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Intervista a Stefano Levi Della Torre dell’appello Mai Indifferenti

Un punto di vista sulla guerra, sull’antisemitismo e sullo stato di Israele

Le polemiche di questi giorni intorno alla guerra in corso in Israele e Palestina hanno diviso gli animi anche all’interno delle comunità italiane. La questione centrale, naturalmente, riguarda il rapporto di ognuno con Israele e forse quello della diaspora tutta con lo stato ebraico. Naturalmente, da questo discendono una serie di altre questioni fondanti e decisamente importanti sia per l’esistenza dello stato di Israele, sia per le condizioni di vita degli ebrei nel mondo. In questo articolo diamo la parola a Stefano Levi Della Torre tra i promotori dell’appello Mai indifferenti.

Perché è nato Mai Indifferenti? Nell’appello si legge: “Ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti d’indifferenza verso il dolore degli altri, di disumanizzazione e violenza sui più deboli. Per combattere l’odio e l’antisemitismo crescenti in questo preciso momento, pensiamo che l’unica possibilità sia provare a interrogarci nel profondo per aprire un dialogo di pace costruendo ponti anche tra posizioni che sembrano distanti”.

«I fatti del 7 ottobre ci hanno scioccato e la risposta del governo israeliano ci ha sconvolto. Si è ritenuto necessario prendere delle distanze dalla politica israeliana e rispetto al fare ufficiale della comunità milanese per convinzione e perché riteniamo che l’atteggiamento protettivo nei confronti di Israele sia nocivo, sia allo stato ebraico sia agli ebrei della diaspora. Non condividiamo la posizione di coesione politico-militare. Ci assumiamo il rischio di essere etichettati come “gli ebrei buoni” secondo una certa visione e anche di ricevere le critiche di tradimento secondo un’altra visione. “Right or wrong my country”? Dalla Torà stessa impariamo la responsabilità di dividere il bene dal male a cominciare da noi stessi. Siamo convinti che Israele stia rovinando se stesso e le sue prospettive, stia mettendo in crisi la sua democrazia e il consenso internazionale. Per questo abbiamo scelto il dissenso, per contribuire a salvare Israele, evitare che sia isolato dal mondo e per proteggere la memoria della Shoah nei suoi insegnamenti universali. Così è nato il comunicato di Mai Indifferenti, firmato da ebrei e poi condiviso da chiunque lo voglia».

Qual è il ruolo della diaspora nei confronti di Israele?
«Per noi è negativo il comportamento di difesa e protezione acritica che spesso la diaspora adotta e ha adottato. Israele è come un figlio unico viziato dalla diaspora. Pensiamo invece che vada guardato con occhi critici e che vada aiutata la parte israeliana che pensa che sia necessario trovare un compromesso con i palestinesi, ora difficilissimo perché l’odio si è approfondito ed è necessaria una separazione. Perché ci sono due estremismi in gioco: Hamas non vuole Israele e Isreale non vuole la Palestina. Il 7 ottobre ha rotto questa convivenza silenziosa di due schieramenti simmetrici».

Perché, secondo lei, ci troviamo davanti ai fatti attuali e quali sono sono le ragioni per cui questa guerra è scoppiata ora?
«Le ragioni dell’aggressione di Hamas del 7 ottobre 23? 1- Israele non ha gestito il problema palestinese, offrendo a Hamas l’opportunità di farsene rappresentante ed egemone- 2- Appunto per farsene egemone, Hamas ha voluto reagire alle provocazioni dei fondamentalisti nazional- religiosi  israeliani sulla spianata delle Moschee di Gerusalemme, preoccupazione di tutto il mondo isalmico; 3– Hamas, anche per conto dell’Iran, voleva impedire si realizzasse il”patto di Abramo”, cioè la distensione imminente tra Israele, l’Arabia Saudita e altri Stati arabi. 4- Hamas ha colto l’occasione della spaccatura di Israele, prodotta dal governo di estrema destra di Netanyahu nel suo tentativo di stravolgere il sistema giuridico del paese, e ciò aveva prodotto settimane di manifestazioni in Israele.
E poi, prima del 7 ottobre, Israele non viveva in pace: da un lato subiva i missili di Hamas e Jihad da Gaza, dall’altro il governo Netanyahu incoraggiava l’aggressione espansionista dei coloni, appoggiati dall’esercito, contro i territori e la popolazione palestinese della Cisgiordania. Amos Oz, anni fa, aveva messo in luce la collusione tra Hamas e la destra israeliana: l’una parte e l’altra concordano nell’impedire la coesitenza di due autonomie, quella degli ebrei in Israele e quella dei palestinesi. Hamas vuole distruggere Israele, la destra israeliana vuol impedire che esista uno stato palestinese. E ora tutti sanno che gli abitanti della Striscia non sono rimasti nelle loro case, anzi hanno continuato a spostarsi in centinaia di migliaia, soprattutto dal nord al sud della Striscia, per seguire le indicazioni dell’esercito Israeliano circa le zone di possibile salvezza. Poi l’esercito bombarda anche le zone “sicure”, in cui Israele ha “invitato” a spostarsi. Sono cose gravi e accertate. E questo mentire sull’evidenza dà argomenti all’antisemitismo».

Come definirebbe il sionismo oggi?

«Occorre fare una distinzione: all’inizio il sionismo, in prevalenza laico e socialista, aveva come obiettivo quello di sostenere il diritto all’esistenza degli ebrei anche come nuovo stato e nazione. Oggi sotto la prevalenza della destra nazionalista e religiosa, ha cambiato di segno, vuole  impedire il diritto all’esistenza e all’indipendenza altrui. Dunque la “critica al sionismo” non è detto che sia univocamente “antisemita” (come sostiene la definizione di antisemitismo dell’IHRA), perché c’è sionismo e sionismo, intenzione e intenzione. I Palestinesi hanno maturato una specifica coscienza nazionale  in risposta e in parallelo al formarsi di una coscienza nazionale degli ebrei nel diventare Israeliani: c’è un’identità collettiva nel momento della fondazione dello stato d’Israele, tra differenze profonde, ma con una somiglianza. Ricordano Giacobbe e Esaù, i gemelli che combattevano nel ventre materno, qui combattono nel ventre della stessa terra. Al pari di Giacobbe e Esaù confliggono su chi dei due sia il primogenito su quella terra. Peraltro non condivido una tradizione rabbinica che demonizza settariamente Esaù, e sorvola sul fatto che Giacobbe trasgredisce diverse prescrizioni della Torà, come quella di non travestirsi per farsi passare per il fratello, di non mettere impedimenti davanti al cieco (qual è il padre Isacco), di rispettare il padre ( e non solo la madre, Rebecca)».

Cosa pensa, dunque, della definizione di antisemitismo proposta dall’IHRA che considera l’antisionismo espressione dell’antisemitismo?
«Non la condivido, mentre sono favorevole al documento di Gerusalemme, una contro-proposta che polemizza con l’IHRA perché questa propone una definizione troppo estesa di antisemitismo e rende l’accusa di antisemitismo strumentale per impedire qualunque critica politica e morale alla poltica di Israele anche di fronte alle evidenze, e questa censura preventiva non può che favorire l’ostilità anti-ebraica. Favorisce l’antisemitismo, quello moderno, naturalmente, che è un’accusa politica relativa alla volontà degli ebrei di prendere il potere. Se gli ebrei sono anche un’entità politica nella forma dello stato di Israele, le cose evidentemente si complicano. La definizione dell’IHRA crea una dimensione acritica… Se gli ebrei si comportano acriticamente verso Israele  come fosse lo “Stato Guida” farebbero come i comunisti verso l’Unione sovietica… e non è finita tanto bene!».

C’è un’altra parola che sta diventando molto divisiva in questa guerra: genocidio.
«Noi ci asteniamo dall’uso della parola genocidio relativamente a ciò che sta facendo Israele, è in atto una strage, un massacro. L’uso di quel termine è caricato dal rovesciamento del ruolo di Israele da vittima a carnefice, ma in realtà la parola genocidio si appella alla memoria della Shoah, ai principi che fanno della Shoah il male. Ma ci sono due strade, quella nazionalista, per cui la Shoah è stata perpetrata contro gli ebrei, e una più ampia, secondo cui si è trattato di un crimine contro l’umanità. E ora la memoria della Shoah è diventata un’accusa al punto che la relazione tra ebrei e nazisti è diventata un regolamento di conti: quello che era un riparo, cioè lo stato di Israele, ora diventa criminale in un regolamento con un’altra entità criminale, Hamas. Per questo abbiamo scelto il dissenso: crediamo che possa aiutare Israele a salvarsi e che possa proteggere la memoria della Shoah».

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


2 Commenti:

  1. Cara redazione, mi permetto di contestare l’affermazione del mio amico Stefano Levi Della Torre a proposito della working definition di antisemitismo dell’IHRA. Già la domanda mi sembra posta in maniera non corretta. Non è vero, infatti, che la definizione IHRA “considera l’antisionismo espressione dell’antisemitismo”. Né nella definizione IHRA, né nelle successive raccomandazioni, la parola “antisionismo” (o sionismo) viene citata. Si scrive invece (e solo nella premessa alle raccomandazioni, non nella definizione vera e propria) che “Le manifestazioni [di antisemitismo] possono avere come obiettivo lo Stato di Israele perché concepito come una collettività ebraica. Tuttavia, le critiche verso Israele simili a quelle rivolte a qualsiasi altro paese non possono essere considerate antisemite”. I redattori della dichiarazione di Gerusalemme (la JDA, Jerusalem Declaration on Antisemitism) hanno dichiarato apertamente che la loro proposta di definizione era in polemica con quella dell’IHRA, ma hanno fatto passare la dichiarazione IHRA per un qualcosa che non è. Le parole, di questi tempi, sono importanti. Il loro uso corretto anche.

  2. Grazie x questa intervista e questi commenti , che aiutano alla riflessione e a superare il pensiero unico …


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