Hebraica
Il mikveh, quel bagno purificante necessario per accedere al sacro

Le acque che rinnovano sono al centro di molti incontri per la Giornata Europea della Cultura Ebraica. Un approfondimento

Il tema della Giornata Europea della Cultura Ebraica di quest’anno è il “Rinnovamento” e non è un caso che in molte Comunità si dedicherà spazio a spiegare cosa sia il mikveh. Poche realtà ebraiche fondono infatti in se stesse tradizione e rinnovamento come fa il mikveh. La parola significa letteralmente “raccolta” e indica una vasca per la raccolta dell’acqua. Il mikveh, per essere considerato kasher secondo la normativa rabbinica, deve essere una vasca d’acqua pulita, non riempita artificialmente ma alimentata naturalmente da una sorgente, un fiume, un lago, una falda acquifera oppure riempita di acqua piovana. Le sue dimensioni devono essere tali che un adulto di statura media possa immergersi completamente, senza che neppure un capello resti fuori dalla superficie dell’acqua, il che vuol dire, convertendo le unità di misura bibliche in misure moderne, un mikveh deve contenere almeno circa 600 litri di acqua. Un intero trattato della Mishnah, Mikvaot, è dedicato al tema e anche Maimonide riserva molte attenzioni all’immersione rituale, al modo in cui vada fatta e al suo significato.

Ma a che cosa “serve” un mikveh? La risposta a questa domanda non cambia sia che facciamo riferimento ai tempi biblici, sia che ci riferiamo alla modernità. Un mikveh serve per togliere l’impurità rituale. Bisogna sempre ricordare che l’impurità biblicamente intesa (tumah) non ha primariamente una valenza etica, cioè non ha niente a che vedere con il contatto con il male, ma riguarda il contatto con il sacro. L’essere umano, che è per definizione una creatura profana, può e deve entrare in contatto con il sacro in alcuni momenti della propria vita, ma il passaggio profano-sacro richiede un processo di purificazione. Per questo si usa il mikveh. Ecco allora in che senso il mikveh rappresenta un rinnovamento per chi vi si immerga: il bagno rituale “rinnova” lo stato di purità della persona.

Dal momento che le regole legate alla purità riguardano il rapporto con il sacro, non stupisce che nella Torah l’immersione nel mikveh sia comandata essenzialmente a soggetti di sesso maschile: al kohen che deve essere consacrato («Farai avanzare Aharon e i suoi figli all’entrata della tenda della radunanza e li laverai con acqua» Es 29,4); il giorno di Kippur al kohen gadol e all’uomo che preleva la capra per Azazel («Allora Aharon entrerà nella tenda della radunanza […] e laverà il suo corpo con l’acqua in luogo sacro […]. E colui che avrà condotto il capro ad Azazel laverà i suoi abiti e laverà il suo corpo con l’acqua […]. Ed il toro di chattath ed il capro di chattat […] si bruceranno […] e chi li brucerà laverà i suoi abiti e laverà il suo corpo con l’acqua» Lv 16,23-28); al kohen e all’uomo che lo aiuta a bruciare la vacca rossa (Nm 19,7-8). I sacerdoti non sono gli unici ad avere l’obbligo di lavarsi ritualmente: ciò accade anche a chi entri in contatto con un cadavere (Lv 19,19); a chi mangi la carne di un animale che non è stato macellato ritualmente, cioè morto di morte naturale o sbranato (Lv 17,15); a chi abbia una perdita di fluidi o sia entrato in contatto con chi ha una perdita (emissione di seme o ciclo mestruale: Lv 15); a chi ha particolari condizioni della pelle, che potremmo assimilare alla psoriasi (Lv 14,6-9). Tutte queste condizioni richiedono la purificazione essenzialmente per accostarsi al sacro, cioè per entrare nel Tempio di Gerusalemme o, nel caso di un kohen, per svolgere le sue funzioni.

Dal punto di vista storico, non abbiamo pressoché alcuna notizia di come fossero le mikvaot all’epoca del Primo Tempio: la Torah ci dice solo che nel Tempio esisteva un mikveh enorme, rotondo, del diametro di 10 cubiti e profondo 5 cubiti (1Re 7,23; 2Cr4,2). Doveva essere grande come 150 mikvaot moderne e serviva per la purificazione sacerdotale, ma naturalmente non se ne hanno tracce archeologiche.
Abbiamo invece più notizie, e numerose tracce archeologiche, delle mikvaot dell’epoca del Secondo Tempio, soprattutto di quelle costruite verso la fine di quest’epoca (I sec. e.v.). Poiché, come ricorda anche Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche, tutte le persone che entravano nel Tempio dovevano purificarsi, inclusi gli stranieri (ad esempio i regnanti pagani che dominavano su Gerusalemme e volevano avere accesso almeno al cortile più esterno del Tempio), la città conteneva moltissime mikvaot. Alcune si trovavano all’interno del Tempio e servivano soprattutto per i sacerdoti, molte si trovavano all’esterno, sparse per la città. Basta infatti pensare alle frotte di pellegrini che raggiungevano Gerusalemme per le feste di pellegrinaggio, per rendersi conto di quante vasche servissero per permettere a tutti questi uomini e donne di accedere allo spazio sacro.

Ma cosa accade una volta che il Tempio viene distrutto? Le leggi circa l’impurità rituale non si applicano più, o per lo meno non si applicano tutte quelle che hanno a che vedere con l’accesso allo spazio sacro, l’offerta di sacrifici, etc. Ecco allora che il ruolo del mikveh si rinnova, senza tradire il suo significato originario. Come attesta dettagliatamente il trattato talmudico Niddah, dedicato alla purità famigliare, la necessità di purificarsi diventa essenzialmente una questione femminile: le donne devono purificarsi dopo il ciclo mestruale e/o dopo il parto, prima di poter riprendere l’attività sessuale con il proprio marito. Non sfugge l’accostamento tra accesso al Tempio, luogo sacro, e attività sessuale e procreatrice, che è un’attività “sacra”: la donna che si immerge nel mikveh “rinnova” la possibilità di accostarsi al marito e generare figli.
Un altro utilizzo del mikveh è quello per i gherim, uomini e donne che si convertono all’ebraismo e che formalizzano tale conversione con l’immersione nel bagno rituale. Anche qui le acque in cui ci si immerge rappresentano la possibilità per il gher o la ghioret di rinnovarsi, passare da uno stato all’altro, diventare a tutti gli effetti parte del popolo di Israele. E non stupisce che, ispirandosi alla simbologia del mikveh, i cristiani abbiano scelto proprio il battesimo (originariamente solo per immersione) per indicare l’inizio della vita cristiana di una persona.

Oggi sono rari gli utilizzi del mikveh da parte di uomini: in alcune comunità, soprattutto haredi, è invalso l’uso di immergersi nel mikveh la vigilia di Shabbat o di un giorno di festa, soprattutto Kippur; assai più diffuso è l’uso di immergersi prima del matrimonio. In tutti questi casi l’acqua in cui ci si immerge rappresenta un momento di rigenerazione spirituale perché, come scriveva Maimonide, «l’impurità non è fango o sporcizia che l’acqua può rimuovere, ma è un decreto biblico e dipende dall’intenzione del cuore».

 


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.