Sono le protagoniste femminili le nuove eroine delle serie israeliane e vestono i panni di attrici e produttrici
Già negli ultimi dieci anni lsraele si è fatta riconoscere per la grande capacità di intrattenere un pubblico, sempre più internazionale, grazie ad una straordinaria produzione di serie televisive. Tuttavia, negli ultimi anni, un nuovo fenomeno sta caratterizzando quello delle serie tv israeliane.
Se, infatti, fin dagli albori della storia del cinema israeliano, l’eroe nazionale era sempre stato il soldato – forte, coraggioso e nerboruto, così come ancora oggi rappresentato dal mitico Doron della serie “Fauda” – ora, accanto a eroi meno Rambo e più Romeo – si pensi, uno su tutti, ad Akiva, il romantico protagonista di Shtisel – spicca il ruolo della donna come nuova eroina.
A volte ancora nei panni di “soldatessa”, come nel caso di Tamar, agente del Mossad in “Theran” (Apple TV), ambientata in un Iran contemporaneo. A volte semplicemente nel ruolo di madre, moglie o attivista politica, come nella saga “The beauty queen of Jerusalem” (Netflix) che vede come protagoniste tre generazioni di donne, specchio di un Paese in costruzione: dai tempi della Palestina ottomana, alla fondazione dello stato d’Israele, fino alla crisi politica interna degli anni Settanta.
Ma ciò che più contraddistingue queste due serie tv non è solo il ruolo della donna come protagonista, ma anche nella produzione. Abbiamo intervistato Shula Spiegel e Dafna Prenner, rispettivamente produttrici di Tehran e The beauty queen of Jerusalem (TBQOJ), per farci raccontare sfide e successi in questo lungo processo che le ha portate a conquistare la scena cinematografica non solo israeliana, ma anche internazionale.
Come ci racconta Shula Spiegel, «la storia di Theran è cominciata otto anni fa, quando Moshe Zonder – creatore e sceneggiatore – ha bussato alla mia porta con una proposta, di cui sia io che Dana Eden, la mia partner, abbiamo immediatamente colto il grande potenziale».
Eppure, prima di trovare il finanziatore principale – Canale 11 – sono trascorsi 3 anni, poiché si trattava di una produzione molto cara, che necessitava di attori stranieri, di origine iraniana, che parlassero perfettamente il farsi, e di girare in una location che, a causa del conflitto in corso tra i due Paesi, non poteva essere Theran. «Dopo diversi sopraluoghi è stata scelta Atene, una delle città più simili alla capitale iraniana dal punto di vista del complesso urbano, se pur con tutte le complicazioni di girare fuori sede e con attori stranieri. Alla fine – continua Spiegel – dopo il grande successo della prima stagione (vincitrice degli Emmy nel 2021, ndr), il gruppo canadese Cineflix ci ha proposto una partnership che è stata determinante nel portare sul set della seconda stagione una stella del cinema internazionale dal calibro di Glenn Close. Anche nel suo caso – come in quello della co-protagonista israeliana Niv Sultan – non parlando il farsi, ha dovuto impararlo da zero e studiare tutti i dialoghi affidandosi alla propria professionalità (e memoria)».
La scelta di portare sul set la grande attrice americana non è stata solo una strategia di marketing ma anche una decisione stilistica. «Se la prima stagione aveva uno stile più underground, con la maggior parte dei protagonisti rappresentati da giovani e militanti, in questa seconda serie abbiamo voluto dare più spazio alla generazione degli adulti: a chi trama da dietro le quinte, come il personaggio di Glenn Close e il Capo del Mossad».
Un’altra donna co-protagonista di questa stagione, in cui emerge sempre di più il ruolo della donna al comando. «Forse il fatto di essere due produttrici donne – prosegue Spiegel – ci ha portato naturalmente a cercare di mostrare lo sguardo femminile di chi si trova a dover prendere decisioni cruciali, come quelle delle protagoniste». Sicuramente questo nuovo punto di vista ha conquistato un pubblico internazionale, incluso, sorprendentemente, quello degli iraniani: «La nostra rappresentazione dell’Iran e del suo popolo non è affatto macchiavellica. Nella nostra serie tutti i personaggi iraniani hanno una loro storia personale e un’umanità dalla portata universale. Forse anche per questo siamo seguiti in tutto il mondo, persino in Iran, da cui ci hanno scritto in molti ringraziandoci per aver mostrato una rappresentazione del conflitto in cui nulla è bianco o nero».
Un altro racconto tutt’altro che stereotipato mostra il popolo ebraico ancora alle prese con la fondazione del Paese – quando a Gerusalemme si viveva fianco a fianco con gli arabi e si viaggiava regolarmente in Libano per lavoro – è quello narrato nella serie “The beauty queen of Jerusalem”, liberamente tratta dall’omonimo best-seller, del 2013, di Sarit Yishai Levy, diretta da Oded Davidoff e prodotta da Dafna Prenner, che abbiamo intervistato assieme.
DP: «Tutto è cominciato quando il mio partner Shai Eines si è rivolto a me con la trasposizione cinematografica del romanzo, a me molto caro, per cui ho immediatamente pensato a Oded come regista».
OD: «Sono figlio di un padre gerosolomitano che è nato e cresciuto tra le strade di Gerusalemme quando, come nella serie, si parlava un miscuglio di lingue, tra ebraico, arabo, inglese, turco e ladino». L’utilizzo di lingue diverse è stata solo una delle tante sfide affrontate nel corso della produzione che, trattandosi di un period drama dilatato in mezzo secolo, ha richiesto ambientazioni, costumi, trucchi e mezzi di locomozioni diversi, a seconda del periodo storico.
DP: «Oltre agli ovvi costi di produzione alla fine, essendo impossibile svuotare le strade dell’odierna Gerusalemme, abbiamo deciso di girare la maggior parte delle scene tra i vicoli di Tzfat, cosi simili a quelli della Città Santa, per poi integrarle con le scene girate a Gerusalemme grazie ad un laborioso lavoro di post-produzione». Una grande fatica, tuttavia riconosciuta e premiata da un successo internazionale.
OD: «Oltre al grande interesse, di sempre, nei confronti della storia di Israele credo proprio che per via della ricchezza e la complessità dei personaggi, ognuno con la propria cultura, lingua e religione, anche il pubblico all’estero si sia immedesimato in questa storia locale, ma dalla portata universale».
Una storia di vita quotidiana, raccontata attraverso uno sguardo femminile.
DP: «Volevamo distanziarci dalle tipiche serie israeliane d’azione – conclude Prenner – ed entrare nell’intimità di questa famiglia, di queste donne e di questi luoghi da loro vissuti, che sono quelli che hanno fatto la Storia, con la S maiuscola, del nostro Paese».
Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.