Cultura
Giornata della Memoria: ciò che resta di Auschwitz, una riflessione per capire il presente

Auschwitz è il paradigma di una condizione, quella umana, quando viene spogliata di ogni aspetto di umanità

Cosa andiamo intendendo quando parliamo di Auschwitz? Il Lager tedesco in terra polacca, luogo nel medesimo tempo di deportazione, concentramento e di sterminio, è un toponimo che nella lingua dell’Europa contemporanea evoca prima ancora che raccontare. Demanda, per il fatto stesso che il suo nome venga pronunciato, a un contesto concentrazionario che è un insieme di luoghi, di situazioni, di esperienze dove la nota dominante è la negazione dell’umanità dell’uomo. Dire «Auschwitz» implica riconoscere che barbarie e modernità non solo non si escludono a vicenda ma possono interagire, producendo uno sviluppo senza progresso, una razionalità senza ragionevolezza, un’accumulazione senza condivisione, fino all’estremo esito di originare una società e uno Stato dai tratti deliberatamente criminali.

Auschwitz è ancora una sfida perché mette in forte tensione e ad insopportabile torsione la ragione, ponendo domande radicali ma non offrendo facili spazi di risposta. In tale veste è qualcosa di più e di diverso dal solo evento in sé, diventando semmai il paradigma di una condizione, quella umana, quando per l’appunto è spogliata di ogni aspetto di umanità. Peraltro, detto questo, va aggiunto che non si può indulgere in nessuna metafisica sui lager. Siamo in presenza di un prodotto storico, ovvero del risultato dell’agire degli uomini nel corso del tempo. Come tale l’ineffabilità di Auschwitz non è mai di ordine materiale e fattuale, poiché la sua storia è oramai ben conosciuta, bensì morale e culturale. Semmai, il circuito concentrazionario, in quale contesto precipita, a quali forze risponde, come riesce ad articolarsi nel nostro tempo?

Il primo aspetto che è bene trattare richiama quello che è forse il tratto più potente e quindi inquietante del totalitarismo novecentesco, il superamento della linea di separazione tra sfera dell’agire pubblico e quello che è invece la dimensione del privato. La prima demanda all’oggettività, la seconda alla soggettività, la prima al «noi» la seconda all’«io». In una società democratica sono in rapporto dialettico, in una totalitaria vi è una tale torsione per la quale la prima travasa completamente nella seconda. Il “totalitarismo reale”, che raccoglie quei regimi storicamente determinatisi a cavallo tra le due guerre mondiali, implica l’assenza di uno spazio privato poiché quest’ultimo diventa inessenziale, ovvero non più fungibile agli scopi che l’hanno generato. L’essenza dell’esperienza totalitaria si colloca in questo prosciugamento della sfera dell’intimo, nella dichiarazione della sua inutilità o, se si preferisce, della sua non necessità nell’età contemporanea. La dimensione di ciò che appartiene al singolo diventa pertanto inutile, un vuoto contenitore da riempire di nuovi contenuti, quelli dettati da un potere che è onnisciente poiché si fa carico di colonizzarne tutti gli ambiti. L’uomo si trasforma in una variabile dipendente dal gruppo di ascrizione, del quale segue l’ineluttabile destino, non potendovi incidere in alcun modo ma comunque subendone immediatamente gli effetti.

In questa privazione di una sfera intima sta una vera e propria oscenità (la radice del termine, obscenus, per estensione è stata utilizzata anche per indicare qualcosa che deve essere tenuta lontano dallo sguardo) che nei corpi svuotati di ogni vitalità dei prigionieri nei campi di concentramento, così come nelle pile di cadaveri tra di loro ammucchiati, trovava la sua più estrema e radicale sintesi. Quei corpi non ricordavano gli uomini che erano stati ma degli oggetti inanimati, in attesa di essere inceneriti. Si trattava solo di una stazione terminale dove la sfera del privato, che invece disegna lo spazio dell’individuo a partire dal quale si determina, per sottrazione, il luogo del pubblico come ambito della vita associata, aveva da tempo perso i suoi contorni, la sua fisionomia, il diritto stesso a esistere. E laddove non sussista diritto al privato, come dimensione della soggettività, non c’è diritto alla vita.     Se non si parte da questa premessa, peraltro, ben poco si coglie della radicale novità che il fenomeno del totalitarismo ha rappresentato per la storia umana e per quella parte dell’esperienza del mondo che definiamo modernità. Consustanziale all’idea della vetustà dello spazio del privato, consegnato a una sorta di sogno tardo-borghese, dal quale congedarsi nel nome di un progetto “autenticamente collettivo”, quella della generazione di un «uomo nuovo», privo di confini poiché integralmente immerso nel flusso continuo della vita pubblica, è quindi la forma Lager come modo di organizzazione e disciplinamento dell’alterità sociale. La vita pubblica non è più uno spazio di incontro e confronto ma un contesto di ritualità perennemente ripetute, la cui forza e sostanza sta nel fatto stesso della loro reiterazione. Il rituale collettivo (adunate, parate e così via) si sostituisce a ogni altro momento di socialità, pervadendo ogni aspetto della vita individuale.

La trincea e la fabbrica sono due sono le premesse storiche, sia organizzative che antropologiche, del Lager. Entrambe appartengono a pieno titolo all’epoca moderna, essendo alla radice del suo essere contesto di mobilitazione dei corpi: la prima è la vita di trincea, ovvero le condizioni di esistenza in quel luogo che è al contempo sede dei più efferati combattimenti come di lunghi periodi di stallo, dove migliaia di esseri umani si ammassano, in una sorta di livellamento collettivo che non ha pari e nel quale il «primum vivere» si estrinseca nell’elementarità dei bisogni che costituiscono l’unico orizzonte quotidiano dell’individuo: mangiare, bere, orinare, defecare, schivare le pallottole, possibilmente uccidere per non essere ucciso. Pur nel suo costituire una esperienza parossistica, si tratta di un fuoco della socialità del Novecento, la cui radice sta nella distruzione di ogni forma di relazione interpersonale che non sia fondata sull’imperio della necessità e del caso (la necessità di sopravvivere, l’imponderabilità del modo in cui ciò avveniva) nonché sulla contrazione dello spazio e del tempo alla pura e semplice esperienza del «qui e ora».

La caserma – che sarà ripresa come modello di riferimento da Mussolini per riorganizzare l’Italia sotto il regime fascista – ne è la trasposizione in tempi di pace. Ciò che nella trincea domina, oltre all’angustia del momento e del luogo nel quale si coabita coattivamente, insieme a tanti altri identici tra di loro poiché accomunati nella condizione di precarietà totale, è il senso della eterodirezione, della totale costrizione dettata da qualcosa che sovrasta ossessivamente gli individui obbligativi, che non possono in alcun modo mutare ma che è comunque in grado di mutarli. Aleggia l’odore della morte, alla quale peraltro ci sia abitua in breve tempo.

La seconda premessa è la grande fabbrica, come moderna forma di organizzazione della produzione, nella quale l’elemento più importante è la catena di montaggio, laddove la spersonalizzazione predomina su qualsiasi altro aspetto poiché lì è operante, ancora una volta, una secca negazione del tratto individuale di chi vi è insediato. Infatti, in entrambe le circostanze, trincea e officina, l’individuo è parte di una serie, non esistendo nella sua soggettività bensì come elemento, immediatamente sostituibile, di una sequenzialità stabilita anzitempo, da forze a lui esterne ed estranee, i cui effetti comunque gli ricadono addosso nella loro inesorabilità. Conta il numero, non conta il nome. Il nesso tra l’una e l’altra, oltre all’immediata contiguità storica (le guerre mondiali si compiono nel momento del passaggio definitivo, ossia irreversibile, a società di massa, dove l’individualismo liberale deve confrontarsi con le torsioni dettate da una comunità della moltitudine mentre lo sviluppo e la diffusione delle grandi fabbriche, dove si lavora con alla catena di montaggio, avviene definitivamente con gli anni venti, anche sulla scorta degli effetti della diffusione della grande produzione bellica) è dato dalla brutalità dei legami sociali che sono così istituiti, dove non solo si afferma la dimensione di una gerarchia assoluta ma anche la più nuda e fredda competizione così come il più totale isolamento.

Lo spossessamento di sé, inteso come l’alienazione dai risultati del proprio agire, si estende alla separazione e alla frammentazione dalla propria identità di essere umano. Il totalitarismo si inserisce in questo processo, tipicamente moderno, di deumanizzazione. E occorre parlare di deumanizzazione per davvero poiché le credenziali del potere totalitario sono tutte giocate sul senso di vuoto incolmabile che l’individuo, che già non si sente più tale ma banale particella, semplice atomo, vive a contatto con la brutalità delle condizioni date. Non c’è umano e, men che meno, umanità che resistano dinanzi a ciò. C’è un vuoto, per l’appunto, che il potere assoluto dei regimi totali copre con il discorso sulla comune appartenenza alla totalità di uno spazio pubblico. Quest’ultimo, rassicurando il soggetto sul fatto che c’è comunque una ragione nella sua esistenza, ovvero il suo essere espressione di un gruppo – razza, classe, nazione, tribù e così via – di cui è una mera promanazione, ingloba dentro di sé l’individuo, impoverito della sua dimensione privata, ridotta a vuoto involucro. Ciò facendo realizza quanto spaccia per eguaglianza (una delle istanze della modernità sociale), sostituendovi concretamente l’uniformità del sempre identico, del sempre uguale.

Non è un caso, quindi, che la sua attenzione si rivolga contro l’alterità, ossia nei confronti della varietà sociale, delle differenze che in sé sono il necessario prodotto dell’evoluzione moderna (l’effetto di quello che i sociologi chiamano la «divisione sociale del lavoro»), laddove le comunità umane si confrontano con la trasformazione e il pluralismo come dati di fondo ma che ora vengono ritematizzate sull’ orlo di una potenziale catastrofe. All’uomo moderno, spiazzato dall’incomprensibilità del mutamento, e da esso soprattutto impaurito, poiché si domanda quale sia la sua vera collocazione, il totalitarismo offre la sua benevola protezione, dicendogli che può confidare su di un’appartenenza certa, non acquisitiva, e come tale sempre revocabile, bensì ascrittiva. Si è individui degni di tal nome poiché si appartiene ad un gruppo; tale appartenenza è per nascita e nulla può mutare (né compromettere) questa identità, che esiste in quanto cristallizzata una volta per sempre. Semmai si tratta di capire come difenderla dagli assalti di ciò che ad essa è estraneo.

In tale modo il totalitarismo può definire e declinare, con il consenso dei più, ogni forma di alterità sociale e culturale come immediata alterazione dell’ordine costituito e, pertanto, come una minaccia. È quindi per sua natura un potere che offre una visione cospirativa e, pertanto, angosciante della realtà umana. Ai sentimenti di paura che così sollecita e fomenta risponde dicendo che tuttavia una soluzione c’è e consiste nello stabilire dei secchi perimetri, delle linee di divisione tra un «noi» e un «loro», laddove tutto si gioca nella dinamica amico/nemico. Chi non è come noi è per sua intrinseca costituzione contro di noi: si dissolve l’individualità a favore di una “personalità collettiva”. Da questa manipolazione se ne esce rassicurati, anche perché la domanda più stringente che la collettività moderna avanza è quella di «sicurezza», di prevedibilità, di calcolabilità. Il totalitarismo si presenta quindi come un potere protettivo, che pensa al «popolo», che ne tutela gli interessi, quasi garantendone la sopravvivenza biologica. Su questo piano le politiche identitarie forti, quelle che stabiliscono confini invalicabili, sono tra le più convincenti, confinando gli effetti della modernità liquida, quella in cui tutto cambia permanentemente, dentro lo spazio della rassicurazione paternalistica.

Il criterio è quindi duplice: se da una parte si deve contrastare la minaccia del pluralismo, dall’altra si deve non solo tenere dentro la parte restante della collettività ma legarlo a sé, per sempre, facendo corpo unico tra le diverse individualità. Già si è osservato come tale dinamica sia all’opera nella logica della colonizzazione del privato da parte del potere pubblico. Quest’ultimo, infatti, si costituisce come un campo di assoluti, un insieme coerente di proposizioni assertive e indiscutibili, che asservono le persone, così come le comunità alle quali si dice di appartenere per ancestrale radice. Si tratta, nel qual caso, di «comunità di destino», la cui esistenza non è mai fine a sé ma legata al raggiungimento e alla realizzazione di una qualche meta politica, a partire dalla concretizzazione di un principio elementare, che sia quello della razza o di quant’altro.

Le comunità, così intese, si sostituiscono alla società. Quest’ultima è infatti vista come qualcosa di pericolosamente confuso poiché prodotto di ibridazioni, di meticci, di incontri e di scambi non autorizzati. Le società moderne sono, secondo questa impostazione, il prodotto dell’artefazione, della manipolazione, della mistificazione, dell’inautentico, dove prevale, per usare la terminologia nazista, il «culturame giudaico», il pessimismo intellettuale, la promiscuità razziale e intellettuale. A questo modello di decadenza si contrappongono le «comunità di popolo», intese come il luogo della veracità, di rapporti sinceri poiché ispirati alla concretezza dei legami e dei ruoli sociali. È l’ideologia del «blut und boden» (sangue e suolo), trasposta però sul versante di una realtà sociale che non può fare a meno degli spazi metropolitani. Come tali le comunità di popolo sono anche il luogo della fusione tra individui, dove si riducono a un «fascio di reazioni intercambiabili» (così Hannah Arendt), tra di sé uguali perché perennemente sostituibili.

Si è ancora una volta alla logica dell’uniforme, del sempre eguale. In questa dinamica non c’è spazio alcuno per la persona emancipata se con essa si intenda un soggetto titolare di diritti, figura responsabile dei suoi atti e delle sue parole. Nelle comunità totalitarie, infatti non c’è responsabilità politica; semmai, caso limite, sussiste la colpa di essere parte di un gruppo “pericoloso”. Se la responsabilità ha a che fare con l’assunzione consapevole di un ruolo, con l’esercizio delle prerogative che da esso derivano, con la cognizione dei rapporti di causalità, elementi questi che appartengono alla maturità compiuta dello spirito umano, le comunità di destino escludono qualsiasi fattore che demandi a questo ordine di considerazioni poiché rifiutano a priori l’idea di uomo responsabile, ovvero autonomo in quanto capace di camminare con le sue gambe. Peraltro in tali ambienti non si cammina, piuttosto si marcia a schiere compatte, non a caso in uniforme.

Il potere, in quella sua forma di onniscienza che rasenta l’imperscrutabilità e l’indecifrabilità (il potere non si deve vedere, si deve semmai “sentire”, avvertire, percepire: è visibile il sistema dei poteri democratici, non quello antidemocratico che, proprio sull’occultamento di significativi aspetti di sé, basa il concreto esercizio della sua potenza), a sua volta non ha responsabilità ma solo coscienza della sua “missione storica”. Non ne deve rendere conto ad alcuno, non promanando da una categoria collettiva composta di individui («il popolo» inteso come soggetto storico) ma essendo il prodotto di un’autogenesi, un risultato naturale e non l’esito di un tangibile processo politico. Si dà quindi un’investitura dai contorni quasi metafisici. In questo e per questo promette che realizzerà la conclusione della storia, intesa come il percorso di degradamento e corruzione dell’Idea superiore, per ripristinare le condizioni della più assoluta purezza, quelle che portano e mantengono una volta per sempre il paradiso in terra.

C’è un’inquietante prossimità, in questa costruzione mentale, con l’idea di rispettabilità che è tanta parte del modo in cui la piccola e la media borghesia (in un’unica espressione, la classe media) è andata pensandosi dall’Ottocento in poi. La rispettabilità, da questo punto di vista, demanda alla pratica dell’astensione. Si è parte a pieno titolo di una comunità se si governano i propri impulsi, se si inibiscono le passioni soggettive convogliandole semmai verso pulsioni collettive, organizzate in forma di autoriconoscimento in un giudizio di senso comune. Al sentimento si sostituisce così il risentimento, che stabilisce e fortifica i confini della comunità. La rispettabilità alimenta infatti il pregiudizio poiché richiama l’idea di ordine inteso come gerarchizzazione interiorizzata, laddove le differenze, ancora una volta, non possono che scomparire poiché altrimenti, se lasciate a sé, sono destinate a causare un impatto devastante. E non è un caso se sussista una relazione di reciprocità inversa tra rispettabilità e rispetto: più cresce la prima, che è il modo in cui un individuo ritiene (e richiede) di essere considerato univorma agli altri, in quanto espressione di un mero ruolo, meno è sviluppato il secondo, che invece richiama al grado di accettazione della propria e altrui soggettività. Il rispetto è una facoltà che si esercita tra individui adulti e maturi, tali perché hanno raggiunto l’età dell’emancipazione senza per questo sentirsi minacciati dal pluralismo delle diversità.

La rispettabilità – invece – è un esercizio irriflessivo che è ripetuto, con maniacale costanza, tra soggetti mai pienamente cresciuti, in quanto consegnati a un’eterna età della dipendenza, quella dal giudizio altrui, dove ci si identifica come indifferenti. Non potrebbe essere altrimenti poiché è proprio la pratica del riconoscere la varietà e la mutevolezza a sconvolgere chi non è alla ricerca di rispetto bensì di rispettabilità. Quest’ultima è soprattutto serialità, ripetizione del cliché. Si tratta dell’apoteosi del luogo comune.

Peraltro in quest’ottica si inserisce a pieno titolo un’altra coppia dialettica che è quella che parla di contaminazione e fecondazione. Qui il campo si sposta sulla dinamica tra maschile e femminile ritornando, non di meno, sulla questione dei confini (materiali e simbolici, ossia mentali) che sono tanto più certi se non sono penetrati da “corpi estranei”, cioè da tutto quanto non è omologabile al sempre uguale. Questi ultimi, proprio perché intesi come alieni, nell’immaginario che fa da corredo al pensiero totalitario, sono definiti come fattori di ibridazione, elementi che pervertono una purezza originaria. Gli ebrei, da questo punto di vista, sono gli “agenti perfetti” – ovvero gli elementi patogeni per definizione – di una mescolanza che porta, in una parabola discendente, dalla perfezione originaria alla decadenza totale.

Gli ebrei, nel pensiero razzista di matrice hitleriana (e in quelli che per filiazione sono da esso derivati), costituiscono gli agenti nefasti della storia. Quest’ultima è interpretata come un percorso di progressiva regressione dallo stato paradisiaco all’attuale condizione, dove il dato prevalente è la sovversione e la confusione dei vincoli più profondi, quelli razziali. Non di meno, quindi, se la storia è un’infezione gli ebrei ne sono, in quanto conduttori, le figure parassitarie che la spargono un po’ ovunque, dunque gli untori. Il concetto di «razza» peraltro, non demanda mai alla trasformazione sociale e culturale ma ad un’idea di «natura» intesa come la dimensione concreta dell’immutabilità. L’intervento della storia nella natura umana (quest’ultima è agli occhi dei nazisti un costrutto ancestrale, fondato sull’immodificabilità dei caratteri interiori), distrugge la sua integrità. Non è un caso se il linguaggio razzista richiami sempre e comunque le metafore medico-sanitarie laddove, nel mentre in cui deve descrivere le trasformazioni di una società, demanda ossessivamente a processi di contaminazione, infezione, decomposizione.

Adottando questa modalità gli ebrei diventano i soggetti patogeni della storia perché non solo la vivono ma la fanno, compiendola attraverso la loro dispersione ai quattro capi del mondo. Agli ebrei i nazisti contestavano di essere una razza che non intendeva “stare al suo posto”, meticciandosi con le altre comunità e, così facendo, corrompendone l’originaria integrità, basata sulla rigida separazione. È questo il senso della Diaspora ebraica, nell’ottica di Hitler e dei suoi uomini, e a tale condizione non si può che dare una sola risposta, secca e netta, essendo altrimenti a rischio la costruzione naturale della gerarchia delle razze.

Poiché i nazionalsocialisti sono un partito d’«ordine» e il regime che hanno creato a partire del 1933 ha la funzione di rimettere «in ordine» la Germania (in prospettiva l’Europa), dinanzi alla confusione creata ad arte dal «giudeobolscevismo» (confusione che gli occorre per raggiungere i suoi obiettivi di supremazia), tutta la loro azione politica deve dedicarsi, come se si trattasse di una missione religiosa, alla purificazione della società. Purificare vuol dire dividere, separare, mondare il sangue buono, quello tedesco, da quello cattivo, ebraico o di altra origine. Purificare vuol dire soprattutto separare la storia (quella della decadenza) dalla «natura» (composta di razze). Il modo in cui lo si fa è del tutto secondario e segue un percorso dettato più dalle circostanze che non da altri ordini di considerazioni. D’altro canto, se la razza è morale, la morale sta in ciò che è bene per la razza. Quel che conta è la volontà e la determinazione, nel nome del «bene della nazione», con gli strumenti che la modernità tecnologica ci consegna.

Possono sembrare ossessioni demenziali ma erano (e rimangono) l’ossatura elementare della riduzione della società ad un intrico di legami fondati su presupposti razzisti. Si tratta di un percorso moderno, a ben guardare, perché si avvale di tutte le dottrine che si sono accompagnate, dall’età delle rivoluzioni borghesi, alle trasformazioni del mondo a sviluppo avanzato, piegandone i significati a proprio beneficio. Nell’epoca delle società di massa, allo statuto dell’emancipazione, che costituiva il programma politico liberaldemocratico e poi dei movimenti socialisti, si sostituisce così l’esaltazione della dipendenza proposta sotto le spoglie di un’identificazione totale nel gruppo dominato da un capo. Anche qui ci troviamo dinanzi a un percorso che deve essenzialmente rassicurare, sedare gli animi e le passioni, organizzandole in una «comunità del risentimento».

La relazione che si stabilisce, fondata sulla più assoluta asimmetria, dove vengono ripristinate le condizioni dello schiavo, ma felice d’essere tale poiché vincolato alla terra dalle sue stesse catene, rasserena gli spiriti, dando loro una speranza, quella per l’appunto di avere un comune «destino», per la cui realizzazione si stanno adoperando “qualcuno” o “qualcosa” di assolutamente superiori.

In questa dialettica negativa si innescano due processi paralleli: i soggetti non sono più definiti per la loro umanità ma, in accordo con il principio delle appartenenze precostituite poiché ascrittive, in base alla divisione tra sovraumano e subumano. Se è sovraumano ciò che è onnisciente, quindi il potere stesso che assume vesti antropomorfe, con i tratti fisici, riconoscibili di un duce, è subumano, quindi non degno di sopravvivere, chi o quanto sta al di fuori del legame comunitario. Non di meno, ed è il passaggio che ci permette di tornare al punto dal quale eravamo partiti, al rispetto dovuto a chiunque, in quanto persona, si sostituisce l’identificazione e la classificazione con una qualche “essenza”, una presunta «condizione di natura», che seleziona e separa, destinando gli individui a trattamenti radicalmente diversi a seconda del gruppo di appartenenza. I corpi si trasformano così in qualcosa d’altro da sé, ossia in merce, eternamente fruibile, ovvero utilizzabile all’occorrenza. La reificazione, la riduzione dell’individuo, spogliato della sua umanità, in cosa è il punto terminale del processo di perdita dei diritti, laddove si aprono le porte del Lager, che non sono il luogo dell’assenza di norma, ovvero dell’arbitrio assoluto, ma lo spazio dove «tutto è possibile», nel quale la metodicità della persecuzione si trasforma in sistematicità dell’assassinio. A quel «tutto è possibile» non c’è risposta, del pari al quesito che abbiamo formulato in esordio, se non nel silenzio consapevole di chi, pur non smettendo di interloquire ragionevolmente, si domanda quale sia la ragione del continuare a farlo con cognizione di causa. Il resto è solo un rumore di fondo, un brusio ossessivo, un vocio senza spessore, che copre le polveri di coloro che furono esseri umani e non poterono continuare a restare tali.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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