L’autore di “Pecore in erba”, “Olocaustico” e “Alla fine lui muore” si racconta
Lo scorso primo febbraio Alberto Caviglia, autore del film Pecore in erba (2015) e dei romanzi Olocaustico (2019) e Alla fine lui muore (2021) ha incontrato online il pubblico di Joimag per parlare del suo percorso artistico come autore cinematografico e letterario e per discutere assieme di ironia ed umorismo ebraico. Partendo da alcune delle domande sollevate nel corso di questa serata abbiamo intervistato Caviglia per percorrere alcune delle tappe principali della sua carriera e di quanto l’umorismo sia stato uno dei fili conduttori di questo suo percorso.
Come si è sviluppato e come è in parte mutato il tuo percorso artistico?
Pur avendo lavorato lungamente nel cinema ed avendo cominciato come autore cinematografico, quella che originalmente doveva essere la sceneggiatura del mio secondo film, ambientato in Israele, è presto diventato Olocaustico. In parte a causa della difficoltà riscontrate proprio mentre cercavo di trovare un produttore israeliano, e in parte anche perché non volevo che questa storia – per me importante – rischiasse di rimanere chiusa per sempre in un cassetto, col tempo, sono riuscito a dargli una voce diversa che si è sviluppata diventando, inaspettatamente, un romanzo.
Come si colloca la tua identità personale all’interno delle tue opere?
In ogni lavoro, ho spesso attinto dal mio vissuto. Ma, in ciascuno, in modo completamente diverso. Se inizialmente, nel film, ho preso maggiori distanze da me stesso – forse proprio perché era il mio primo lavoro – già in Olocaustico il protagonista è un’aspirante regista – come il sottoscritto, in parte un’espediente letterario – e nell’ultimo romanzo, sicuramente, pervade una somiglianza più palpabile tra il personaggio di Duccio Contini e il mio vissuto, ricostruito all’interno di quello che vuole anche essere lo specchio di una generazione.
Come si colloca, invece, la tua identità ebraica all’interno dei tuoi lavori?
Inizialmente c’era qualcosa che mi portava a respingere questa parte della mia identità, forse anche per potermi emancipare da essa. Eppure, più andava avanti la mia carriera, più l’ebraismo ha iniziato ad emergere e diventare una parte più preponderante dei miei lavori, col risultato paradossale che forse, in parte, mi ha anche permesso di conoscere meglio me stesso. Oltre al fatto che, tanto per parlare di rapporto tra umorismo e cultura ebraica, spesso editori e produttori spingevano perché io percorressi questo tipo di tematica, al punto che in certi momenti mi sembrava, a tratti, di ritrovarmici “intrappolato”.
Che cos’è per te l’umorismo ebraico e quanto questo ha influenzato il tuo percorso artistico?
Non è certo qualcosa che si può ridurre ad un’etichetta, anzi, ma sicuramente l’ironia è stata l’arma fondamentale che, nei millenni, ha permesso al popolo ebraico di sopravvivere alle tragedie più drammatiche affrontate nel corso della loro storia. L’umorismo, infatti, permette di toccare certi nervi più scoperti che altrimenti sarebbero difficili da indagare, e questo sicuramente mi ha molto aiutato nello sviluppare il lato ironico all’interno dei miei lavori, quasi attraverso un processo di auto-terapia. Molte delle idee che ho esplorato nel mio percorso artistico, infatti, sono germogliate a causa di alcune situazioni di malessere, come per esempio il dilagare dell’antisemitismo che mi ha spinto a scrivere Pecore in erba, ribaltando la prospettiva attraverso lo sguardo di un eroe antisemita.
Quanto ha influenzato, come regista, il tuo lavoro a fianco di Ferzan Ozpetek come suo assistente alla regia?
Aver partecipato a cinque dei suoi film è stata sicuramente una delle esperienze più formative nel corso della mia vita lavorativa, perché sul set, al suo fianco, ho imparato l’importanza di saper condividere il proprio lavoro con tutti coloro con cui ci si trova, a volte scegliendo anche di correre dei rischi. Pur senza mai rischiare quanto Ozpetek, noto per la sua capacità, ai limiti dell’incoscienza, di sapere e di volere improvvisare. Solo grandi registi come lui possono permetterselo.
Qual è la più grande differenza tra scrivere un film e scrivere un libro?
Scrivere un film è sicuramente un processo più creativo anche perché spesso, come nel caso del mio film, coinvolge altre persone – Benedetta Grasso e Paolo Cosseddu in Pecore in erba – che hanno reso il processo di scrittura ancora più stimolante. Una volta finito, quando si comincia a girare, ci si trova improvvisamente a lavorare a 360 gradi, a dirigere una vera a propria macchina da guerra. Anche per questo, nel corso della scrittura, più ogni scena è dettagliata meglio è ai fini della sua realizzazione. Mentre in letteratura è quasi il contrario: bisogna sempre stare attenti a non essere troppo didascalici, a non suggerire al lettore troppi dettagli che invece dovrebbero spettare alla sua immaginazione, lasciandogli invece un certo margine di libertà, che va sempre ben calibrato. Scrivere un libro è come percorrere una maratona: ogni pagina sembra un chilometro e solo quando si arriva alla fine – alla copertina – si riesce a riprendere il fiato.
Dunque, dopo la grande fatica del primo, come è nata l’esigenza di scriverne un secondo?
In gran parte l’esigenza è nata dallo stallo dovuto alla pandemia. Mentre, come tutti, mi trovavo in una clausura forzata, questo ha fatto in modo che avvertissi il bisogno di far emergere alcuni pensieri e spunti per il personaggio di Duccio e della sua generazione. Alla fine lui muore nasce da un turbamento che, ancora una volta, ho cercato di ribaltare ed esorcizzare con senso dell’umorismo, trasformandolo in qualcosa che potesse parlare a tutta la mia generazione e a chi cerca di afferrarla.
Ci sono nuovi progetti in cantiere o un sogno nel cassetto non ancora realizzato?
Progetti ci sono sempre, e ormai non soltanto miei ma anche collaborazioni con altri registi e soggetti altrui. Mi piace molto lavorare in squadra ma, al tempo stesso, ogni anno cerco di buttare giù almeno una storia nuova che prima o poi possa trovare spazio. Solo il tempo, poi, suggerisce se il miglior contenitore di questa storia sia un libro, un film o una serie televisiva. Forse un giorno potrebbe essere un cartone animato o un fumetto. Mi piace mettermi alla prova in modo che il mio processo creativo sia un costante work in progress. Una cosa che mi piacerebbe molto, un giorno, è di girare un film all’estero. Magari, perché no, proprio in Israele.
Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.