Cultura
Sugli ebrei italiani #1

Come definire l’ebraismo italiano. Indagine storica, identitaria e demografica

Di cosa è fatto l’ebraismo italiano? Anzi, da chi è composto? E com’è mutato nel corso del tempo, almeno dal secondo dopoguerra in poi? Partiamo da due dati fondamentali: tra i culti diffusi, ovvero non ascrivibili a dimensioni settarie (vuoi per prassi, vuoi per dimensioni, vuoi anche per regole e legami di reciprocità nonché per il numero, la qualità e la natura delle interazioni con i non ebrei) o politeiste, l’ebraismo è la religione più antica d’Italia. Tradotto in parole povere: è quella che può rivendicare l’insediamento di più antica data. Correlativamente, pur con tutte le trasformazioni nella composizione, numerosità, distribuzione territoriale, così come degli usi e dei costumi, la presenza ebraica precede quella cristiana. Uno smacco, a volere dare credito alle demenziali teorie razziste di derivazione mussoliniana, che legavano la «stirpe» italica alla lunga durata nella Penisola di un non meglio identificato carattere antropologico (e quindi anche religioso): assecondando questo criterio, infatti, la minoranza ebraica sarebbe quella che di più e meglio, ossia per maggiore durata di tempo e per consolidato radicamento, costituisce il nucleo duraturo della cosiddetta «italianità», se essa rimanda anche alla «romanità» imperiale e repubblicana. Che cosa queste ultime parole implichino per davvero, poi, non è dato saperlo né, evidentemente, possono avere significato univoco.

Quanti sono gli ebrei in Italia? Storia di un pregiudizio
La comunità ebraica di Roma è la più antica d’Europa. Al riguardo, si hanno notizie di ebrei che abitavano in questa città già nel secondo secolo precedente l’era volgare (a.e.v.); altri sopraggiunsero, in numero non piccolo, dopo il 63 a.e.v. con Pompeo, conquistatore della Giudea. Il tempio di Roma, quello che antecedeva le sinagoghe dell’età moderna e contemporanea, viene quindi prima delle chiese cristiane. Con tanti complimenti – ancora una volta – al razzismo, di ogni colore e risma, che anche in questo caso ci restituisce un’immagine capovolta del mondo in quanto tale. Detto questo, non è dato sapere con assoluta esattezza quanti siano stati gli ebrei italiani, dal loro stabilimento definitivo in poi. Non almeno finché non si pervenne ad un’anagrafe unificata, come tale conoscibile e trasmissibile. Certo, alcune dimensioni di grandezza non sono per nulla ignote, così come molteplici sono le riflessioni sulla natura della presenza peninsulare, grazie anche al lavoro di demografi e sociologi come Roberto Bachi, Franco Sabatello e Sergio Della Pergola, di storici e studiosi come Attilio Milano, Bruno Di Porto, Luciano Tas, Riccardo Calimani e Dante Lattes, ai quali si sono aggiunte generazioni più recenti, con Marina Caffiero e Anna Foa (o i più giovani Carlotta Ferrara degli Uberti e Guri Schwarz) nonché di giuristi come Guido Fubini ad altri ancora. Questo solo per fare qualche nome, senza nulla volere togliere a coloro – e sono molti – non citati. Stime a tutt’oggi ancora valide, calcolano in circa 40mila gli ebrei che avrebbero vissuto a Roma all’inizio dell’era volgare (all’epoca costituivano il 5% dell’intera popolazione capitolina). Tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo la popolazione ebraica pensulare si ritiene che si aggirasse intorno ai 50mila elementi (rispetto agli 11 milioni di abitanti complessivi; grosso modo 4,55 ebrei ogni 1.000 italiani). Con l’espulsione della Penisola iberica, alla fine del 1400, e la redistribuzione sefardita, si arrivò al picco di 120mila soggetti (l’11,43 per mille), perlopiù concentrati nelle regioni meridionali e nelle aree insulari. La politica di trasferimento coatto della componente ebraica si abbattè successivamente anche nel Mezzogiorno d’Italia, con un’ulteriore dispersione nel Mediterraneo o il trasferimento nelle regioni settentrionali. L’introduzione dei ghetti, insieme all’interdizione allo svolgimento di molte attività economiche rurali, accentuò la già marcata propensione all’urbanizzazione, insieme alla concentrazione geografica. Tra il XVIII e il XIX secolo la polazione ebraica transitò da 21mila elementi a 34mila.

Con l’introduzione degli Statuti di emancipazione e la cancellazione delle interdizioni giuridiche, la liberalizzazione conseguente influì in misura conseguente sull’ebraismo italiano, sia nei termini di opportunità sociali che di evoluzione demografica. All’atto dell’Unificazione, nel 1861, gli ebrei italiani erano quindi 39mila. Nei decenni successivi sarebbero cresciuti, raggiungendo i 45mila elementi al momento del «censimento» razzista operato nel 1938 dal regime mussoliniano. Al termine della Seconda guerra mondiale, tra deportazioni, espatri, fughe e quant’altro, rimanevano 26mila soggetti. Nei decenni successivi, la crescita demografica si riaffermò, fino a raggiungere la cifra di 35mila persone (0,63 ebrei ogni 1000 italiani) nel 1975.

L’incremento in Italia, d’altro canto, si inserisce in un più generale fenomeno di transizione demografica che interessò l’ebraismo a livello mondiale, con un corposo aumento di presenze un po’ in tutti i paesi di insediamento per tutto l’Ottocento e che fu interrotto solo dalla Shoah. Proseguendo in questa riflessione sgombriamo inoltre subito il campo da un equivoco: l’associazione, quasi meccanica, tra ebraismo ed antisemitismo qui non funziona. Ovvero, non è pertinente quella modalità, altrimenti piuttosto diffusa, per la quale si definisce un gruppo di minoranza, vivacemente presente tra il resto della popolazione, in virtù dei tratti negativi che gli sono stati ascritti, o continuano ad essergli attribuiti. È un grave errore concettuale, prima ancora che etico, quello di identificare una fisionomia, individuale o collettiva, in base a ciò che essa non è mai stata. In altre parole: rileggere la storia della presenza ebraica italiana sulla scorta delle leggende antisemitiche, magari capovolgendone il senso, in una sorta di manifestazione di benevolenza, non solo non aiuta a capire le cose ma le rende ancora più confuse. Va quindi sgombrato il campo dal ridondante chiacchiericcio che sempre si accompagna al tema, quando lo si vuole affrontare in sede pubblica. Un esempio tra gli altri – al riguardo – è la convinzione, piuttosto diffusa, che l’ebraismo italiano sia composto da centinaia di migliaia di persone. La distorsione, in questo caso, non è solo numerica ma percettiva e quindi cognitiva, rinviando, quanto meno implicitamente, all’immagine pregiudiziosa di una presenza tanto “invisibile” quanto potenzialmente minacciosa.

Attualmente, gli ebrei italiani sono infatti senz’altro meno di 30mila. Circa 23mila risultano iscritti ad una delle 21 comunità ebraiche, riconosciute come enti senza scopo di lucro che finanziano la grande parte delle loro attività attraverso le quote d’iscrizione. La grande parte risiede a Roma e a Milano, le due comunità di maggiori dimensioni, alle quali si accompagnano comunità più contenute (Torino, Firenze, Bologna, Genova, Trieste, Livorno, Venezia) ed altre molto piccole (come Ancona, Casale Monferrato, Ferrara, Mantova, Merano, Modena, Napoli, Padova, Parma, Pisa, Vercelli, Verona). Ogni realtà comunitaria, ancorata al territorio urbano e alla provicnia di riferimento, ha una sua specifica autonomia. Si governa da sé, attraverso un Consiglio, eletto dagli iscritti, una giunta esecutiva e un presidente. A tali figure, di ordine “laico”, si accompagnano la presenza di rabbini, che non costituiscono figure di ordine sacerdotale ma dottori della legge ebraica, guide spirituali, «maestri», figure di studiosi, riconosciuti come autorità. Tale condizione è peraltro sancita dalla Semicha lerabbanut, l’«ordinazione rabbinica», che è rilasciata, dopo un impegnativo percorso di studi e di lavoro comunitario, da un’autorità preposta. È questo il campo più propriamente “religioso” e confessionale che, tuttavia, nell’ebraismo non è sempre agevole distinguere dalla parte restante della dimensione di relazioni socioculturali, particolarmente accentuata nelle vita degli ebrei che frequentano una qualche comunità.

Un’unione, tanti ebraismi
Sul piano istituzionale, l’ebraismo italiano è rappresentato dall’Unione delle comunità ebraiche italiane, l’Ucei, che svolge la funzione di raccordo tra le diverse entità territoriali ed è l’interlocutore istituzionale con gli organismi centrali della Repubblica italiana. Nel 1987 l’Unione ha firmato con lo Stato il protocollo d’Intesa, previsto dalla stessa Costituzione, che ha in parte integrato e soprattutto sostituito le precedenti determinazioni legislative. Al riguardo, l’articolo 8, ai commi 2 e 3, statuisce infatti che «le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze». L’applicazione dell’Intesa è avvenuta con la legge 8 marzo 1989, n. 101 («Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane»), che sostituisce la legge Falco del 1930. Con la revisione conclusa il 6 novembre 1996 e approvata con la legge 638/1996, l’Ucei partecipa alla ripartizione della quota dell’otto per mille del gettito Irpef. Un’eccezione a questo panorama istituzionale è quello costituito dalle cosiddette «comunità riformate» (o progressive-progressiste e liberali), cresciute in Italia negli ultimi vent’anni, che non fanno parte dell’Ucei, organizzate sul modello congregazionale. Così a Milano (Lev Chadash, «cuore nuovo» e Beth Shalom «casa della pace», a Firenze con Shir Hadash «canto nuovo», a Roma con Beth Hillel «casa di Hillel) parte, dal 2017, della Federazione italiana per l’ebraismo progressivo, affiliata all’European Union for Progressive Judaism e alla World Union for Progressive Judaism. Altri gruppi minori sono inoltre operanti, in misura a tratti più informale, soprattutto nel meridione d’Italia così come esistono – o sono esistite, esperienze di ebraismo «laico umanista» (che non fa diretto riferimento all’osservanza di precetti religiosi, condividendo con la tradizione religiosa ebraica quei valori che considera di natura etica e universale), «conservativo», e degli Hassidim Lubavitch-Chabad Lubavitch. Rilevante, in questi ultimi casi, è stata la presenza di figure carismatiche sul piano culturale, morale e religioso, svolgendo spesso la funzione di catalizzatore di assensi e partecipazione.

Definire e autodefinirsi ebreo
In realtà, lo scopo di queste note non è quello di quantificare e qualificare le diverse articolazioni dell’ebraismo italiano quanto di circoscrivere le dimensioni e la composizione del medesimo nei suoi tratti dominanti. Poiché il problema insuperabile, destinato come tale a non essere mai sciolto, è quello della titolarità del definirsi (o dell’essere definito) «ebreo». E ciò che da una tale auto oppure eterodefinzione può derivare. Un tale terreno d’incertezza non è legato solo alla nozione di «identità ebraica», che è abitualmente legata alla «tradizione ebraica» e con essa alla dimensione normativa e giuridica che le si accompagna, ma anche e soprattutto a chi abbia il potere di determinare l’ebraicità o meno di un individuo così come di un gruppo. Intorno al tema dell’«appartenenza» (famigliare, matrilineare, patrilineare, per conversione, elettiva), infatti, si gioca un aspetto non secondario delle dinamiche infracomunitarie, poiché chi ha il potere di definirla e sanzionarla normativamente, in genere il rabbinato, determina anche l’inclusione o l’esclusione degli interessati dal gruppo comunitario medesimo. Inoltre, tanto più nel caso italiano, la nozione di «minoranza ebraica» si accompagna ad una forte densità di legami, non solo di ordine endogamico, ossia tra famiglie. È infatti un tratto peculiare del piccolo ebraismo peninsulare quello di rapportarsi direttamente ed immediatamente alla più generale cittadinanza repubblicana e costituzionale, intesa peraltro come carattere imprescindibile del proprio modo di sentirsi italiani a pieno titolo, proprio attraverso il costante rimando al mutevole e sfuggente modo di essere “ebrei italiani”. Di prassi, si definisce questa condizione riferendosi ad un ebraismo che sarebbe, nel suo insieme, «tradizionalista», ovvero variamente legato al rispetto del patrimonio di regole che accompagnano la religiosità ma non per questo rigorosamente osservante, non almeno secondo criteri riferibili ad una qualche stretta ortodossia. Va da sé che tale identificazione è talmente ampia da rischiare di non includere un nocciolo comune, così come destinata – nel momento in cui si voglia dare ad essa dei contenuti specifici – a divenire territorio di contesa non solo terminologica ma anche interpretativa.

Non di meno, in questi ultimi decenni, non può essere trascurato il fatto che nell’autodefinizione della natura dell’identità ebraica abbiano avuto un peso crescente la memoria della Shoah, l’angoscia per l’antisemitismo, il rapporto privilegiato, ma non univoco, con lo Stato d’Israele. Il binomio che lega l’ebraismo italiano alla cultura (intesa come insieme di sapienze di antica radice e di elevato livello di alfabetizzazione) e alla memoria – soprattutto degli eventi più dolorosi – è stato un fattore di forte socializzazione e diffusione di temi e immagini riferibili all’ebraismo nel discorso pubblico italiano. Al punto di arrivare anche ad improprie analogie storiche o a manifestazioni di pensiero, per parte di un buon numero di non ebrei, del tutto incongrue rispetto ai dati storici e sociali come tali. Il grado di attenzione mediatica nei confronti dell’ebraismo italiano, inteso come minoranza densa e consapevole di sé e della società nella quale vive, è peraltro accentuato. La qual cosa ha ripetutamente generato empatia, identificazioni, condivisioni ma anche, in una sorta di gioco dei reciproci inversi, dissidi se non rigetti. Riprenderemo a breve questo insieme di considerazioni, proseguendo sulla strada di un ragionamento riguardo agli ebrei italiani ai giorni nostri.

 

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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