Cultura
Émile Ajar, Paul Pavlowitch, Romain Gary: identità e finzione di uno scrittore geniale

“Degli autori chi se ne frega. L’unica cosa che conta è il dono dell’opera”. Parola di un inguaribile mentitore, due volte vincitore del premio Goncourt

“Non rinnego le mie origini, prendo semplicemente precauzioni per il futuro. Non è vero che mio padre si chiamava Lévi. Mio padre non era ebreo, sono insinuazioni. Ho ripetuto loro dieci volte che non ero Lévi, che avevo già abbastanza casini così. Ho urlato loro ‘Non Lévi! Pas Lévi!’ E devono aver trascritto Pahlevi”. Di conseguenza “mi accordarono dieci giorni di clinica” perché è evidente che Émile Ajar non è lo scià di Persia Pahlevi bensì Paul Pavlowitch, pas Lévi in ogni caso. La fuga dalle identità è cominciata. Adesso però, dice Ajar al dottor Christianssen nella sua clinica di Copenhagen, “conosco la ragione di tutti i miei sforzi per sfuggire alla mia identità, la causa di tutte le mie angosce e le mie pisciate di paura, della mia colpevolezza e del mio rifiuto dell’eredità. Sono ebreo”.

Pseudo esce in Francia nel 1976, terzo e ultimo romanzo di Émile Ajar, ma soltanto dal 2019 è disponibile in italiano grazie all’editore Neri Pozza nell’ottima traduzione e cura di Riccardo Fedriga. Nel 1975 il libro precedente di Ajar, La vita davanti a sé, diventa un caso letterario, vince il premio Goncourt e viene trasformato in un film diretto da Moshè Mizrahi che vince l’Oscar (del 2020 il remake italiano con Sophia Loren). Ma chi è l’autore che si nasconde dietro questo nome misterioso, negandosi ai media e al pubblico dei lettori? I giornalisti brancolano nel buio, poi finalmente, l’anno dopo, con Pseudo tutto sembra chiarirsi. Ajar è in realtà Paul Pavlowitch, figlio di una cugina del famoso scrittore – e eroe di guerra e diplomatico e amante leggendario e come si vedrà tra poco mentitore sopraffino – Romain Gary (che è però già uno pseudonimo: è Kacew il nome all’anagrafe), ebreo francese di origine lituana, vincitore del Goncourt nel 1956 con il romanzo ecologista Le radici del cielo e autore del capolavoro La promessa dell’alba in cui scandaglia la relazione densa con una madre fuori dall’ordinario, la sua. Poi il 2 dicembre 1980 Gary si spara dopo aver indossato una vestaglia rossa per mascherare il sangue, mettendo in atto quello che aveva più volte annunciato nei suoi libri per evitare il deperimento della vecchiaia. Pochi mesi dopo, postumo ma preparato nei minimi dettagli, esce Vita e morte di Émile Ajar, che racconta l’inganno con cui Gary ha costruito l’autore-personaggio Ajar, chiedendo a Pavlowitch di sostenere il ruolo dello scrittore di fronte alla stampa e ai giurati del Goncourt. Così Gary/Ajar rivela il suo gioco, non prima però di essersi fatto beffe del regolamento del premio, secondo cui il riconoscimento non può essere conferito due volte allo stesso scrittore.

“Ci lavoravo da quando avevo vent’anni”, dirà Gary nel libro postumo a proposito di Pseudo. È di fatto un libro preparato con cura minuziosa, nessuno però quando viene pubblicato pensa a Gary come possibile autore. Un critico lo bollerà come romanzo “vomitato frettolosamente da un giovane scrittore diventato famoso e montatosi la testa”, con riferimento a Émile Ajar dopo il successo della Vita davanti a sé; per un altro è scritto “senza le astuzie del mestiere”. Pochi colgono la raffinatezza dell’operazione letteraria e comunque in modo incompleto, perché nessuno sospetta di Gary nonostante il libro sia disseminato di indizi. C’è però un personaggio, zio di Ajar/Pavlowitch, che giornalisti e lettori identificano con l’ingombrante Gary agli occhi del presunto autore. Prende il nome da una maschera demoniaca della tradizione vudù di Haiti, Tonton Macoute, a raffigurare l’identità oscura del vero autore. Nelle parole del narratore Ajar, “è un bastardo, ma ciò non significa che non sia necessariamente mio padre”. Tonton Macoute potrebbe essere il vero autore della Vita davanti a sé, opina Ajar, oppure “è stato ucciso in guerra e da allora non se l’è cavata male”. Allora, a proposito della guerra combattuta da Gary come aviatore della France libre di De Gaulle, Ajar pensa “alle città tedesche che Tonton Macoute aveva bombardato. Migliaia di civili in rovina. Nelle case che faceva saltare c’erano canarini, cani, gatti. Centinaia di gattini”. Apriti cielo. Ajar/Pavlowitch, ebreo, sarà accusato un po’ di tutto, compreso odio di sé e antisemitismo. “Sono più che sicuro che tu sia mio padre” dice a Tonton Macoute. “Mi chiedo perché”. “Perché delle volte ti odio che di più non si può”.

Pseudo racconta la pseudogenesi della Vita davanti a sé. L’immaginario narratore Ajar immagina una madre morta di sclerosi cerebrale all’ospedale di Cahors, da cui la Madame Rosa del libro vincitore del Goncourt. “Tonton Macoute è uno scrittore autentico e aveva spremuto da sua madre tutto ciò che poteva”, dice riferendosi alla madre di Gary protagonista della Promessa dell’alba. Cosa c’è di male se a farlo è il nipote? L’autore fittizio smaschera se stesso ma non viene preso sul serio. Scherza, pensano tutti, ed è evidente che ha un conto aperto con lo zio. Un giornalista nel medesimo articolo riesce a criticare Gary e a impalmare il giovane talento Ajar.

Ajar dialoga con (e insulta) i critici, i giornalisti, gli editori e assimila l’intero apparato della cultura a una clinica. “Ho scritto i miei libri di clinica in clinica, dietro suggerimento dei medici stessi. E’ terapeutico, mi dicevano”. Il libro non segue una cronologia o un’altra forma di ordine apparente; nelle parole di Ajar, “ho letto abbastanza gialli per sapere che l’ordine rischia di mettere la polizia sulle mie tracce”. Come solo i grandi mentitori sanno fare, Gary depista dicendo la verità. “Ho fatto installare una segreteria telefonica. Un aggeggio moderno, civilizzato, e appositamente studiato allo scopo, che rispondeva che io non esistevo, che non c’era alcun Pavlowitch, ero una mistificazione, uno scherzo, non ero di quel genere. Certo, presentavo qualche segno esteriore di esistenza, ma si trattava soltanto di letteratura. Non ha funzionato”.

L’autore sfugge, scivola, striscia come un serpente, cambia pelle sgusciando fuori dal vecchio involucro. Come il dio marino Proteo, cambia forma per evitare la cattura, ha mille nomi e mille volti. Alludendo al primo libro di Ajar, Mio caro pitone, “divento un pitone, un topolino bianco, un cane fedele, qualsiasi cosa per provare che io non c’entro niente […] persevero, scappo altrove, me la svigno. Posacenere, tagliacarte, oggetto inanimato. Qualsiasi cosa che non sia colpevole. Questa voi la chiamate follia? Io no. Io la chiamo legittima difesa. Il principio di non contraddizione e il razionalismo, Aristotele e Cartesio sono prossimi alla capitolazione, “sono sicuro che il cervello avrà il suo 1789”. Addentrandosi sempre più a fondo nei meandri della creazione letteraria, che è un inganno, Pavlowich difende Ajar in un traboccare di monologhi, flusso di coscienza e dialoghi tra sordi. “Sa, non sembra affatto l’opera di un debuttante”, gli dice una giornalista. E il dottor Christianssen: “Forza. Il destino non la cercherà di più sotto il nome di Ajar che sotto un altro. Lui se ne frega. Spazza via tutto. In ogni caso, per il destino, i nomi, lei lo sa… sono tutti pseudonimi”. Se pseudo indica la dissimulazione, pseudo-pseudo – come viene definito da Ajar – indica la dissimulazione della dissimulazione, la dispersione dell’identità, un garbuglio di sottosensi e sovrasensi. La scrittura trabocca esce dagli argini, esonda; è sintomo e causa della rottura più lacerante, quella con se stessi. In questo romanzo totale, in cui l’autore è trasfigurato in personaggio, il soggetto scompare. L’autore, cioè il soggetto per eccellenza, esiste come personaggio letterario e non come soggetto reale o linguistico.

“Non voglio assolutamente essere identificato, dissi. Mi renderebbe la vita impossibile”. Tonton Macoute gli chiede di non rivelare ai giornalisti la parentela che li lega: “Scriverebbero che ti ho aiutato”. Finalmente l’intervista esce. “Quando ho letto l’intervista […] mi assomigliava così poco, come uno qualunque che fosse altro da sé. Quell’assenza di me stesso ero proprio io. Finalmente esistevo. Questo mi ha fatto talmente paura che ho avuto una ricaduta”. Detestare l’ingombrante zio è la migliore cura, soprattutto quando ancora, come confessa Ajar – sarebbe stato sufficiente prenderlo sul serio per risolvere il mistero, ma come fare? – di Tonton Macoute “si taceva il fatto che all’epoca fosse il mio autore. Ancora nessuno sospettava i nostri legami ereditari”. In ogni caso “stavo meglio, le mie tendenze suicide erano sparite, non avevo più voglia di sopprimermi lasciando questa nota esplicativa: ‘Finalmente autentico’”. E allora, per mettere fine al mistero Ajar, dice Ajar, “ho perfino firmato Émile Ajar, bacato mentale, bugiardo compulsivo, mitomane, inventore di storie, imbroglione, impostore, truffatore, pseudo, megalomane, con tanto di prove storiche a sostegno”. “Sta forse cercando di vincere un premio letterario?”, ribatte il suo avvocato. “In che senso?”. “Si sta creando una leggenda”. “Sono Émile Ajar!, urlai, colpendomi il petto. Il solo, l’unico! Sono il figlio delle mie opere e il padre delle stesse! Sono il mio proprio figlio e il mio proprio padre! Non devo niente a nessuno! Sono il mio proprio autore e ne vado fiero! Sono autentico! Non sono un bidone! Non sono pseudo-pseudo: sono un uomo che soffre e che scrive per soffrire di più”. Il dottor Christianssen:Adesso la sua guarigione è definitiva. Lei è del tutto normale. Non ha più alcun problema di personalità. Il colpevole, per lei, ormai, è l’altro. Anzi, i colpevoli sono gli altri. Lei non c’entra per niente. Può circolare. La dichiaro guarito!”. Ma lo spettro di “tentazioni messianiche, riformatrici e schizoidi” continua a aleggiare fino all’ultima pagina, fino all’ultima riga.

“Diffidate. Le parole nemiche vi ascoltano. Tutto finge, niente è autentico e non lo sarà mai finché non siamo, non saremo i nostri stessi autori, la nostra stessa opera”. È così fin dai tempi di Omero, a quanto pare. E poi “non sono io che conto, in tutto questo. È il mio libro. Degli autori chi se ne frega. L’unica cosa che conta è il dono dell’opera. Ogni cosa è romanzo. Perfino l’autore.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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