Un progetto per visualizzare, e dunque analizzare, la rete dei rabbini dell’antichità, a partire dal Talmud babilonese
“Rabbi Abahu disse a nome di rabbi Yohanan: rabbi Meir aveva un discepolo di nome…” Le catene di citazioni dei rabbini, tipiche del Talmud, formano una costellazione di migliaia di nomi, variamente combinati, intorno a cui si condensa un testo che è in realtà la gigantesca somma di testi di una civiltà. Composti nell’arco di almeno trecento anni a partire dai dibattiti sulla legge orale nelle accademie rabbiniche di Sura, Pumbedita e Nehardea, i trattati del Talmud babilonese sono oggi in corso di pubblicazione in italiano grazie al Progetto Traduzione Talmud Babilonese, finanziato dallo stato, e alla casa editrice Giuntina. L’uscita nel 2016 del primo volume, che contiene il Trattato di Rosh Hashanà, ha suscitato una inattesa Talmud-mania, con vendite molto superiori alle attese di un testo voluminoso e difficile, ottime recensioni e un crescente interesse.
Michael Satlow, professore di Studi religiosi e Studi ebraici alla Brown University di Providence (Rhode Island, Usa), è noto ai lettori italiani grazie a E il Signore parlò a Mosè. Come la Bibbia divenne sacra, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2017. Alcuni anni fa Satlow ha lanciato un ambizioso progetto, recentemente presentato su Tablet, per visualizzare, e dunque analizzare, la rete dei rabbini dell’antichità. Il testo da cui ha deciso di cominciare è quello del Talmud babilonese nell’edizione standard di Vilna, disponibile in formato digitale, che di tutti i testi ebraici della tarda antichità è di gran lunga il più ampio e quello in cui le citazioni di rabbini sono più numerose. Obiettivo non era delineare le figure di alcuni rabbini e le loro relazioni come emergono dal testo, ma costruire un’immagine complessiva dei collegamenti tra migliaia di figure vissute spesso in tempi e talvolta in luoghi differenti. Un’analisi innanzitutto quantitativa, dunque. Con la collaborazione di Michael Sperling, dell’Università ebraica di Gerusalemme, e dopo anni di lavoro spesso ripetitivo ma per nulla semplice, Satlow ha messo a punto due corposi elenchi, quello dei rabbini, per ciascuno dei quali sono raccolte le citazioni fatte e ricevute, e quello delle singole citazioni. Dopo aver importato questi risultati su un software di analisi dei dati open-source, Gephi, si tratta ora di interpretarli. In termini tecnici i nomi dei rabbini sono nodes (nodi) della rete mentre le citazioni rappresentano edges (margini), spiega Satlow. La mappa include 5245 citazioni totali che coinvolgono 1956 rabbini diversi, i cui nomi però spesso si ripetono nelle medesime sequenze, al punto da ridurre a 1210 le combinazioni uniche dei nomi. Una serie di grafici di grande impatto visuale restituiscono questi primi risultati (qui per approfondire). Possiamo così constatare innanzitutto che la maggioranza dei rabbini citati non fa parte di alcuna catena di citazioni, mentre sono 630 i nomi presenti in almeno una catena. Ancora più interessante, pochi rabbini dei 630 legati gli uni con gli altri compaiono in solo due o tre citazioni: la maggior parte è legata in una rete di rimandi molto più fitta. Al centro ci sono, inoltre, isole di rabbini particolarmente legati gli uni agli altri che potrebbero corrispondere a differenti scuole o circoli. Ma l’analisi quantitativa, che a uno stadio più avanzato della ricerca dovrà saldarsi con quella qualitativa sui singoli rabbini, è solo agli inizi.
Professor Satlow, per secoli numerosi rabbini all’interno delle yeshivot hanno studiato le relazioni che legano i rabbini del Talmud. Il progetto raccoglie questo patrimonio?
“Sì. L’obiettivo principale è studiare come funzionano questi collegamenti nel loro insieme e valutare come visualizzarli. Mi interessa qui esclusivamente il modo in cui il Talmud babilonese descrive un tipo di interazione: i rabbini che citano altri rabbini. Ci sono molti altri tipi di interazione menzionati nel Talmud che fanno perno su storie, domande e casi giudiziari. Ciò che è così interessante ma anche frustrante nei dati che stiamo raccogliendo è che sono intrinsecamente ambigui. A volte i nomi dei rabbini si ripetono e altre volte vengono attribuiti erroneamente. Gli studiosi del passato hanno spesso cercato di correggere queste contraddizioni per arrivare alla comprensione coerente dei singoli rabbini. Il nostro approccio è molto più cauto perché si fonda sui semplici dati”.
Il progetto aiuterà a comprendere la composizione del Talmud, cioè la scrittura collettiva e plurisecolare di un testo ricchissimo?
“Speriamo! Quello che abbiamo già scoperto in questa primissima fase del progetto è che c’è un gruppo relativamente ristretto di rabbini che si citano a vicenda, e molti altri che rimangono non citati e che non citano mai. Questo deve significare qualcosa sul modo in cui le tradizioni confluite nel testo sono state trasmesse e modificate, anche se non siamo ancora sicuri di cosa. Anche i rabbini si raggruppano, il che dovrebbe aiutarci a comprendere meglio i problemi di trasmissione e redazione del Talmud”.
Quanto e in che senso si tratta di un progetto sperimentale?
“Lo hanno reso possibile nuovi approcci digitali, in particolare la disponibilità di un open software che esegue l’analisi e la visualizzazione della rete e il testo del Talmud babilonese in formato digitale. Siamo in una fase iniziale del progetto: non siamo abbastanza sicuri di quali siano le migliori domande da porre ai nostri dati e visualizzazioni, motivo per cui lo stiamo aprendo alla comunità più ampia per ricevere feedback e mettere interamente a disposizione i nostri dati e programmi. Anche in questa fase, infatti, ci siamo imbattuti in una serie di problemi che non ci aspettavamo e che abbiamo dovuto risolvere. Ce ne aspettiamo molti di più man mano che avanziamo ma questa è, dopo tutto, la natura della ricerca. Sappiamo che c’è ancora molto che non conosciamo sul potenziale di questo approccio e non sappiamo dove porterà. In questo senso è sperimentale”.
In che modo le digital humanities possono influenzare e migliorare gli studi ebraici?
“Molti studiosi si stanno confrontando con questo problema. Ci sono alcune domande e problemi che emergono solo dall’analisi di grandi set di dati. A volte questi set di dati sono testuali, nel qual caso gli strumenti digitali consentono una tecnica chiamata distant reading (lettura a distanza) che può valutare modelli, somiglianze e differenze su grandi corpora di testi. A volte sono geografici: ad esempio, è possibile analizzare i modelli di migrazione o insediamento dai registri dei censimenti. Stiamo appena iniziando a pensare a cosa possiamo fare e come possiamo farlo con l’emergere di questi set di dati digitali più grandi. Gli strumenti digitali sono solo strumenti e possono essere utilizzati in aggiunta a tutti gli altri strumenti a nostra disposizione. Se combinati con questi, penso che abbiano il potenziale per offrire nuove intuizioni”.
Quale sarà il prossimo passo?
“Ci sono due analisi che vorremmo fare. Una si concentra su altri tipi di interazioni nel Talmud babilonese: rabbini che fanno domande ad altri rabbini, per esempio, o che nel tempo vengono prima di altri rabbini. Vorremmo anche eseguire le stesse analisi sul Talmud palestinese e confrontare le reti. Ma la ricerca può portare in direzioni impreviste: non vediamo l’ora di scoprire quali”.