Cultura
“Image of Victory”, un film sulla presa del kibbutz Nitzanim

Di vittorie, sconfitte, amore e morte nella guerra del 1948. Un film di Avi Nesher

Un titolo come Image of Victory per un film su una battaglia persa potrebbe sembrare provocatorio. Invece la nuova produzione di Netflix, da poco in streaming in Israele, dichiara di non volere creare conflitti pur parlando di una delle poche sconfitte subite dalle forze israeliane nella guerra di indipendenza del 1948. Dedicato alla presa del kibbutz Nitzanim da parte degli egiziani, Image of Victory, diretto dal regista Avi Nesher, è stato annunciato come il film israeliano più costoso di sempre. Nonostante gli ingenti mezzi messi a disposizione per ricreare l’ambientazione storica, però, non sono tanto le scene combattimento a essere protagoniste quanto le vicende dei singoli. Da entrambe le parti.

Al di là delle sequenze di battaglia, comunque coinvolgenti, sia gli israeliani sia gli egiziani sono mostrati soprattutto nel privato, mentre lavorano, amano e discutono di guerra e di politica, dibattendo su temi che in 75 anni non hanno mai smesso di essere attuali. Tra dialoghi e scontri, il lungometraggio mostra come si svolgeva la vita quotidiana nel kibbutz, tra l’allevamento delle mucche da latte, la vita domestica, le schermaglie amorose e le esercitazioni militari. Il padre del produttore Ehud Bleiberg, Yerachmiel, era stato uno dei difensori del kibbutz prima di cadere prigioniero degli egiziani. La macchina da presa segue i lavoratori nei diversi momenti della giornata, dai pasti in comune alle occasioni di festa, fino allo scompiglio creato dall’arrivo del plotone di soldati mandato a proteggere la fattoria, con tanto di gelosie e di speranze di nuove relazioni amorose.

Dedicato alle vittime della battaglia per Nitzanim di entrambe le parti, Image of Victory è più interessato al lato umano che a quello bellico, parla di persone prima che di soldati e lo fa scegliendo anche un punto di vista esterno al kibbutz. L’occhio in questo caso è quello di Mohamed Hassanin Heikal, giornalista egiziano realmente esistito e qui interpretato dall’attore israeliano Amir Khoury. All’epoca il giovane Hassanin era stato incaricato da re Farouk di realizzare un filmato di propaganda sull’unità dell’esercito impegnato nella presa del kibbutz, raccogliendo appunto “immagini di vittoria”. Ripercorrendo con la memoria quei tragici eventi, Heikal è ossessionato da una scena rubata in quei giorni drammatici. È l’inquadratura del volto fiero di Mira, giovane e bella combattente del kibbutz che punta la sua pistola contro gli ufficiali egiziani, colpendone uno prima di essere uccisa.

Questa figura, interpretata dalla brava e affascinante Joy Reiger, è ispirata a sua volta a un personaggio reale, Mira Ben-Ari. Nata a Berlino nel 1926 e trasferitesi in Israele a 7 anni, la ragazza viene ricordata nel suo paese come una martire per aver scelto di restare a combattere accanto ai soldati del kibbutz Nitzanim, dove era responsabile delle comunicazioni via radio. Dopo avere affidato il figlio Danny di pochi anni all’amica Nechama con una lettera indirizzata al marito in tasca (“Non c’è addio più difficile di una madre che dice addio a suo figlio”), la giovane Mira ormai conscia della sconfitta aveva affrontato gli egiziani con la pistola in mano pur di non cadere loro prigioniera.

Tornando al reporter, questi tenta nel suo documentario di raccontare il lato intimo dei combattenti, parlando anche delle perdite da parte egiziana e cercando di umanizzare gli arabi impegnati nell’assedio al kibbutz. Legato ai soldati volontari, il giovane è testimone ad esempio dell’inizio della storia d’amore tra uno dei combattenti e una ragazza araba del villaggio e vorrebbe inserire dettagli come questo nel suo cinegiornale. Descritto su Variety come un idealista, Hassanin desidera creare qualcosa sulla scia di Why We Fight di Frank Capra, ma vedrà il suo filmato manipolato dai produttori egiziani. La sua visione non piace ai suoi committenti, che vogliono che si parli dell’esercito vittorioso solo in termini eroici, concentrandosi sulla sconfitta degli israeliani. Difficile far capire loro, come ripete il giovane regista, che “ogni grande storia è fatta di piccole storie”.

Ora, che la storia sia raccontata (anche) con gli occhi di un cineasta, tra l’altro della parte avversaria, è una scelta che non è sfuggita alla critica. Secondo quanto si legge su JTA , l’attenzione del regista Avi Nesher ai diversi modi possibili di narrare i fatti rappresenterebbe un meta-commento allo stesso Image of Victory. La storia viene qui raccontata scegliendo di mettere in scena uno dei pochi casi di resa israeliana nella guerra del 1948. L’IDF chiamato in soccorso degli abitanti del kibbutz si era rivelato insolitamente indifeso di fronte ad avversari bene organizzati e pesantemente corazzati. Da questo punto di vista, il film si inserisce nel dibattito in cui sono da tempo impegnati diversi cineasti israeliani, con tanto di scontro con il pubblico, su come rappresentare il passato e il presente del proprio paese. Sull’argomento, comunque, Nesher prende le distanze, concentrando piuttosto la sua attenzione sul ruolo dell’uomo nella narrazione di guerra. E, soprattutto, sul prezzo che questa costringe a pagare.

Già super acclamato dalla critica, Image of Victor è stato paragonato a Paths of Glory di Stanley Kubrick dalla giornalista Hannah Brown, che su The Jerusalem Post lo ha già inserito tra i grandi classici del cinema contro la guerra. Presentato in anteprima al Festival di Haifa dello scorso settembre, è stato nominato a 15 Ophir Awards vincendo tre dei cosiddetti Oscar israeliani: per la migliore fotografia, i migliori costumi e il miglior trucco.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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