Il fattore Q incombe sulle elezioni americane e non solo: cosa succede quando le teorie del complotto sovrastano la politica. Viaggiando in rete…
Costruiamo una cornice, dentro la quale inserire le dinamiche del complottismo e dell’antisemitismo contemporaneo, rifacendoci al contesto un cui l’uno e l’altro letteralmente cadono, ossia si manifestano pubblicamente per poi ottenere seguito di ascolto e quindi assensi di fondo. La premessa è che molti non stiano in un social network solo per informarsi ma soprattutto per raccogliere quel segmento di comunicazione che è l’indiscrezione, tanto più preziosa se sembra carpita all’altrui riservatezza. Non è solo un vezzo da ficcanasi. Semmai è il gusto – che rasenta l’aggressione figurata – di violare la sfera d’intimità di terzi e, con essa, quella regola del pudore che, invece, dovrebbe informare a prescindere le relazioni sociali. Poiché queste si basano sulla divisione tra la sfera pubblica e quella privata, celando la seconda dagli sguardi indiscreti di chi non ne deve esere parte. In altre parole, il desiderio di penetrare in qualcosa che si presume recondito, è un fattore fortemente motivante di una curiosità che diventa da subito intrusione. Inoltre, secondo non pochi studiosi della teoria della comunicazione, la viralità del web è agevolata non dal leggere ciò che altri hanno redatto ma dal potervi scrivere sopra, letteralmente gettando in pasto ad una massa generica (e informe) di potenziali interlocutori, i propri umori e malumori. Da ciò, tra le diverse motivazioni dello stare nella “piazza virtuale”, si inseriscono l’accesa collericità così come la propensione alla litigiosità. Nessuno, a mente fredda, le rivendica; molti, nei fatti, le praticano abitualmente. Nell’età della massima visibilità ognuno ritiene di potere vedere e giudicare a prescindere dai complessi riscontri che altrimenti occorrerebbero per essere non nel “giusto” bensì nel corretto. A fronte di un mondo sempre più complicato, ma del quale tanti pretendono semplicisticamente di “avere capito tutto” a priori, si manifesta il fatto che il rapporto tra complessità e comprensione è, invece, inversamente proporzionale, poiché laddove aumenta l’una diminuisce senz’altro l’altra. Nella presunzione di onniscienza subentra l’autoinganno, poiché si scambia l’eccesso di sollecitazioni informative per una migliore conoscenza, quando invece vale il presupposto per cui, se non c’è un chiaro codice ermeneutico, tutto rischia di frantumarsi in una fiaba senza lieto fine.
Detto questo, è necessario tornare su QAnon per capire non solo quale sia l’orizzonte del nuovo cospirazionismo ma come, nei momenti di crisi della politica partecipativa e di trasformazione degli assetti sociali ed economici, le teorie della cospirazione coprano i molti vuoti dell’esperienza materiale – ossia concreta – delle cose. Offrendo, al posto di essa, una sorta di efficace tonico dello spirito, un surrogato alla necessità di rispondere alla dimensione ansiogena che ci pervade quando affrontiamo qualcosa che ci risulta altrimenti incomprensibile e, come tale, destinato a sovrastarci, a condizionarci, al limite a manipolarci per sempre. La stessa premessa da cui partire, peraltro, non ha a che fare con la politica in senso classico bensì con le logiche che alimentano la macchina irresistibile dei social network e della comunicazione sul web, quanto meno quelle che hanno connotazioni di viralità (propagazione in catene a sviluppo esponenziale), di credulità (trovare una qualche interpretazione plausibile non per la ragione bensì all’emozione), di fidelizzazione (credere alle medesime cose, ripetute costantemente, al posto di ragionarci criticamente sopra, difendendo quindi graticamente l’oggetto del proprio convincimento), a volte anche di inverosimiglianza ed enfatizzazione (secondo un principio per cui più una menzogna è ingigantita, minori sono le possibilità, per coloro che intendano invece contrastarla, di dare delle risposte adeguate, ossia ascoltate dal grande pubblico). Beniteso, il “problema” non è il web, la virtualità, ma ciò che molti vanno cercando in esso. Trovando un simulacro al qualche aggrapparsi tenacemente, quand’anche tutto ciò faccia a pugni con il principio di realtà.
QAnon non è una teoria complottista che contenga in sé affermazioni immediatamente antisemitiche. Tuttavia, ha la medesima intelaiatura concettuale e cognitiva dei «Protocolli dei savi anziani di Sion», che continuano ad essere creduti non a prescindere dalla loro palese falsità (a volte riconosciuta addirittura da alcuni dei loro sostenitori) ma grazie proprio ad essa. Alle precise ed incalzanti repliche dei critici, infatti, quanti sono stati messi con le spalle contro il muro in ragione delle infinite incongruenze contenutevi, hanno sempre e solo ribadito che non valgono i riscontri fattuali bensì quelli ideologici. Sì, è vero: gli ebrei vogliono controllare il mondo e, proprio per questa ragione, i «Protocolli» rendono meglio intellegibile il dispiegarsi di questo sistematico progetto di dominio. Quanti ai fatti, tanto peggio per loro. D’altro canto, se ci sono analogie tra QAnon e i «Protocolli» è perché questi ultimi offrono da sé lo schema su cui costruire qualsiasi teoria del complotto. Il rimando esplicito a George Soros, va peraltro in tale senso. Non di meno, il maniacale ricorso al termine escatologico «cabal», che in inglese indica un gruppo di sodali, tra di loro associati per raggiungere un obiettivo illegittimo se non illegale, come l’attuare un piano segreto per ottenere manipolatoriamente un risultato politico, rimanda alla tradizione esoterica ebraica, adombrando quindi gli echi del «complotto giudaico».
E qui interviene, invece, il cambio di passo politico. Il complottismo risponde ad una nuova stagione della politica, non solo di quella americana ma anche internazionale. Poiché nasce e cresce dentro una feroce lotta per il dominio culturale che si è svolta in questi anni non tra destra e sinistra ma all’interno del primo campo. La sinistra liberale, infatti, è fuori gioco. Per non parlare di quella socialista, che vive in un recinto a sé un po’ ovunque. Non solo negli Usa. QAnon è invece funzionale all’affermazione dell’Alternative Right di contro ad un neoconservatorismo che, pur non disdegnando la manipolazione dei dati (alcuni aspetti della vicenda irachena sono, al riguardo, istruttivi), non si era tuttavia posto il problema di dare credito a letture integralmente capovolte della realtà. Lo spazio di identitarismi, di sovranismi e di populismi nell’oggi, infatti, è esattamente quello che rimuove la problematicità del reale sostituendovi un insieme di raffigurazioni ricostruite ad arte, vellicando l’immaginario. Non esiste più un legittimo conflitto di interessi, mediato dalle istituzioni pubbliche e dalla politica, ma il brutale confronto tra il «bene» e il «male» satanico. I Clinton, gli Obama ma anche Bill Gates e quant’altri, appartengono alle schiere dell’Armageddon. Sono Gog e Magog, gli emissari e adoratori del diavolo.
La prima lettura razionalizzante di un tale scenario, al netto delle farsesche raffigurazioni dei complottisti, è la più semplice, inscrivendosi nelle dinamiche storiche della politica statunitense, ossia quella per cui si alternerebbe un moto pendolare tra astensionismo e interventismo rispetto allo scenario internazionale. L’Alternative Right, da questo punto di vista, è concretamente controrrente rispetto al Neoconservatism. Si manifesta all’interno di un nuovo ciclo politico, avviatosi con la crisi finanziaria dei mutui subprime, già nell’estate del 2007. Lo scenario configurato da quel transito, evidentemente non solo finanziario ed economico ma anche sociale e civile, se in un primo tempo ha permesso a Barack Obama di garantirsi due mandati (con una politica che alternava posizioni più morbide a maggiori rigidità), ha poi aperto, per il tramite del Tea Party, ad una lunga stagione dove il conservatorismo – quello americano come nel resto del mondo – sta ancora adesso adoperandosi per riformulando le sue radici. Non più individualismo liberale ma populismo sociale; va oltre la cittadinanza repubblicana e costituzionale, a favore delle appartenenze etniche (intese come dei modelli di integrazione basati sull’origine di gruppo e non sul patto politico ed istituzionale; quindi, ognuno con i “suoi pari” e ciascuno a casa sua); enfatizza l’individualismo basato sulla proprietà (quand’anche non si posseggano beni) di contro al cooperativismo e al mutualismo; auspica il rafforzamento e la valorizzazione dei legami territoriali rispetto al tradizionale cosmopolitismo di una parte del pensiero borghese moderno.
Quindi, localismo contro globalizzazione; secca riduzione dei poteri pubblici, tanto più se federali e statali, a favore del controllo di vicinato, esercitato soprattutto attraverso forze dell’ordine elette o nominate da consigli della popolazione locale; soprattutto, identificazione con la rappresentanza di una collettività alla ricerca di identificazione e protezione, di contro alle élite dirigenti, adesso identificate con la “sinistra” (il «socialismo», secondo i codici espressivi dominanti). È come se fosse in atto una specie di inversione dei poli: i “poveri”, che si fanno plebe, vanno a destra; i “ricchi” votano invece per i partiti progressisti. Con una puntualizzazione di fondo, ossia che non si tratta per nulla di un processo inedito, avendo semmai già accompagnato l’affermazione, nello spazio politico occidentale, delle destre radicali a cavallo di due secoli, tra l’Ottocento e il Novecento. È in esse, beninteso, che l’antisemitismo moderno (quello che avrebbe poi pienamente sposato la visione biologica della «razza», insieme al messianismo politico e all’idea di una guerra ideologica senza confine contro il «giudaismo mondiale») ha preso forma definitiva, garantendosi una robusta diffusione e una durata temporale di lungo periodo. Non si è quindi esaurito con i movimenti, i partiti e i regimi che lo fecero diventare dottrina di senso comune nonché ferreo strumento di relazioni di potere. Poiché quelle relazioni, basate su diseguaglianze e asimmetrie di libertà e giustizia, possono essersi in parte trasformate ma, per più aspetti, persistono ancora. In altri termini, sono certe premesse che non si sono concluse, semmai adattandosi all’evoluzione dei fatti storici. L’antisemitismo, e gli stessi razzismi, seguono quindi a ruota.
Il sovranismo, e le teorie del complotto che lo supportano, arrivano quindi dopo un lungo processo di trasformazione e decomposizione delle tradizionali culture politiche democratiche e repubblicane. Ma hanno solide radici nel passato, più o meno recente. QAnon non esisterebbe senza le premesse poste dalla diffusa propensione all’autodifesa individuale (quasi una riedizione dello spirito della conquista del West, dove l’arma è garante dell’identità dell’individuo), alla cultura del sospetto e alla visione paranoica delle relazioni sociali (almeno di quelle che esulano dalla propria immediata capacità di controllo, come invece avviene nelle piccole comunità), all’insubordinazione verso quelle autorità che, per mandato costituzionale, debbono intervenire sugli spazi di espressione individuale a favore del mantenimento del sistema delle libertà collettive e della giustizia sociale. Da questo punto di vista, QAnon è il tentativo di generare un’internazionale degli isolazionisti. Non è un paradosso. È una storia che, per alcuni aspetti, si ripete. E proprio poiché reitera criteri e modalità che sono già stati collaudati, un altro punto strategico è capire che il complottismo, e con esso anche gli antisemitismi, faticano a diventare qualcosa di strutturato in un’organizzazione di interessi stabile. Se nel passato assumevano semmai la fisionomia di movimento d’opinione (lo scandalo che si accompagnò all’Affaire Dreyfus, tra il 1894 e il 1906, sussistette finché riuscì a dividere il pubblico francese in due fazioni radicalizzate, riecheggiando ben oltre gli echi giudiziari) oggi letteralmente sono sostanza fluida, pensiero diffuso, trend fluttuante.
Inutilmente, quindi, si andrebbe a cercare chiari mandanti, attori certi e protagonisti sicuri. Men che meno una mente unitaria, una direzione centrale, un organismo unificante, una sorta di “stanza dei bottoni”. Poiché è il web stesso a garantire non solo il contenitore in cui scaricare pulsionalità deliranti ma anche a raccoglierne la loro legittimazione collettiva. Se non altro, per il fatto stesso che, circolando, ed essendo riprese ripetutamente tra persone e in momenti diversi, le ipotesi complottiste offrono di sé l’impressione di un qualche fondamento. Donald Trump, che si è espresso nei confronti di quei suoi sostenitori che sempre più spesso si identificano pubblicamente usando la lettera Q – in quanto brand di riferimento identitario – come di «persone che amano il loro paese», non guida nulla e nessuno. Men che meno crede ad un qualche fondamento della teoria cospirativa. Più semplicemente, ha compreso che, lasciando liberamente circolare certe affermazioni, il loro consolidamento si rivelerà funzionale a garantirgli una maggiore forza alla candidatura e ad una plausibile rielezione.
Il cospirazionismo, infatti, attraverso la critica dei «poteri forti» in realtà si adopera per dare legittimazione a poteri tendenzialmente monocratici. Lo fa affermando che l’azzeramento di qualsiasi mediazione di gruppo, quella di partiti, sindacati, istituzioni pubbliche e private, sia una garanzia di maggiore libertà individuale. Poiché la denuncia di un presunto complotto ai danni di una collettività parla ad un tutto indistinto (il «popolo», la «gente», la «razza» e così via) appellandosi però alla coscienza individuale, alla quale offre la rivelazione della congiura ai suoi danni, contribuendo così a «risvegliarla».
I seguaci di QAnon usano frequentemente due paradigmi espressivi. Il primo di essi è, per l’appunto, il rimando al «risveglio», inteso come un soprassalto di consapevolezza, al quale il movimento anticomplottista intende dare seguito. Il riferimento assume spesso la natura di evento para-religioso, in accordo anche con le effervescenze che attraversarono il mondo protestante americano tra il XIX e il XX secolo. Non a caso, la carica dirompente di quei fenomeni trovava nella critica alle Chiese storiche il suo fondamento principale. I culti organizzati venivano accusati di essere dormienti non solo in ragione del loro arido magistero, privo di ascendente carismatico e messianico, ma anche perché orientati ad acquietare i loro fedeli, letteralmente assompendone la coscienza spirituale. In un diabolico patto di intessi, quindi di compromissione, con i poteri secolari. Risveglio (dei credenti) e rinascita (della coscienza), revival (delle tradizioni profonde) e risorgimento (morale) sono allora non solo indice di ravvedimento ma anche di mobilitazione contro le istituzioni «corrotte». Da ciò, quindi, la carica anti-istituzionale alla quale, tuttavia, si accompagna quella autoritaria: dinanzi alla falsità della politica “ufficiale” e dei poteri costituiti esiste solo una soluzione, quella del leader che guida la collettività da solo. Peraltro, quella stessa comunità, nel momento in cui dovesse sconfiggere definitvamente le forze sataniche che la circondano, saprà dimostrare di autogestirsi.
Il secondo paradigma rinvia alla parola «patriota», che negli Stati Uniti ha da sempre una grandissima diffusione, trasversale agli schieramenti politici. I patrioti che seguono QAnon vogliono smascherare tutto quanto possa risultare estraneo al territorio nazionale. L’idealizzazione negativa dello «straniero», di colui che varca i confini senza averne diritto, diventa una minaccia che richiede una strenua risposta. Chi viene «da fuori» porta disordine e contaminazione, perversione e immoralità. I patrioti in guerra – in quanto si ritengono chiamati ad un confronto senza tregua, in cui il legittimo possesso d’armi è un elemento non solo lecito ma indispensabile per arrivare alla vittoria – stanno quindi conducendo una lotta su tutto il territorio americano, anche in quello virtuale, della Rete, per fondare una nuova moralità pubblica. La quale non si caratterizza per ciò che dice di volere essere ma per quanto afferma di intendere annientare. La nuova autorità, che contrasta il New World Order, l’insieme dei «poteri forti», nasce dal basso, spontaneamente, dando corso a The Great Awakening («il grande risveglio») attraverso The Storm («la tempesta»).
La diffusione di QAnon non si basa su nessuna teoria politica precisa, al netto della sua conclamata posizione antisocialista e del sostanziale rifiuto del liberalismo classico, prediligendo semmai una sorta di anarchismo dai tratti individualistici così come autoritari. QAnon preferisce semmai rifarsi allo schema dei giochi di ruolo e di pazienza, molto diffusi sul web e che fanno parte integrante dell’immaginario virtuale. I seguaci si trasformano in followers quotidiani, impegnati a comprendere il significato degli indizi («drops») che circolano attraverso i molteplici contatti, usando come frequente riferimento gli stessi tweet di Trump. L’esoterismo e la decodificazione sono quindi fondamentali. Ogni Anon (l’aderente alla dottrina, la cui principale funzione è di mantenere in costante movimentazione l’intera macchina che lotta contro le cospirazioni del potere postando informazioni, congetture ed interpretazioni) si sente parte della rete alternativa originata dall’utente hub Q, il quale, a partire dall’estate del 2016, ha avviato una vasta campagna di diffusione di fake news così come di affermazioni prive di un costrutto razionale. Il rimando alla lettera alfabetica sarebbe diretto riferimento al codice identificativo «Q clearance», falsamente presentata come un’autorizzazione ad accedere a documentazioni segretissime. Una sorta di ingresso ad informazioni top secret che, nei fatti, tali non sono. L’utente Q, del suo, peraltro non dice nulla di chiaro, esprimendosi invece in termini sibillini, criptici, iniziatici, allusivi. Così facendo, i drops, o «briciole» che pubblica, ovvero che sono diffusi da altri utenti master (acronimi, codici alfanumerici ma anche motteggi come «impara a leggere la mappa» oppure il ricorso al numero 17, la posizione della lettera Q nell’alfabeto inglese, da cui anche la spasmodica attenzione per ogni sua pronuncia da parte del presidente Trump, indicato come colui che deve guidare la crociata contro il Deep State), vengono non solo raccolti ma “liberamente” interpretati, in un lavoro di esegesi collettiva che, tuttavia, deve solo ed esclusivamente avvalorare posizioni precostituite, ovvero quelle che testimoniano della veridicità dei teoremi di QAnon, trasformandosi quindi in “prove” certe ed incontrovertibili. Ogni affermazione apodittica è in genere puntualmente smentita dai fatti. Ma quello che conta non è l’evidente incongruenza, ai limiti delle fantasie deliranti, bensì la capacità, per gli aderenti, di affrontare l’asimmetria tra realtà e finzione adattando mentalmente la prima alla seconda.
La forza trainante di un tale modo di operare è quella di invitare quanti vi partecipano ad inseguire le logiche repentine, mutevoli e transitorie del web, quasi che ad avere esclusivo spazio sia la stessa umoralità dei suoi componenti. Il tutto viene presentato come parte di un processo storico, che cambierà la vita a quanti vi partecipano. Il fulcro non è la lotta tra idee ma il conflitto tra fatti e fantasia, con una marcata propensione ad invertire le due polarità. I riferimenti, impliciti oppure espliciti che siano, alla cultura visiva, ed in particolare alla fiction (tra film, serie televisive e gli stessi videogiochi) sono strategici, segnando «quanto sia oramai avanzato il grado di fusione del confine tra realtà e finzione» (Michael Barkun). La cornice complottista si fa garante della coerenza della “teoria”, permettendo alle diverse particelle e ai segmenti di pensiero che si esprimono con post, tweet, retweet e quant’altro, di essere ricondotte ad un’unica radice, la perennità dei convincimenti di fondo. Il procedimento, è bene ripeterlo, è quello fideistico e pregiudizioso che non cerca riscontri ad una ipotesi ma piega la realtà dei fatti al costrutto ideologico.
Il meme, in un tale contesto, è l’unità fondamentale delle teorie cospirative. Come già si è avuto modo di argomentare su queste stesse pagine, è una parola che unisce concettualmente il gene (unità ereditaria fondamentale), l’imitazione (ossia la sua riproduzione potenzialmente illimitata), la creatività (trattandosi di un elemento prodotto dal pensiero umano), la tracciabilità (di passaggio in passaggio si può ricostruire la catena alla quale dà, nel corso del tempo, esistenza) e la diffusività (non solo la compresenza in diversi ambienti ma anche la capacità di ambientarsi ad essi mutando alcuni suoi aspetti). Il meme genera una catena di significati che si propagano in ambienti diversi. Se si pensa al complesso e stratificato circuito dell’informazione come ad un vero e proprio habitat virtuale, allora il meme è come un agente che opera in esso, al medesimo tempo trasformandosi in maniera adattiva e concorrendo a cambiare le coordinate dell’attenzione collettiva, e quindi della discussione pubblica. In altre parole, concorre a scrivere l’agenda delle priorità, spostando non solo gli accenti ma anche le declinazioni su ciò che deve essere importante e quanto, invece, può essere trascurato. Anche per questo, quando il meme si incontra con il razzismo e, più in generale, con il complottismo, non solo deforma, a tratti quasi grottescamente qualsiasi dato di realtà ma propende per sostituirsi ad essa. Per inciso, quasi sempre il razzismo si alimenta della paranoia della congiura, poiché parte da un triplice presupposto: che esistano inconciliabilità tra membri di gruppi troppo diversi per trovare un comune terreno di accordo; che tale differenza implichi la volontà di prevaricazione del gruppo “avversario”; che quest’ultimo, per avvantaggiarsi, sia disposto a ricorrere a pratiche non solo scorrette ma anche clandestine, in base al criterio dell’alleanza tra congiurati.
La Rete è strategica, come ambiente sociale virtualizzato, poiché non solo permette ai memi di costuire delle connessioni in autonomia, lasciandole fluttuare, ma in assenza di concreti confini fisici, e con essi di riscontri, rende anche più difficilmente distinguibile il reale dall’immaginario. Di fatto, ne scavalca continuamente i confini, in un senso e nell’altro. Ad un tale stato di cose, le risposte razionali e basate sulla ragionevolezza, risultano inutili. Sono comunque armi spuntate, poiché il complotto si basa su una linearità argomentativa che è a prova di qualsiasi riscontro. Nel caso delle teorie presenti e ramificate sul web, che si presentano come naturale complemento dell’idea di movimento d’opinione (“non siamo un partito, non siamo destra né sinistra, semplicemente siamo con la gente, ne tuteliamo la consapevolezza, di contro alla schiavitù della coscienza voluta dai poteri forti”), la lotta contro ciò che chiamamo Deep State, lo «Stato occulto» delle oligarchie «sataniche» (pedofile, cleptocratiche, adoratrici del “diavolo”, ora anche pandemiche, corresponsabili della diffusione del SARS-CoV-2, ovvero della sua manipolazione e strumentalizzazione) è una delle migliori costruzioni di cartapesta di una politica che si annulla da sé, lasciando lo spazio al ritorno dei fantasmi.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.