Cibo Sei gradi di separazione
Dalle burekas ai crauti. Viaggio in sei tappe intorno al mondo

Storie culinarie con due ricette

Tra i prodotti iconici della gastronomia israeliana, accanto a felafel, hummus e shakshuka, le bourekas si distinguono per essere tra i pochi a essere stati importati dagli immigrati ebrei. Molti non saranno d’accordo neppure con tale affermazione, considerando anche questi tortini ripieni una sorta di furto ai danni di tradizioni non ebraiche. Le vicende storiche che li accompagnano dimostrerebbero però il contrario. A confermare la tesi ci penserebbe il nome stesso, derivato da borek, termine turco con il quale si indica una vasta gamma di tortine salate. Preparate a partire da una pasta sottile stesa a mano, l’altrettanto celebre fillo, queste sono farcite a seconda dei gusti e delle esigenze con carne trita, formaggio, spinaci, melanzane o con un mix di questi. A trasformare il borek in bourekas, con desinenza spagnola al femminile, ci avrebbero pensato i sefarditi, che giunti nei paesi dell’Impero Ottomano dopo la cacciata dalla Penisola Iberica vi adattarono, almeno secondo la tesi di studiosi come l’imprescindibile Gill Marks, un loro piatto tipico come le empanadas.

Si trattava in questo caso di panzerotti preparati in principio con pasta da pane (da qui il nome) stesa più o meno sottilmente e quindi ripiegata sui più diversi ripieni. Per la cottura, per lungo tempo era stata scelta la frittura, più facile da realizzare anche in casa, dove il forno non era ancora disponibile. Lo stesso nuovo nome dato ai borek deriverebbe dal ladino, mentre la preparazione sarebbe stata modificata facendo un mix tra le due tradizioni. Anche quando dalla pasta di pane si è passati a una rudimentale sfoglia all’olio, l’impasto delle empanadas è rimasto comunque più pesante rispetto a quello leggerissimo della fillo. Dalla consistenza meno croccante rispetto a quello dei borek, continuò comunque a essere il preferito dei sefarditi, ancora troppo legati alle proprie tradizioni per poterle tradire.

Sulle occasioni di consumo c’era (e c’è tuttora) solo l’imbarazzo della scelta. Se un tempo la preparazione richiedeva una certa dose di tempo e di impegno, e quindi le bourekas erano riservate alle feste, con la semplificazione dell’impasto e la diffusione della sfoglia (pronta) accanto alla fillo, questi pasticcini salati non hanno più conosciuto limiti. Dalla prima colazione al pranzo, dalla merenda allo spuntino, è sempre il momento per addentarne uno. Poi, certo, cambiano anche i ripieni, che possono essere o no pareve e quindi adatti o meno ad accompagnare i pasti a base di carne. Per evitare confusioni e trasgressioni della dieta kosher, in Israele si è diffusa la pratica di differenziare la forma delle bourekas a seconda della presenza al loro interno di latticini. Secondo le indicazioni, date dallo stesso Rabbinato già una decina di anni fa e tuttora un po’ confuse, una bourekas (la desinenza resta sempre al plurale) pareve deve potersi riconoscere dalla forma triangolare o a spirale, mentre quella non pareve sarà rotonda o rettangolare. A scanso di equivoci, rosticcerie e panettieri preferiscono comunque indicare i ripieni a chiare lettere…

A proposito di latticini, tra gli alimenti che possono accompagnare le bourekas compare un altro pilastro della tradizione prima turca e poi ebraica: lo yogurt. Conosciuto fin dall’antichità, questo provvidenziale prodotto raggiunse la sua prima massima diffusione nell’Impero Ottomano. Rappresentava la maniera più semplice per conservare il latte senza refrigerazione, grazie all’intervento di batteri acidi che lo fanno coagulare e che impediscono la formazione di altri batteri nocivi. Per secoli sarebbe rimasto un alimento base dai Balcani all’India senza che in Europa ne giungesse notizia. Per trovarne traccia nel Vecchio Continente ci sarebbe voluto un medico ebreo turco, inviato in Francia dal sultano Solimano il Magnifico per curare il re Francesco I affetto da gravi problemi intestinali. Secoli dopo, un altro ebreo avrebbe fatto la propria fortuna introducendo questo prodotto prima sul mercato europeo e poi in quello americano. Parliamo di Isaac Karasu, medico di Salonicco che, dopo essersi trasferito con la famiglia in Spagna nel 1912 a causa delle guerre balcaniche, aveva iniziato a curare i propri pazienti con uno yogurt prodotto da colture di batteri provenienti dalla Bulgaria. Trasformato il proprio nome in Carasso, avrebbe dato l’avvio a un impero come quello dalla Danone, azienda che deve il proprio marchio al soprannome attribuito a Daniel, il figlio del suo fondatore.

Tornando in Israele troviamo invece il leben. Si tratta anche qui di latte coagulato fermentato, ma in questo caso grazie a una coltura di microbi diversa da quella dello yogurt. Più o meno nello stesso periodo in cui il dottor Karasu iniziava la sua avventura spagnola, piccoli caseifici gestiti da ashkenaziti nella futura Israele cominciarono a produrre una variante di un prodotto lattiero-caseario turco conosciuto come leben (dal termine arabo che significa “bianco”). Rispetto allo yogurt, questo latticino è più aspro, più magro e meno vellutato e non contiene fermenti vivi. Può essere consumato al cucchiaio oppure, dopo averne agitato il recipiente, essere bevuto direttamente dalla bottiglia. La sua diffusione non ha temuto concorrenti in Israele fino ai primi anni del Duemila, poi anche qui lo yogurt ha superato nelle vendite il suo storico rivale.

Non è né leben né yogurt, ma ne condivide gli ingredienti un altro alimento invece ancora molto amato in Israele come il labeneh. Si tratta di un prodotto caseario semisolido, un formaggio ottenuto dallo yogurt. Dalla consistenza variabile che passa da quella simile alla panna acida a quella più densa affine al formaggio cremoso, era stato creato per sfruttare al massimo le potenzialità dello yogurt, che così poteva essere impiegato su più larga scala e durare di più. Compare tra i protagonisti di quel monumento gastronomico che è la colazione israeliana, un pasto completo che un tempo serviva a rifocillare i lavoratori dei kibbutzim dopo le prime ore di lavoro mattiniero nei campi e che oggi può essere apprezzato presso gli hotel israeliani e nelle famiglie più rispettose delle tradizioni. Viene consumato sia al naturale sia mescolato con aglio o con erbe aromatiche e ortaggi, primi tra tutti i cetrioli.

Di questi freschissimi ortaggi si è creduto che persino la Bibbia ne parlasse. Tanto da ritenere che fossero tra gli alimenti conosciuti in Egitto di cui gli ebrei avevano avuto nostalgia nel deserto. In realtà è più probabile che in quel caso si trattasse di una varietà particolare di melone, dalla forma allungata e sinuosa e per questo indicato con l’appellativo di serpente. Le varietà di cetriolo oggi conosciute discenderebbero invece da una specie originaria dell’India che durante l’Impero Romano aveva soppiantato gli storici meloni serpente. Il loro successo in Israele si dovrebbe tra le altre cose all’intuizione di Hanka Lazarson, membro di una comunità di immigrati polacchi che nel 1922 fondò una fattoria collettiva nella Valle di Jezreel. Tra gli anni ’30 e ’40 dello scorso secolo la donna attraverso una serie di selezioni dal cetriolo di Damasco arrivò alla creazione della varietà Beit Alpha, caratterizzata dalla buccia sottile e dalla polpa morbida e succosa, perfetta per comporre insalate e salamoie.

L’alternativa classica al consumo fresco del cetriolo è ovviamente quello conservato, in particolare nella versione in salamoia, i cosiddetti pickle. Questo termine inglese derivato dalla parola tedesca per sale e salamoia si riferirebbe in realtà a questo particolare metodo di conservazione, ma è diventato ormai sinonimo di cetriolino. Fin dall’antichità, le conserve di verdure venivano preparate sfruttando le proprietà di conservazione dell’aceto e del sale, usati insieme o separatamente. Il primo preveniva la crescita dei batteri, il secondo asciugava i vegetali e impediva ai loro liquidi di annacquare l’aceto, insaporendo e limitando a propria volta lo sviluppo batterico. La svolta sarebbe arrivata grazie ai nomadi tatari e turchi, che verso la metà del Cinquecento importarono in Europa Orientale una tecnica conosciuta dai cinesi oltre 2.400 anni fa: la lacto-fermentazione. Basata sull’azione acidificante dei batteri già presenti nelle verdure e che si nutrono dei zuccheri prodotti da queste, tale metodologia sfrutta l’acido lattico e acetico così prodotto per uccidere i batteri nocivi e assicurare lunga vita agli ortaggi conservati. Per innescare il meccanismo descritto, è sufficiente esporre i prodotti a un calore moderato e all’azione del sale. Niente aceto, dunque, per la gioia delle popolazioni che per motivi climatici ed economici non poteva contare su una grande quantità di aceto per le loro conserve.

Anche per queste ragioni geo-economiche, tra i principali sostenitori della lacto-fermentazione ci furono gli ebrei dell’Europa nordorientale, dal Baltico alla Romania. In terre non troppo generose di verdure, conservare al meglio quanto veniva raccolto era essenziale. Oltre al già citato cetriolo, tra gli ortaggi che possono essere trattati con questa tecnica compaiono le barbabietole, le carote, le olive, le rape e, soprattutto, i cavoli. A differenza degli altri prodotti vegetali, che per innescare il processo di fermentazione hanno bisogno dell’aggiunta di acqua oltre che di sale, i cavoli necessitano solo del loro succo. Di grande successo presso gli ebrei, hanno viaggiato anche grazie a loro verso ovest, transitando dalla Germania e dall’Austria per poi approdare in Francia e nei Paesi Bassi. Noti fin dal Settecento in Inghilterra con il nome tedesco di sauerkraut, ossia di cavoli acidi, presso gli ashkenaziti i crauti hanno a lungo condiviso la scena con barbabietole e cetrioli. Al pari di questi venivano tradizionalmente messi a fermentare con i primi freddi, intorno a Sukkot, per essere poi prelevati poco dopo Purim. Un tempo alla base della dieta quotidiana delle popolazioni del Nord-Est dell’Europa, a volte unico alimento da consumare con il pane nero, in altre ingrediente base di strudel salati o contorno per le grasse carni di oche e anatre, i crauti hanno iniziato a perdere terreno nel Novecento con la diffusione di più moderne tecniche di conservazione. Oggi il loro impiego principale è come guarnizione di hot dog e panini e la loro stessa produzione, perlopiù industriale, raramente fa uso della lacto-fermentazione, ma impiega invece l’aceto.

Bourekas agli spinaci

Ingredienti
2 rotoli di pasta sfoglia fresca
120 g di formaggio feta
120 g di formaggio contadino
120 g di spinaci surgelati
1 limone non trattato
origano essiccato
aglio in polvere
1 uovo
semi di sesamo
sale
pepe

Sbollentare gli spinaci per pochi minuti in acqua salata, scolarli, farli raffreddare e strizzarli, poi tritarli grossolanamente. Tagliare i formaggi a dadini minuti, poi raccoglierli in una larga padella con gli spinaci, la scorza grattugiata del limone, mezzo cucchiaino di origano, altrettanto aglio, poco sale e abbondante pepe. Mescolare per insaporire.
Srotolare le sfoglie e tagliarle in modo da ottenere complessivamente 8 quadrati di uguale grandezza. Distribuire il composto agli spinaci sulle sfoglie e chiudere la pasta sul ripieno piegandola lungo una diagonale. Premere lungo i bordi con i rebbi di una forchetta in modo da sigillarli.
Spennellare la superficie delle bourekas con l’uovo sbattuto, poi spolverizzarle con i semi di sesamo. Cuocerle nel forno già caldo a 190° per circa 20-25 minuti. Sfornarle e servirle tiepide o a temperatura ambiente.

Sauerkraut

Ingredienti
2 kg di cavolo cappuccio bianco
60 g di sale
semi di cumino
foglie di alloro
mele

Pulire i cavoli privandoli del torsolo e delle foglie esterne rovinate. Prelevare alcune delle più grandi e belle e tenerle da parte. Sfogliare, lavare e asciugare bene le altre, poi tagliarle a striscioline sottili e riporle in uno o più grandi vasi mescolandole con il sale.
Premere gli ortaggi con le mani per farne uscire il succo, che dovrà ricoprirli durante la fermentazione, quindi coprire con le foglie tenute da parte, posarvi sopra un peso e lasciare riposare per 3-4 settimane in un luogo fresco e buio, allungando a piacere i tempi di fermentazione fino ad altre 4 settimane.
Eliminare la schiuma che si sarà formata durante il riposo e mescolare di tanto in tanto, poi coprire il recipiente con un coperchio e conservare al fresco. A piacere, aggiungere ai cavoli disposti a strati anche semi di cumino, foglie di alloro e fettine di mela pulita e sbucciata.

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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