Hebraica
Gli angeli nell’ebraismo: dalla Bibbia alla Qabbalah

Viaggio nel mondo dei divini messaggeri. Con colonna sonora

Che siano paffuti putti annoiati come nel celeberrimo quadro di Raffaello o efebici ma possenti giovanotti alati come l’arcangelo Michele che uccide il diavolo nella pala di Guido Reni, gli angeli sono una delle immagini più tipiche del cristianesimo e della sua arte. Una lunga evoluzione iconografica che ha portato mittenti divini in forma umana a dotarsi di soffici ali sul modello della dea vittoria (Nike) greco-romana. E tuttavia a questi personaggi che ancora oggi popolano la mitologia tradizionale non manca una radice giudaica – una radice sviluppatasi quell’epoca in cui giudaismo e cristianesimo ancora non avevano preso strade differenti. Qual è dunque lo statuto degli angeli nel mondo ebraico? Iniziamo, come sempre, dalle parole stesse. L’italiano angelo deriva direttamente dal greco ángelos, che significa messo, messaggero. L’ebraico utilizza un termine dal significato analogo, mal’akh (מלאך), dalla radice l.’.k (ל.א.ך) che è poi la stessa di mal’akhah, il lavoro o l’attività che, ad esempio, è proibito compiere durante lo shabbat.

Ma andiamo con ordine, e partiamo dalle occorrenze bibliche di questo termine. Se già dalle prime righe di Genesi si può dedurre che il Creatore non sia solo (vedi Genesi 1:26: E Dio disse: “Facciamo [נַעֲשֶׂה, prima persona plurale] a nostra immagine e somiglianza), non è prima dell’epoca dei patriarchi che troviamo la menzione esplicita di mal’akhahim, messi divini. In particolare, è nella narrazione della storia di Abramo e congiunti che compaiono mediatori di Dio, come nella visione della concubina Hagar nel deserto (Genesi 16) o nel celebre episodio del (quasi) sacrificio di Isacco (Genesi 22). Un esempio interessante di come il testo – spesso ambiguo, riguardo alla mitologia angelica, in questa fase storica – sia stato oggetto di successive interpretazioni che hanno a loro volta forgiato l’immaginario popolare è la storia dei tre uomini/messaggeri/angeli che visitano Abramo in Genesi 18. La redazione biblica, in effetti, non è granché d’aiuto quanto a chiarezza: nel corso dei tre versetti inziali, Abramo prima vede YHWH appressarsi alle querce di Mamre; poi leva lo sguardo e vede tre figure; infine si rivolge all’interlocutore/i con il vocativo singolare Adonay, mio signore. Gli esegeti che si trovarono a rendere conto della coerenza del fraseggio nel sacro canone dovettero dunque lavorare di ingegno. Le interpretazioni apocrife e rabbiniche di questo passo finirono per essere unanimi nel risolvere la questione: Abramo si trovò in presenza sia di Dio (o della sua emanazione nel mondo, la Shekhinah) sia di tre angeli. Il testo di per sé non parla di mal’akhahim ma di tre uomini (שְׁלֹשָׁה אֲנָשִׁים) e, tuttavia, già dai testi rinvenuti a Qumran, dai Targumim (le parafrasi aramaiche della Bibbia) e dalla testimonianza del filosofo ebraico Filone di Alessandria si tendeva a identificare queste tre persone con degli angeli. Considerata la tendenza alla polifonia esegetica della tradizione ebraica, può stupire che i commenti antichi e tardo antichi su questo brano siano tra loro coerenti: la ragione sta, probabilmente, nella necessità di fare fronte unitario contro la tendenza cristiana a leggere la presenza di un terzetto come metafora della trinità.
Ma se l’origine divina dei mal’akhahim, che appaiono in foggia umana, non è evidente dal testo biblico, non mancano tuttavia rappresentazioni dettagliate di figure sovrannaturali che costituiranno il materiale grezzo per la futura costruzione dell’angelologia giudaico-cristiana. Esempio eminente è il primo capitolo del libro di Ezechiele, dove il profeta descrive una visione a tratti surreale:

Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinio di fuoco, che splendeva tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente. Al centro apparve la figura di quattro esseri animati, dei quali questo era l’aspetto: avevano sembianza umana e avevano ciascuno quattro facce e quattro ali. […] Mentre avanzavano, non si volgevano indietro, ma ciascuno andava diritto avanti a sé. Quanto alle loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezze d’uomo; poi fattezze di leone a destra, fattezze di toro a sinistra e, ognuno dei quattro, fattezze d’aquila (vv. 4–10).

È questa l’origine letteraria del tetramorfo (dal greco, quattro forme), la quadruplice rappresentazione di uomo-leone-toro-aquila che diverrà simbologia canonica per gli evangelisti nel cristianesimo.
Per uno sviluppo più chiaro e sistematico della popolazione angelica e della strutturazione gerarchica bisognerà attendere i secoli a cavallo della nascita di Cristo. In particolare, tra i manoscritti rinvenuti a Qumran, nel deserto di Giuda, un testo merita menzione – i Canti dell’olocausto del sabato. Si tratta di uno scritto liturgico che istruisce i membri della comunità scissionista del Mar Morto sulle lodi da recitare a dedica dei vari “principi supremi”, ovvero i rappresentanti delle schiere angeliche. Già negli anni che precedono la caduta del tempio di Gerusalemme (70 e.v.), dunque, troviamo testimonianza di una tradizione angelologica in fase di sistematizzazione.
Più avanti, tuttavia, la corrente culturale dell’ebraismo che finirà per imporsi nei complessi secoli della dominazione romana in Palestina e sasanide nell’esilio babilonese – quella rabbinica – non sarà eccessivamente entusiasta in merito alle speculazioni sugli angeli. Il motivo si può intuire nella necessità di affermare un culto monoteistico senza intermediari sub-divini o super-umani, così da distinguersi dal nascente cristianesimo. Non mancano, in ogni caso, riferimenti più o meno prolissi ai componenti della familia (così l’ebraico פמילייא è un prestito diretto dal latino) del Signore. Una curiosa classificazione naturalistica pre-Linneo appare nel trattato Chagigah (16a) del Talmud Babilonese:

Sei cose sono state enunciate sugli esseri umani, che sono per tre aspetti simili agli angeli servitori e per tre aspetti simili alle bestie. Le tre cose per cui sono come gli angeli servitori: possiedono l’intelletto come gli angeli servitori, camminano in posizione eretta come gli angeli servitori, parlano nella lingua sacra [l’ebraico] come gli angeli servitori. Le tre cose per cui sono come le bestie: mangiano e bevono come le bestie, si accoppiano e riproducono come le bestie, fanno la cacca come le bestie.

In questa fase, perciò, gli angeli sono ben distinguibili dagli esseri umani. Rimane però, per l’uomo che generalmente non ha esperienza del divino, il rischio di confonderli con Dio stesso. È quanto successe, sempre secondo il trattato Chagigah (15a), a Elisha ben Abuyah: questi, nel corso di un viaggio celeste (quello in cui “quattro entrarono nel pardes”) finì per dubitare dell’unicità della monarchia divina – in altre parole, del monoteismo – come insegnata dalla tradizione ebraica dopo aver visto l’angelo Metatron seduto su un trono a registrare i meriti del popolo di Israele. Da questa visione Elisha deduce che in cielo vi sono almeno due autorità, ragionamento per il quale verrà condannato dal mondo rabbinico come eretico per eccellenza, al punto da essere rinominato Acher, l’Altro.
La dottrina sugli angeli è quindi sempre stata problematica, ma ciò non ha impedito alla cultura ebraica di sviluppare un ricco apparato di tradizioni a riguardo, siano esse popolari o dotte (se ha senso distinguere l’alto dal basso). Un esempio eclatante di come la religiosità giudaica integrasse il culto angelico è dato dal Sefer ha-razim, il Libro dei segreti, una compilazione magico-mistica medievale.

Qui si inanella una lunga raccolta di incantesimi per ogni necessità da effettuarsi tramite l’invocazione di angeli specializzati. Questa dottrina che viene generalmente considerata come mero folklore si affermerà nei secoli successivi come parte integrante della ricca e complessa mitologia su cui si impernia la Qabbalah. Basti pensare allo Zohar, il Libro dello splendore, il classico della mistica ebraica redatto nella Castiglia del XIII secolo, che non lesina trattazioni angeliche.

Leggi anche: La lingua dello Zohar

Sul tema degli angeli, come abbiamo visto, per l’ebraismo ha sempre pesato il confronto inevitabile e potenzialmente polemico con la cugina teologia cristiana (ma anche musulmana, nella diaspora in terre islamiche). C’è persino chi affrontò di petto la questione, come il medico-filosofo-talmudista Hillel da Verona (1220–1295). In un trattatello in appendice alle Retribuzioni dell’anima, dal titolo La questione “Se la caduta degli angeli sia vera” (Mappalat ha-mel’akim, im otah ha-emunah hi’ emittit o lo’), l’autore affronta il problema della credenza, tipica del cristianesimo ma presente anche nell’ebraismo dell’epoca, nell’evento per cui Lucifero e compagni sarebbero stati catapultati dal cielo all’inferno in seguito a una ribellione contro il Creatore. La conclusione di Hillel da Verona è assai filosofica: tale credenza sarebbe incompatibile non solo con quanto insegnato dal giudaismo ma anche con quanto deducibile dalla logica aristotelica di cui egli si dichiarava seguace. Una traduzione integrale di questa insolita testimonianza letteraria si può consultare nella ricchissima e dettagliata antologia di fonti ebraiche, cristiane e islamiche Angeli, a cura di Giorgio Agamben e Emanuele Coccia (Neri Pozza Editore, 2009). E, in accompagnamento a questa lettura di approfondimento, consiglio infine un esperimento musicale a cura del prolifico compositore e musicista John Zorn, che ha ben le mani in pasta con l’immaginario cabbalistico: la serie di registrazioni dal titolo Book of Angels. Per elevare lo spirito ai reami angelici a suon di citazioni klezmer, spunti jazz e chitarre distorte.

 

 

Ilaria Briata
Collaboratrice

Ilaria Briata è dottore di ricerca in Lingua e cultura ebraica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha pubblicato con Paideia Editrice Due trattati rabbinici di galateo. Derek Eres Rabbah e Derek Eres Zuta. Ha collaborato con il progetto E.S.THE.R dell’Università di Verona sul teatro degli ebrei sefarditi in Italia. Clericus vagans, non smette di setacciare l’Europa e il Mediterraneo alla ricerca di cose bizzarre e dimenticate, ebraiche e non, ma soprattutto ebraiche.


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