Cultura
Democrazia e sovranismo in tempo di guerra

La guerra cambia gli equilibri, redistribuisce le popolazioni e rompe alleanze tra stati mentre la democrazia sopravvive solo grazie alla debolezza di chi la considera un orpello del passato

La netta, ma non certo trionfale, vittoria di Emmanuel Macron alle presidenziali francesi contro l’antagonista Marine Le Pen segna una battuta d’arresto per quello che può definirsi, a vario titolo, come il “fronte sovranista”, ossia l’insieme – assai composito – di forze politiche che si ispirano ad una visione neonazionalista ed euroscettica nei rapporti atlantici. Contestualmente al risultato ottenuto in Francia, infatti, si è manifestato anche l’esito delle elezioni parlamentari slovene, dove l’outsider Robert Golob, a capo del Movimento Libertà, già presente sulla scena politica come Partito d’azione verde, si è assicurato quarantuno seggi su novanta all’Assemblea nazionale, la camera bassa del Parlamento di Lubiana. Quest’ultima formazione politica, di recentissima costituzione, si ispira ad un liberalismo progressivo e all’ambientalismo. Soprattutto, si contrappone al populismo del Partito democratico sloveno, formazione politica di destra iperconservatrice, capitanata da Ivan «Janez» Janša, già ripetutamente primo ministro, ora uscente.

A mitigare – ovvero a differenziare – questo quadro, peraltro in sé poco o nulla omogeneo, va ricordato che il premierato di Viktor Orbán è stato ancora recentemente premiato sul piano elettorale dai suoi connazionali. Rimane il fatto che l’involuzione dello scenario politico e militare ad Est, con la guerra russo-ucraina, ha di fatto spezzato l’asse di Visegrád, l’accordo politico tra Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia (risalente, nelle sue premesse, al 1991). I suoi due maggiori azionisti, infatti, si trovano adesso su posizione nettamente contrapposte, ancorché entrambi chiamati in causa direttamente dalla crisi dei profughi. Mentre l’Ungheria ha infatti mantenuto i suoi stretti legami con Mosca, la Polonia ha invece espressamente dichiarato la sua vicinanza a Kiev-Kyïv. La preoccupazione nei confronti del potenziale espansionismo dell’«orso russo» è infatti il trait d’union che lega la Finlandia e le Repubbliche baltiche a Varsavia.

Non si tratta di una querelle inedita, attraversando semmai qualche secolo di storia dell’Europa centro-orientale, poste le fragili sovranità che ne hanno accompagnano il destino dei diversi territori. La nuova guerra di questi mesi è quindi solo parte di un più ampio quadro di rivendicazioni e aggressioni, di imperialismi e tentativi annessionistici, di scissioni e annessioni che connotano l’intera età contemporanea. E non solo essa. Sta comunque di fatto che nella reiterazione di questa logica, dove i confini sovrani si rivelano tanto fragili quanto instabili, le alleanze politiche sorte in questi ultimi tre decenni, dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, siano destinate a rivelarsi a loro volta estremamente precarie.

Alcune considerazioni si impongono, a questo punto. La prima è che il quadro politico continentale da tempo ha oramai dismesso la logica della contrapposizione tra tre poli, il centro, la destra e la sinistra (storicamente i contenitori della grandi famiglie politiche europee: comunisti, socialisti, socialdemocratici, popolari, liberali, conservatori e neofascisti), semmai sempre più spesso sostituita dalla dialettica frontale tra un centro liberale (e spesso liberista sul piano economico) ed una destra a tratti ancora conservatrice ma con una profonda anima popolar-populista. A polarizzare le elezioni in Europa, infatti, sono questi due grandi gruppi, in sé piuttosto eterogenei se li si considera e li si declina sulla base delle appartenenze nazionali.

Per più aspetti un discorso simile potrebbe essere fatto anche per l’evoluzione del quadro politico israeliano, che da sempre presenta analogie con le dinamiche dei sistemi politici occidentali (di cui è peraltro parte). Tuttavia, al netto delle specificità delle singole realtà, alcune linee di faglia sono comuni alle diverse esperienze. Al riguardo, se il centro laico, anche in virtù di una visione pluralista e secolarizzante dei rapporti sociali, ha in grande attenzione tutti i temi che si richiamano ai diritti civili (a partire dal diritto alla differenza), l’ambizione – in parte già soddisfatta – della destra nazionalpopulista è quella di occupare appieno il campo dei diritti sociali, lasciato completamente scoperto da ciò che residua di una sinistra industrialista sempre più spesso ininfluente. Comunque quasi sempre oramai irrilevante. Il risultato del Partito socialista francese, ad esempio, testimonia – tra gli altri – di questa trasmigrazione di temi prima ancora che di voti. Una transizione, che nel tempo si è poi fatta emorragia, avviatasi già negli anni Ottanta ed ora, per più aspetti, giunta ad una sorta di turning point. Il populismo, infatti, gioca la carta della rappresentanza politica dei ceti declassati, rivendicando la necessità di garantire ad essi, secondo una logica di «preferenza nazionale», sistemi di Welfare e di integrazione protettiva altrimenti in via di elisione o di ridimensionamento.

Una seconda considerazione rimanda al fatto che il confronto politico si gioca tra uno schieramento che considera come prioritaria la promozione della varietà sociale, intesa essenzialmente come capacità da parte della società di esprimere apertamente le sue spinte alla differenziazione culturale, ed un altro raggruppamento che invece richiama la necessità di una maggiore omologazione tra le diverse parti della collettività, per esercitare su di esse una migliore “protezione”, soprattutto di ordine economico, evocando il ricorso alla leva fiscale. Il centro laico (e un pallido centro-sinistra, fortemente condizionato dall’egemonia culturale del liberalismo, misurando altrimenti il sostanziale anacronismo delle sue posizioni socialisticheggianti) spesso si incontra con una visione dell’economia declinata sul piano liberista, ritenendo il mercato un ambito a sé, capace di regolarsi autonomamente, oppure – riscontro che è una sorta di reciproco inverso del primo assunto – non influenzabile in misura diretta dalla volontà politica. Che una tale disposizione possa poi rivelarsi meno propensa a mantenere le garanzie sociali legate ai sistemi di Welfare (liquidati come «assistenzialisti»), sta nei fatti concreti.

Nel linguaggio di senso comune questa contrapposizione politica è spesso vissuta, e quindi rielaborata, come lo scontro tra gli abbienti (che, come tali, non dovendo affrontare i loro bisogni primari, già soddisfatti dalle proprie capacità di reddito e di ordine patrimoniale, possono invece dedicarsi ad attività espressive e a consumi affluenti) e il «popolo» (composto invece da soggetti in stato di costante necessità, ingiustamente collocati ai margini dei processi decisionali dalle élite). Nelle immagini ricorrenti, un tale antagonismo viene rinnovato nei termini di un secco confronto tra le «tecnocrazie» dei tenebrosi «poteri forti» e la veracità della «gente». Non c’è da fare facile ironia su queste semplificazioni, trattandosi semmai della riformulazione del significato di una frattura, presunta o reale che sia, tra quelle componenti della società che vengono giudicate come “garantite” e il resto della comunità nazionale. Da questa percezione di sé e degli altri, sovranismo e populismo hanno tratto non poche motivazioni per presentarsi come una sorta di nuova offerta politica, rivolta ad elettori che cercano una rappresentanza del proprio disagio.

Una terza considerazione è quella che chiama in causa il futuro non solo del nazional-populismo e dei sovranismi ma anche, in diretta e reciproca connessione, quello delle democrazie mature, liberali e sociali. Nel mezzo, lo si sarà oramai capito, si collocano disegni incerti, ai limiti dell’imperscrutabile – così come tra di loro, molto spesso, anche in competizione e quindi in contraddizione – dove comunque l’elemento comune è la percezione che la crisi dei regimi costituzionalistici e democratici sia oramai un dato incontrovertibile. Costituendo quindi l’orizzonte per i tempi a venire. In quest’ultimo caso, gli attori politici che si stanno adoperando per beneficiarne (a livello internazionale la Russia di Vladimir Putin e la Cina di Xi Jinping ma, per più aspetti, anche la parte di America che si riconosciuta nella presidenza di Donald Trump così come quell’Europa della destra illiberale) faticano a trovare comuni denominatori, per poi tradurli in una comune offensiva. Semmai sono sospesi tra ipotesi neoimperialiste e sovranismi isolazionistici. In competizione tra di loro, per l’appunto. Rimane il riscontro che la vera forza delle democrazie continua ad essere la debolezza dei loro avversari. Nessuna società democratica può tuttavia sopravvivere a se stessa se non continua a manifestare capacità di inclusione attraverso politiche di redistribuzione, sia della ricchezza sociale che delle opportunità. In situazioni di forte polarizzazione, le democrazie sono infatti destinate a frantumarsi. Perdendo quel pluralismo che ne è invece la linfa vitale.

Anche per questa ragione fa riflettere il fatto che dinanzi ad un flusso permanente di profughi dall’Ucraina si stia verificando anche una silenziosa emigrazione dalla Russia. Tra gli espatrianti, tredicimila sono giunti in Israele. Al momento, i russi richiedenti visti di ingresso sono quindi superiori agli ottomilacinquecento ucraini già riparati nel Paese. Diecimila di essi si sono valsi del visto turistico, la parte restante ha fruito della Legge del Ritorno. Per la quale, sia pure calcolando a larghe spanne, almeno seicentomila persone in Russia e duecentomila in Ucraina presenterebbero i requisiti per diventare cittadini israeliani. Le grandi crisi politiche e militari hanno sempre prodotto il medesimo risultato, ovvero quello di redistribuire le popolazioni. Ciò che il nazional-populismo, con i suoi rimandi alla difesa dei “confini etnici”, e delle popolazioni insediatevi, è invece completamente incapace di impedire.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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