Cultura Musica
It Sounds Jewish #9

La lunga storia della canzone “Chànnale hitbalbelà”, “Channale si è confusa”

Secondo un mio collega, ogniqualvolta inizio a dipanare una storia legata alla perenne trasmigrazione di motivi musicali, parti di testo, ritmi, da una cultura a un’altra, da un ambito religioso ad uno che ne è lontanissimo, si entra in un racconto alla Borges, dove la letteratura stessa crea specchi infiniti e inganni da vertigine. Non so, io spesso ci vivo in una dimensione simile a quella de L’Aleph creato dalla penna del grande argentino… E può darsi che quanto segue, sia in effetti un po’ alla Jorge Luis Borges. Storie di musiche e testi, certo; ma soprattutto storie di identità, o, per essere più precisi, di identità tradizionali inventate e reinventate che si riflettono l’una nell’altra.

Il mese è incerto, ma l’anno è il 1975. Esce un disco che segnalerà il più radicale cambiamento mai avvenuto nella scena musicale israeliana. L’irruzione della muziqa mizrachìt, la musica “orientale” (come vedremo, le virgolette sono veramente d’obbligo) negletta, reietta per l’establishment culturale, da condannare, ridotta alla circolazione per canali alternativi, simbolo identitario per eccellenza degli ebrei provenienti dai Paesi arabi e mediterranei. Una musica che condensa un reciproco rifiuto culturale e politico fra ashkenaziti e sefarditi, fra élite e masse.

Il disco diviene poi rapidamente cassetta, venduta in migliaia di copie in tutte le stazioni centrali degli autobus in Israele. Chànnale hitbalbelà, Channale (piccola Channa, Channina o Channetta secondo l’uso molto yiddish del diminutivo -le in fine parola) si è confusa. L’apertura è affidata ad una sorta di breve Taqsim, l’introduzione strumentale libera, la ricerca del giusto maqam, che caratterizza molta musica araba, turca, persiana. E già qui, cominciano i dubbi: diminutivi/vezzeggiativi yiddish con modalità tipiche della musica “orientale”? E la contrapposizione culturale? Mah…
Poi, colpisce l’ensemble strumentale: batteria, basso elettrico, chitarra elettrica, qanun. Un po’ rock/pop, un po’ turco-persiano. Forse anche un po’ greco. E la chitarra è curiosa: sembra un bouzouki amplificato, ma lo stile è quello della musica surf che impazzava in California verso la fine degli anni 50. Il sound è anche quello di tanta musica popolare greca degli anni 60 e 70, sviluppatasi fra il Pireo e Salonicco come prosecuzione commerciale e furba del rembetiko. E la voce: per chi se ne intende, è lo stile tipico del canto ebraico yemenita di San’a (cantillazione della Torà compresa), i suoni tenuti magnificamente sul registro più elevato, i melismi scarsi e contenuti, l’emissione controllata e potente.

Infatti il cantante è Rami Danokh, origini yemenite, ma sabra da varie generazioni. Appartiene a un gruppo mobile e cangiante di musicisti collocati fra Neve Tzedeq, nei pressi di Giaffa, Shkhunat HaTiqwa, la periferia sud di Tel Aviv popolata soprattutto da ebrei di origine yemenita, e Kerem HaTeymanim, la vigna degli yemeniti, insomma, lo Shuq HaKarmel di Tel Aviv. Il gruppo si chiama Tzlilèi Ha‘Oud, Suoni dell’oud, il liuto arabo. Curiosamente del tutto assente nell’ensemble.

E il testo? Una simpatica commedia dell’assurdo. Chànnale e marito si recano a Tel Aviv con il treno del venerdì, il marito vuole un figlio maschio, ma i due non sono ancora sposati, anzi lei è vergine, eppure già si procede con gli inviti per il brit milà, la circoncisione, insomma, che succede?!? Ma di chi sono le parole?

E qui, metaforicamente, dopo il “Borges” musicale, si mette in azione il “Bioy Casares” testuale (coautore a quattro mani di tante opere “leggere” del gigante porteño). Perché almeno la prima strofa è di Nathan Alterman, come a dire, il secondo poeta nazionale dopo Chaim Nachman Bialik. Ma molto più spiritoso, ironico, militante, comunicativo del gigante di Odessa. Poeta, giornalista, commediografo, autore di canzoni, drammaturgo, polemista, editorialista, animatore della vita dei caffè di Tel Aviv fra gli anni 30 e 60 del secolo scorso, a cominciare dalla sua base nel mitico Casit di Dizengoff.

Alterman scrive una specie di Purimspiel, quella rappresentazione teatrale di Purim diffusa in tutta l’Europa centro-orientale nella quale originariamente si riraccontava, spesso in chiave parodistica e umoristica, la storia narrata nel Libro di Esther, divenuta poi nei secoli una parodia della parodia di se stessa. Alterman immagina una giovane coppia di Afula (come a dire, nel gergo israeliano di allora e di oggi, la quintessenza del posto sperduto, provinciale, noioso, arretrato) che prende il treno per andare alla sfilata di Purim di Tel Aviv, la celeberrima làadloyàda (contrazione strana di le‘àd lo yadà Mordechài meHamàn, fino a non distinguere più il pio Mardocheo dal perfido Haman, i deuteragonisti della storia di Purim; modo per dire che nei festeggiamenti dello scampato pericolo ci si può ubriacare come scimmie). E di lì, una successione di strani eventi, equivoci, scene al limite del surreale, insomma, una canzone che è la degna introduzione ad un Purimspiel moderno e sionista.

Per chi non l’abbia mai visto nei suoi anni d’oro, il famigerato làadloyàda di Tel Aviv era e ancora in parte è una stravaganza folle che anticipa di gran lunga le bizzarrie dei moderni St. Patrick’s Day e Gaypride. Alterman decide di musicare il testo della sua Canzone di Afula (questo il primo titolo) con un nigùn chassidico, una di quelle melodie spesso lunghissime e di vario carattere del tutto prive di parole che caratterizzano le espressioni musicali dei mistici chassidìm. Echi di quel nigùn si trovano in parte, in piccola parte, anche in quanto avete appena sentito.

Il testo però prende vita propria. Diviene una “canzone di strada”, si trasforma, passa attraverso innumerevoli interpolazioni, tutte rigorosamente anonime: chi dice di averlo sentito, in una delle infinite varianti, da un gruppo di muratori ashkenaziti che lavoravano vicino a Dizengoff, chi lo ha sentito con un testo lievemente differente da ebrei yemeniti allo Shuq HaKarmel, chi invece lo canticchiava con un testo ancora diverso nei corridoi dell’elitario ed elitistico Liceo Herzliyah, bastione della buona educazione ashkenazita e primo del Paese. Sia come sia, i testi, nelle loro infinite varianti, sono intonati anche su melodie diverse, in parte memori dell’originale nigùn chassidico, in parte no. Fino a quando la Canzone di Afula diventa Chànnale Hitbalbelà e arriva nei club della periferia meridionale di Tel Aviv e di Giaffa, quelli dove si vedono gli ebrei di Salonicco, i bulgari, gli yemeniti e gli iracheni. Ed è in questa zona che avviene l’ultima serie di interpolazioni del testo: citazioni dal Cantico dei Cantici, dal repertorio della poesia religiosa sefardita, dal ricco tesoro del Diwan yemenita. Nelle esecuzioni dal vivo, Chànnale Hitbalbelà può andare avanti per ore, e le strofe si improvvisano, ricorrendo alla memoria della poesia cosiddetta liturgica o paraliturgica.

Ma la storia non finisce qui. Perché lo stile, la tecnica, le sonorità del chitarrista (l’ormai mitico Yehuda Keisar) non sono del tutto nuove e saranno fra i tratti più caratteristici della “musica orientale”. Ricordano, ho già detto, il neo rembetiko pop del Pireo e di Salonicco unito alla tecnica e al sound surf. In Israele ne fu inventore e pioniere un personaggio curioso, Ari San, nome contratto di Aristotiles Saisanas, greco di Kalamata (Peloponneso), ottimo orecchio, ottima musicalità, bella voce, tecnica prodigiosa al bouzouki e alla chitarra elettrica. Approda in Israele quando ha 17 anni, nel 1957, nessuno sa bene perché: chi dice seguisse un amore, chi che fuggisse da qualcosa, lui racconta di non aver voluto fare il servizio militare in Grecia. Da Haifa si sposta a Giaffa, al club Ariana, il bastione della vita notturna degli ebrei di Salonicco, e non solo. Lì dà vita al suo nuovo stile, rembetiko-surf, potrei definirlo, basato su scale modali comuni alla musica popolare greca, turca, araba. Lì Ari San arriva ai vertici del successo. Le alte gerarchie militari e politiche israeliane, tutte ashkenazite, si innamorano della sua musica. Moshe Dayan è un frequentatore fisso, Ari San riesce ad acquisire la cittadinanza israeliana in un batter d’occhio. Sigal e soprattutto Bum Pam sono i suoi pezzi più famosi.

Poi, alla vigilia di Kippur nel 1972, Ari San, approdato misteriosamente in Israele, altrettanto misteriosamente ne sparisce. Lascia tutto, amici, figli. Riapparirà poi a New York, fondatore e protagonista di un club modellato sull’Ariana di Giaffo, lo Sirocco. Vi si commercia anche in cocaina, e Ari San richiama l’attenzione dell’FBI. Finisce in galera. Riappare a Budapest, in un club gestito da un israeliano. Viene picchiato quasi a morte non si sa da chi. Ufficialmente è morto in un ospedale nella capitale magiara, ma c’è chi sostiene sia ancora vivo e abbia assunto un’altra identità.

E la muziqa mizrachìt? Parte da quella registrazione di Chànnale Hitbalbelà, prenderà il volo. Ma fin dall’inizio, di realmente legato ai ricchissimi patrimoni musicali degli ebrei dei Paesi arabi e mediterranei, ha molto poco. Lo stile di canto, prevalentemente yemenita. La tecnica vocale. Qualche scala modale. Per il resto, un miscuglio di neopop che a sua volta fonde influenze diversissime fra le quali anche qualche spruzzo della cultura tipica delle odiate elite ashkenazite. Insomma, la orgogliosa, fiera bandiera identitaria dei marocchini, degli iracheni, dei tunisini, degli yemeniti, dei persiani d’Israele, così osteggiata da radio di stato e establishment culturale ai suoi inizi, è un bel blob postmoderno. In Israele, anche quando si gioca la carta del passato, si finisce spesso per creare un curioso futuro.


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