Israele
Eylon Levy, l’uomo dell’anno di Israele, si racconta

Intervista alla voce più famosa del Paese tra presente e futuro (prossimo)

Se esistesse la copertina del Time in versione israeliana, Eylon Levy riceverebbe sicuramente quella dell’uomo dell’anno 2023. Glielo dico, facendolo sorridere, mentre siamo seduti ad un caffè di Tel Aviv dove lui, in mio onore, ordina un cappuccino e io, per restituirgli l’onore, ordino un tè, come da tradizione inglese. Una volta congedato il barista mi fa promettere di non scrivere mai l’orario in cui ha ordinato il cappuccino e subito dopo, passando dal faceto al serio, mi dice che a meritarsi la copertina sono tutti i soldati e le soldatesse che hanno sacrificato la propria vita, a partire dal 7 ottobre, per impedire quella che si sarebbe potuta trasformare nella totale distruzione dello Stato di Israele.

Classe 1991, Eylon Levy, inglese per nascita ma figlio di genitori israeliani, finite le superiori decide di iscriversi prima ad Oxford e poi a Cambridge, per approfondire la conoscenza della storia del suo Paese di origine, e del conflitto che lo lacera da 75 anni.
Da allora ha tradotto dall’ebraico all’inglese oltre una dozzina di saggi sull’argomento, vincendo numerosi problemi internazionali. È già negli anni dell’accademia che comincia a riscontrare la totale ignoranza e mancanza di conoscenza storica da parte dei promotori del movimento BDS (Boicott, Divestment and Sanctions), che da subito mettono alla prova il suo articolato uso della retorica – unito a molta calma e tanto sangue freddo – per cercare di spiegare la complessità di Israele: “ È stato uno dei momenti più formativi e ispiranti della mia carriera, ancora in divenire, perché allora ho capito quanto fosse importante usare la mia voce per rappresentare la voce di un’intera nazione: Israele”.

Fino all’esigenza di farvici ritorno, da solo, arruolandosi come soldato, a 23 anni, subito dopo aver concluso gli studi.
Cosa ti ha portato a decidere di fare questo grande passo assieme all’aliya, ovvero il “ritorno” in Israele?
“In quel momento ho capito che era giunto il momento e non potevo aspettare un minuto di più. È stata una sorta di now or never. E i miei genitori non hanno provato a fermarmi, perché, hanno sempre appoggiato le mie scelte professionali”.

La carriera di Levy è cominciata lavorando per il COGAT – l’organo dell’esercito che si occupa della logistica delle attività congoiunte tra Israele e i Territori – per poi diventare presentatore per il canale israeliano di informazione internazionale i24, fino a essere nominato portavoce del Presidente di Israele, Isaac Herzog.
Negli ultimi mesi, tuttavia, aveva deciso di prendere una pausa professionale, fortemente scosso dalla spaccatura interna a Israele dovuta alla riforma giudiziaria e al movimento – sviluppatosi parallelamente – per la salvaguardia della democrazia israeliana, di cui lo stesso Levy ha fatto parte, per 39 sabati consecutivi. Fino all’arrivo del 7 ottobre.
“Quel giorno i miei genitori, sconvolti come tutti noi, mi hanno chiamato e cercato di convincere a salire sul primo volo per Londra. Ma proprio in quel giorno terribile, che avrebbe cambiato per sempre la storia di Israele e dell’umanità, ho capito, immediatamente, che, nell’immensità di quella tragedia, il nostro Paese si trovava anche di fronte a una grande opportunità. Ritrovare l’unione andata persa, attraverso una missione da portare a termine: sconfiggere il terrorismo indiscriminato di Hamas e ristabilire il confine della moralità, non solo per il popolo ebraico, ma per l’umanità intera. Come privato cittadino, ho cominciato immediatamente a far sentire la mia voce, e quella del mio popolo, attraverso i social, utilizzando la telecamera del telefono installata nel mini-studio che avevo provvisoriamente allestito in salotto. In meno di una settimana i miei post erano diventati virali fino a ricevere la chiamata da parte del governo che voleva diventassi il loro portavoce all’estero”.

Nonostante il successo immediato dovuto alla sua incredibile capacità comunicativa, per altro enfatizzata da uno strepitoso accento british, Levy non avrebbe mai immaginato, nel giro di poche settimane, di venire fermato quotidianamente per strada, persino da celeb israeliane, che non fanno che chiedergli di poter essere immortalati assieme per una selfie.
L’episodio che ha determinato la sua fama al punto da essere diventato un meme per WhatsApp è stato l’“incidente” con la giornalista Kay Burley di Sky News, che gli domandava – alla vigilia del rilascio dei primi ostaggi a Gaza – se lo scambio di un civile israeliano in cambio di tre terroristi palestinesi stesse a significare che la vita di un israeliano valeva quanto quella di tre palestinesi. Nonostante le sue note doti di self-control, mentre le rispondeva: “Non abbiamo certo deciso noi questo scambio iniquo tra i nostri civili e i loro terroristi, dalle mani sporche di sangue”, Levy non è riuscito a controllare il movimento – dettato dal totale stupore di una domanda così poco pertinente – delle proprie sopracciglia, che si sono mosse immediatamente, e drasticamente, verso l’alto. Da allora le sue sopracciglia hanno fatto il giro del mondo come, da tutto il mondo, continuano ad arrivargli richieste di matrimonio.

Il kibbutz Kfar Haza

Dal 7 ottobre, tra tutte le domande che ti sono state fatte, quale è stata la più difficile a cui rispondere?
“Il 7 ottobre è stato un terremoto inaspettato dopo il quale la storia di Israele, e del mondo, si dividerà, per sempre, tra un before e un after. Più che una domanda specifica, per me una delle sfide più grandi è sempre stata, ed è tutt’ora, quella di far capire, al mondo, questo enorme momento di transizione, non solo per lo Stato di Israele. Oggi ci troviamo a dover ridelineare un confine, nella sua essenza cristallino, tra umanità e barbarie. Il mondo ci accusa di volere una guerra che non solo non abbiamo cominciato noi ma che non avremmo mai voluto che cominciasse, e che ora siamo costretti a portare a termine, per non permettere ad Hamas, e a nessun altro gruppo terroristico, in tutto il mondo, di ripetere le atrocità che sono state commesse durante quel Sabato Nero. Purtroppo, questa catastrofe è stata anche il risveglio da un torpore in cui si pensava che l’antisemitismo fosse un fenomeno superato, mentre i sondaggi di oggi, che vendono il 50% degli adolescenti americani dichiararsi specificatamente pro-Hamas – e non semplicemente pro-pal, ndr. – ci ha ricordato che, come dai tempi dei pogrom, il popolo ebraico si trova costantemente sotto attacco. Il 7 ottobre i civili israeliani, nelle loro case, sono stati uccisi, rapiti, stuprati: donne, uomini, anziani, bambini, neonati. Il mondo intero ha visto tutto in diretta e, ciò nonostante, è rimasto in silenzio. Un silenzio non accettabile perché compromette i diritti umani non solo del nostro popolo ma dell’umanità intera: questo è per me il compito più importante da portare avanti attraverso il mio ruolo di portavoce”.

Come fai a rispondere con così tanta fermezza e precisione a tutte le domande che ti vengono poste ogni giorno? Ti sei mai trovato in conflitto tra la risposta che “dovevi” dare e quella che avresti voluto dare?
“Ho la fortuna di avere un incredibile staff di volontari che mi tiene aggiornato 24/7 non solo su ciò che accade in Israele ma, soprattutto, su quello che succede nel mondo. Il loro lavoro è incredibile, come quello di tutti gli israeliani che dall’8 ottobre si sono rimboccati le maniche e si sono uniti, assieme, per la difesa del Paese. Per questo non ho mai dubbi su cosa rispondere, perché sento di rappresentare la voce della nostra nazione, per intero. Sappiamo tutti, chiaramente, per cosa stiamo lottando, e il prezzo che stiamo pagando, per garantire la salvezza del nostro Paese e dei nostri figli. Per la prima volta nella storia di Israele non ci sono fratture interne, e anche coloro che rappresentano il peace-camp sanno, dopo quello che hanno provato sulla propria pelle il 7 ottobre, che purtroppo non abbiamo alternativa, perché Hamas oltre che voler distruggere Israele, ha distrutto, per sempre e in modo irreparabile, il processo di Pace.”

Quante ore dormi per notte e come fai a non perdere mai la calma di fronte alle continue provocazioni di alcuni dei tuoi intervistatori?
“Subito dopo il 7 ottobre, per un mese, ho lavorato, letteralmente, giorno e notte, per poter partecipare a tutti i dibattiti, in qualunque Paese e a qualsiasi orario. Ora se riesco a dormire sei ore per notte mi considero molto fortunato. Ma non potrei mai permettermi di abbandonare il campo di battaglia, perché il rapporto fra ebrei e musulmani è di 1 a 200 e, come se non bastasse, gli algoritmi dei social non fanno che amplificare la loro voce e silenziare la nostra. E anche chi sta dalla nostra parte, dal mondo di Hollywood a quello dello sport, ormai ha paura ad esporsi per rischiare di risultare impopolare o, ancora peggio, perché teme di ricevere minacce di morte.
Eppure, è una battaglia che non possiamo permetterci di perdere. Non solo per la salvezza del nostro popolo, ma per l’umanità intera. Questo è ciò che mi aiuta a non perdere mai il controllo: perché so che la posta in gioco è troppo alta. Non ho scelta. Soprattutto, so che quello che stiamo facendo è la cosa giusta, e l’unica possibile da fare. E questo mi da forza”.

Fino a che punto il confine con l’antisionismo sconfina con quello dell’antisemitismo?
“Oggi, purtroppo, assistiamo ad un grande scollamento tra i governi, che ci sostengono, l’opinione pubblica, che accede a media polarizzati, e il mondo delle grandi istituzioni e ONG, dall’ONU alla Croce Rossa Internazionale, che nel non riconoscere il massacro subito da Israele, di fatto, non fanno che legittimare la propaganda di Hamas, ai cui, l’8 ottobre, avrebbero dovuto  invece chiedere il ritiro, immediato e incondizionato, dal governo di Gaza.
Purtroppo, esiste una buona parte di mondo che, pur non indentificandosi direttamente con Hamas, lo legittima, poiché, di fatto, crede che Israele non abbia diritto ad esistere. Infatti, un netto confine tra antisionismo e antisemitismo non c’è mai stato e la prova lo sono coloro che strappano, dai muri delle città di tutto il mondo, i manifesti che ritraggano gli ostaggi israeliani a Gaza, persino quando si tratta di neonati. Come fa un neonato a essere considerato un pericolo per il popolo palestinese? A meno che strappare la sua foto non diventi necessario per creare una demarcazione “fittizia” tra oppressi e oppressore? Strappare il poster di un ostaggio di dieci mesi è diventato ormai l’unico modo per “negare” il fatto che l’“oppressore” – sia del popolo ebraico, che degli stessi palestinesi – è Hamas.
Quello che è avvenuto in questi mesi è stato un processo di “deumanizzazione” del popolo ebraico, processo che ha una storia millenaria e che in questi ultimi decenni, con la fondazione dello Stato di Israele, coincide con la storia, e la sopravvivenza, degli israeliani.
Questo processo di “deumanizzazione” è recondito, e parte integrante del pensiero occidentale, che va a scontrasti con la volontà dei governi di arginare l’ondata dell’islam estremista e terrorista, che ormai sta dilagando in tutta Europa – come è si è verificato nelle operazioni di intelligence delle scorse settimane – e che si sta già espandendo in tutto il mondo.
Il paradosso di questo odio perverso è che, pur di deumanizzare ebrei e israeliani, coloro che ci odiano rischiano di mettere in pericolo i loro stessi Paesi, i loro cittadini e d loro figli. Permettendo a facinorosi di manifestare utilizzando slogan che incitano all’intifada, ci si dimentica che questo movimento è quello che ha iniziato l’utilizzo degli attentati suicida. Si assiste, dunque, ad un totale scollamento – o negazione – del nesso tra parole, ideologie, fatti e conseguenze. Fino a quando, queste, saranno irreparabili”.

Per concludere da dove eravamo partiti, ovvero dalla tua scelta di vivere in Israele, come vedi il futuro del Paese e come ti immagini potrà trasformarsi il tuo contributo, individuale, con una nuova leadership, quando la guerra sarà terminata?
“Purtroppo, anche se vorrei più di qualsiasi altra cosa al mondo che domani mattina fosse già il day-after, siamo ancora molto lontani dalla fine di questo conflitto, per cui faccio fatica a visualizzare il futuro di Israele, mentre stiamo ancora lottando per garantire la sua sopravvivenza. Perché oggi, oltre al pericolo di Hamas, si aggiunge anche quello di Hezbollah che, ancora una volta, non sta rispettando la risoluzione 1701 dell’ONU – garantendo un territorio di sicurezza tra il confine di Israele e quello del Libano, ndr. – che eviterebbe l’escalation in una guerra ulteriore: l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Salvo non avere alternativa, come nel caso dell’aggressione da parte di Hamas.
Confidiamo, essendo coinvolto anche lo Stato sovrano del Libano, che la via diplomatica possa riuscire in quello che, fino ad oggi, non è ancora stato ottenuto. Continuiamo ad avere fiducia nella diplomazia e nei nostri partener internazionali che ci appoggiano perché riconoscono il ruolo cruciale di Israele nella salvaguardia della democrazia, ormai non più solo in Medio Oriente. Per questo voglio immaginare che, quando questo conflitto troverà una risoluzione, Israele sarà, inevitabilmente, più forte di prima.
Con il 7 ottobre, nel tentativo di eliminarci, Hamas ci ha, paradossalmente, risvegliato.
Ci ha ricordato quale confine non poteva più essere superato, perché e quanto abbiamo bisogno di garantire l’esistenza di questo Paese, per noi e per tutti gli ebrei della diaspora, proprio a causa di tutto l’odio che c’è nel mondo.
Terminata questa guerra comincerà un lungo, e faticoso, processo di ricostruzione, sia materiale che morale. Ma sono certo che saremo in grado di farlo perché lo stiamo già facendo: abbiamo cominciato la notte del 7 ottobre.
In questo senso, siamo davvero una nazione incredibile e unica al mondo. Ma ora abbiamo una missione da portare a termine e per far questo abbiamo bisogno l’uno dell’altro, trasformando quello che è stato un trauma dalle dimensioni e dalle conseguenze disastrose, nella nostra resilienza e rinascita. Non so ancora come, personalmente, contribuirò a questa rinascita. Prima dobbiamo occuparci della nostra sopravvivenza, grazie anche al supporto di tutti i Paesi che ci hanno teso una mano fin da subito, a partire dall’Italia. Solo a guerra finita sarò, sicuramente, pronto a fare qualsiasi cosa per dare il mio contributo personale nel far prosperare la pace in Medio Oriente”.

 

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


3 Commenti:

  1. Bravo, bravissimo. Peccato neppure un mezzo cenno alla distruzione di Gaza, e quella frase inquietante sul “processo di pace irrimediabilmente distrutto”. Mi pare che la deumanizzazione non riguardi solo ebrei e israeliani.

  2. molto interessante. Peccato che non dica niente delle omissioni, degli errori e degli orrori di Netanyahu e del suo governo.


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