiva della tradizione ebraica sarebbe fondamentale leggere non solo i testi ma anche gli oggetti. Tra questi manufatti “parlanti” emerge l’hamsa, amuleto particolarmente amato dagli ebrei maghrebini e non solo, in grado di proteggere dall’energia negativa e di attrarre quella buona. Viene raffigurato in diverse opere in mostra, dal ricamo del 2011 Hamsa di Rachel Braun all’acrilico su carta del 2012 di Mark Podwal intitolato Jewish Magic dove si vedono anche altri simboli, da quelli dello zodiaco al leone e diverse lettere dell’alfabeto ebraico

Accanto agli oggetti e ai riti per attrarre la fortuna ci sono poi le pratiche, le cose e gli animali da evitare per scongiurare le disgrazie. Si passa da credenze non specificamente ebraiche come la paura per i gatti neri, rappresentati sia da Michael Mendel sia da Dorit Jordan Dotan, al timore che capiti qualcosa ai bambini appena nati, sempre a rischio di essere rapiti dal demone Lilith. Questa paura è ben rappresentata da Deborah Lynne Amerling nella sua opera del 2019 intitolata Bubba Meises, dove accosta a una culla i più diversi amuleti per proteggere il nascituro dal male. Con il collage Amulet – In Praise of Lilith del 2020 Deborah Ugoretz si ispira ai dipinti su carta che tutelavano bimbi e mamme per creare un suo particolarissimo amuleto che preservi i contemporanei dai mali che affliggono la società moderna.

Ci sono poi le credenze di cui non si conoscono né l’origine né lo scopo. È il caso dello schiaffo che le mamme ashkenazite davano alle proprie figlie quando queste avevano la prima mestruazione. Rappresentata da Maxine Hess nel tessuto del suo Slap del 2020, questa pratica si è tramandata per generazioni senza che le protagoniste ne sapessero il motivo. C’è chi pensa che sia legato ai pericoli legati alla fertilità (e ai rapporti prematrimoniali), chi alla memoria di un destino di sofferenza femminile, chi al tentativo di irrorare le guance rese pallide dal mestruo… Quel che è certo è che nessun testo sacro vi fa riferimento.

Per finire, tra le altre opere realizzate ad hoc, vi è una che si rifà a una credenza tutta americana sui tatuaggi. Si tratta di una superstizione così radicata nella cultura popolare da essere confusa con un precetto. Secondo tale credenza, che ha ispirato Consequences dell’illustratore Steve Marcus, le persone tatuate non potrebbero essere sepolte in un cimitero ebraico. Nell’opera si vede un nerboruto signore in lacrime con in testa la kippah e il corpo completamente ricoperto da tattoo. La verità è che, mentre la Torah include effettivamente una proibizione contro i tatuaggi (“Non farete tagli nella vostra carne per i morti, né inciderete alcun segno su di voi”), non esiste invece alcuna condizione che impedisca agli ebrei di essere sepolti con la loro comunità. “Le idee sbagliate che volevo trasmettere in questo lavoro vanno oltre la superstizione”, ha dichiarato Marcus. “Non importa che tipo di ebrei si sia e quali scelte abbiano fatto, sono ebrei. Sono ebrei indipendentemente dalla razza, che siano kosher o shomer Shabbat o che siano tatuati o meno”.

 

 

 

 

 

 

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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