Cultura
Israele, tra ingovernabilità e guai giudiziari di Netanyahu

Ananlisi a breve termine di una situzione di stallo e carica di incognite

Benjamin Netanyahu ha vinto ma lo stallo permane. Un po’ come dirsi che si è di nuovo ai blocchi di partenza. La qual cosa non promette bene in alcun modo poiché, a questo punto, la tentazione di forzare la situazione potrebbe prendere la mano ad una parte dei protagonisti. Sta di fatto che continuando a ripetere con costante maniacalità sempre lo stesso schema – ovvero, ricerca di una maggioranza politica, conseguente stallo parlamentare, decorrenza dei termini per la formazione dell’esecutivo, rinvio alle urne, votazioni e poi di nuovo tutto daccapo – il rischio che il gioco elettorale venga percepito in maniera crescente come una farsa, ossia come una simulazione fine a se stessa, diventi concreto. Fermo restando che i problemi non si riducono solo a quest’ultimo aspetto, trattandosi semmai del caso per cui Israele non ha un esecutivo nel pieno dei suoi poteri da, oramai, più di un anno. Non è il primo caso al mondo (si pensi al Belgio, per fare un esempio) e non è neanche detto che tutto il male venga per nuocere. Ma non si può pensare di andare avanti ancora per molto in questi termini, poiché è l’intero sistema istituzionale ad essere sottoposto a frizioni persistenti e cumulative. Rischiando quindi un progressivo sgretolamento.

La preoccupazione del presidente Reuven Rivlin è esattamente questa, insieme al timore che la separazione tra poteri venga progressivamente messa in discussione. Netanyahu vince sul piano del gradimento (e del gradiente) elettorale così come sul versante dell’esposizione pubblica, raccogliendo un ottimo seguito personale. Non la stessa cosa, in tutta probabilità, si potrebbe altrimenti dire del suo partito, il Likud, che senza di lui rischia di rivelarsi una compagnia di attori priva di partitura e, soprattutto, di regista. Netanyahu vince soprattutto sulla capacità di dettare l’agenda collettiva, che è oramai ricondotta ad un perenne plebiscito su di sé. Vince con la sua presenza ingombrante, con il suo leaderismo personalistico, con il suo stile che sembra volere suggerire ad una parte degli israeliani, l’idea per cui: “se mi date il consenso, salteremo a piè pari tutti i colli di bottiglia che una democrazia ci impone sempre più spesso, rendendoci oltremodo inutilmente faticosa l’esistenza”.
Peraltro, già da alcuni anni King Bibi si andava presentando come colui che avrebbe avuto la forza e la determinazione per affrontare di petto i nodi della cristallizzazione delle democrazie liberali e sociali. In ciò, trova ancoraggi con quelle leadership carismatiche che hanno fatto dell’identitarismo, prima ancora che del populismo e del sovranismo, la propria radice. Qualcosa del tipo: “sono il prototipo decisionale di un nuovo modello di governo nella complessità sociale, valorizzando la radice identitaria di cui ognuno di voi è titolare, cari elettori”.
Un tempo questa genere di proposta sarebbe stata rubricata sotto l’indice del «nazionalismo». Oggi, in età di globalizzazione spinta, laddove i confini e le sovranità nazionali sono sottoposte a dura prova, il vero recinto nel quale riconoscersi è quello della reciprocità identitaria. Che in Israele è una vera scommessa, essendo la popolazione quanto di più pluralistico e differenziato si presenti sul versante delle origini e, quindi, anche dell’attuale assemblaggio. Ma forse proprio per questo, chi riesce ad affermarsi come campione di una tale ricomposizione, riesce anche ad essere convincente. Se non altro perché sposta l’asse della discussione dal groviglio dell’incertezza generata dalle trasformazioni sociali ed economiche in atto alla ricerca di una identificazione forte, che viene presentata come «identità» e «tradizione», quando è invece soprattutto il bisogno di avere una guida nella quale identificarsi. A Netanyahu, ovvero per tutti coloro che si riconoscono in lui, ciò riesce bene. Finché qualcuno non si incaricherà di buttarlo giù dal cavallo. Quel qualcuno non c’è, non almeno ora.

Andiamo però ai dati, quelli che sembrano essere certi, per poi riprendere il discorso su un orizzonte meno asfittico di quello consegnatoci dalla mera cronaca quotidiana. A conteggi ultimati, attraverso il riscontro della Commissione elettorale nazionale, il Likud con il 29,5% dei voti ha 36 seggi (un incremento di 4); Kahol Lavan, con il 26,6, rimane inchiodato a 33; la Lista unita araba, al 12,6%, 15 (due in più); Shas, al 7,7%, se ne garantisce 9; Yisrael Beiteinu, con il 5,1%, se ne assicura 7 (uno in meno); Campo democratico-Gesher-Meretz di Amir Peretz, con il 5,8%, ne ha 7 (tre in meno) Yahadut HaTorah, con il 6%, si ferma a 7; Yamina di Naftali Bennett, con il 5,2%, 6 (uno in meno). Tutto ciò, in un paese dove le coalizioni sono tutto, significa che il blocco di destra è a 58 seggi (Likud, Shas, Yahadut HaTorah, Yamina), il blocco definito di sinistra a 55 (Kahol Lavan, le tre liste di Peretz, e il gruppo dei partiti arabi). Ad aprile del 2019, la destra contava su 60 seggi, a settembre su 55. Se consideriamo invece il “blocco anti-Bibi” nel suo complesso, allora si sale a 62 seggi. Ma sono conti fatti in assenza dell’oste.
La questione, a questo punto, è la prospettiva di uno scontro, non più solo parlamentare, così come in prospettiva ancora una volta elettorale, ma anche e soprattutto istituzionale, con due iniziative contrapposte ma al medesimo tempo convergenti verso l’impatto frontale: il fronte contro Netanyahu si muoverebbe per fare sì che venga approvata una legge che impedisca a chiunque sia incriminato di assumere la carica di premier. Una norma ad hoc, va da sé, per estromettere per via giudiziaria un uomo che già il 17 marzo andrà a giudizio con le accuse di corruzione e frode. Netanyahu medesimo, a sua volta, cercherà invece di imbarcare qualche deputato dell’opposizione, promettendo e garantendo chissà cosa, dopo una campagna elettorale, da poco conclusasi, decisamente «crudele» (copyright Reuven Rivlin), nella quale pressoché nessun attacco è stato risparmiato dagli uni contro gli altri, in una sorta di zuffa continua.
Re Bibi ha costruito il suo indiscutibile successo personale, comunque andranno a finire le cose in futuro, sia sull’occupazione di tutto il campo politico della destra da parte propria – una strategia compatta, che porta avanti dal 1996 – sia attraverso la sistematica demolizione dei suoi avversari. In quest’ultimo caso, di Benny Gantz. In Israele la lotta politica è sempre stata durissima, al limite della ferocia. In un paese che macina ancora moltissima politica, dove le divisioni (e le ricomposizioni) da sempre accompagnano, come persistenti faglie di rottura, le incerte identità collettive, alla rivendicazione di essere i titolari ed i campioni del trinomio «sicurezza-nazione-tradizione» (una correlazione che è stata dettata nell’agenda politica nazionale, a partire dal 1977 in poi, dal «blocco nazionale», una destra sempre più egemone del linguaggio di senso comune) si accompagna da subito l’accusa, rivolta impietosamente ai propri avversari, di essere dei «traditori».

L’accusa di tradimento che Bibi ha rivolto a Benny è stata quella di essere un «codardo», un uomo non in grado di rispettare gli standard che Israele richiede per la propria sicurezza. Per un ex capo di stato maggiore, già alla guida delle forze armate, si tratta di uno schiaffo a pieno volto, assestato con calcolata determinazione. I pettegolezzi, fatti circolare ad arte, su business privati, su gusti e condotte sessuali, in buona sostanza sull’inattendibilità dell’avversario stanno dentro questa cornice, derivata dalle campagne elettorali americane dove, per riempire il vuoto delle proprie proposte (oppure celare le proprie effettive intenzioni) si sposta il target contro la persona dell’avversario.
Il leader di Kahol Lavan ha risposto piccato e determinato, accusando Netanyahu di debolezza nei confronti di Hamas e dei pericoli che accompagnano la regione (non è un secreto per nessuno che Bibi, dei diversi premier che si sono succeduti, non sia stato quello più implacabile; ha fatto scelte molto mediate dalla sua formazione di assicuratore e poi di diplomatico, che sono le uniche radici che in lui siano rimaste ben impiantate, al netto della professione di politico e di costruttore di coalizioni che ha poi rivestito abilmente nel tempo), paventando continuamente anche il suo essere una via di mezzo tra il malandrinaggio di potere e la menzogna in funzione antidemocratica.
Per molti dei suoi avversari, Bibi è quindi diventato una calamità nazionale, qualcosa che rasenta lo psicodramma. Sarebbe già stato defenestrato da tempo se non avesse potuto contare fino ad oggi sulla letargica debolezza dei suoi contendenti. Gantz non solo non buca lo schermo ma rischia di procurare qualche sbadiglio tra gli ascoltatori. È rigido, attento a difendere la linea del fronte, apparentemente privo di una strategia di rottura dello stallo a cui lui stesso rischia, adesso più che mai, di concorrere. Le indiscrezioni che durante la trascorsa campagna elettorale sono mefiticamente fuoriuscite dallo staff dello stesso Benny, dove il coordinatore delle attività di Blu e bianco, il serafico Yisrael Bachar (già spin doctor di Naftali Bennet e dello stesso Netanyahu), ha affermato che al candidato premier mancherebbero le «palle» per fronteggiare la minaccia iraniana, più che rivelare la debolezza di quest’ultimo ha portato allo scoperto l’inconsistenza di un progetto, quello di un partito anti-Bibi, che non riesce ad essere carne né pesce.
Kahol Lavan segue cronologicamente l’esperienza di Kadima, ma di questo non ha raccolto la capacità di cercare di rompere gli schemi destra/sinistra, ossidatisi dopo la fine ingloriosa delle trattative con i palestinesi. Sharon era un animale politico, uno spregiudicato combattente, molto simile a certe figure di militari riciclatisi in altri paesi come leader non prima di essersi rilavati e sciacquati i panni. Portava in dote il suo passato, la sua ruvida intransigenza, il suo disprezzo per ciò che considerava come inesistente, i palestinesi medesimi, ai quali invece sostituiva gli «arabi», quelli sì esistenti e pericolosi. Disgustava molti, che lo vedevano come un truce «criminale di guerra», già ai tempi dell’Unità 101 (molti decenni e diversi chili prima di diventare capo del governo) e poi dell’assedio di Beirut del 1982, quando ruppe le uova nel paniere a Menachem Begin non senza però farsi impantanare nelle sabbie mobili libanesi. Proprio perché era così, ovvero si faceva con calcolata compiacenza disegnare in questo modo, poté quindi imporre ad un paese, che era già in lutto preventivo, la perdita di Gaza. Dopo essersi consultato con un board di esperti che gli avevano detto che c’erano solo due vie possibili: preservare la democrazia “ebraica” oppure fare una «Grande Israele» che si sarebbe trasformata in un contraddittorio coacervo di gruppi tra di loro in costante conflitto. A supporto del suo progetto – imporre ai palestinesi una pace, non contrattandola – aveva raccolto, dal morente laburismo israeliano, Shimon Peres, il prestigioso perdente di lusso, quello che era sempre caduto in piedi, e dalla declinante destra, tra gli altri, Ehud Olmert, Tzipi Livni, Shaul Mofaz.

Gantz, di tutto ciò, dopo la morte nel 2015 di Kadima, quest’ultima una via di mezzo tra un congegno elettorale, un partito-taxi e l’ispirazione incompiuta verso un nuovo orizzonte politico nazionale, che cosa ha raccolto? Superata la inconcludente e crepuscolare retorica laburista, Kahol Lavan si è affidato alla scelta di non fare scelte. Ha quindi giocato sul piano più congeniale a Netanyahu, buttandola sul “personale”. Ha detto agli elettori che ciò che andava fatto non era votare un programma, peraltro del tutto inesistente, ma non votare Bibi. Musica per le orecchie di quest’ultimo. Poiché il partito degli ex generali, al di là della probità di ciascuno di essi, non ha un progetto su e per Israele che non sia il collage tra i rimandi alla laicità dello Stato (minacciata dalle “orde” ultraortodosse) e il richiamo ad una visione di «Law and Order» che più e meglio proprio la destra sa invece incarnare.
Quando Trump è intervenuto a gamba tesa per aiutare il premier uscente, con «The Deal of the Century», d’altro canto Benny è rimasto ancora una volta a bocca asciutta, masticando amaro. Si è di nuovo fatto sottrarre la scena. L’esatto opposto di Calamity Bibi, che è invece una sorta di lottatore di sumo della politica, un trascinatore di folle, un rullo compressore che si fa beffe della marzialità e del tono troppo impettito del bel generale che gli dà sempre addosso. Anche per queste ragioni se lo si accusa di essere un avventuriero, un manipolatore, uno «Snakes Charmer», si rischia di fargli quasi una cortesia.
Netanyahu non crede in molte delle cose che lascia invece dire a coloro che lo circondano: è troppo legato alla sua formazione globalista, di uomo di mondo che diventa uomo del mondo, per rintanarsi nell’incubo identitario. Lascia che siano gli altri a farlo, sapendo che in questo modo li potrà tenere in trappola. In questo, è appieno un politico della generazione dei cosiddetti populisti-sovranisti: non perché si riconosca integralmente in quanto lascia liberamente circolare ma poiché riconosce che ciò che imprigiona gli altri è quanto lo manterrà libero. Anche per questa ragione è senz’altro oramai disposto a lanciare un’inclemente ed implacabile azione contro il potere giudiziario e la sua autonomia.
Il punto dolente di questa traiettoria è che Netanyahu si alimenta, a proprio beneficio, di un cono d’ombra che è esattamente ciò che inquieta i suoi antagonisti. Ha infatti archiviato una parte della storia del Likud, e dei suoi padri fondatori – che fu anche storia durissima, feroce per l’appunto – per presentarsi come colui che saprà amministrare un regime di «post-democrazia». Giocherà, come già da diverso tempo avviene in altri paesi, contrapponendo la sua investitura elettorale, il giudizio assolutorio che ha ricevuto da molti israeliani il 2 marzo scorso, alla farraginosa complessità delle procedure legalitarie che potrebbero vederlo, in tutta probabilità, non solo condannabile, quale già in potenza sarebbe, ma condannato. Lo farà poiché sa che il trend dominante, nella crisi delle democrazie liberali e sociali, è quello per cui all’identificazione con le anonime istituzioni si sostituisce quella con il corpo e le parole del leader, soprattutto quando questo sa farsi apprezzare per la capacità di ricorrere in maniera spregiudicata al potere, rassicurando al contempo la collettività. Allo spettacolo del potere si è sostituito il potere dello spettacolo, dell’auto-rappresentazione. I media sono con Netanyahu, da questo punto di vista, avendone fiutato da tempo il pragmatismo. Non c’è nessun complotto in atto ma una «feroce» trasformazione del modo di vivere insieme, a partire dai criteri con i quali ci si sente e ci si riconosce reciprocamente come israeliani. Ancora una volta si tratta di un discorso che supera le frontiere del paese, per arrivare all’Europa ed, in primis, alla stessa Italia.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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