La recensione del romanzo dello scrittore americano. Anzi, ebreo…
Il titolo è sicuramente intrigante: Kaddish.com. Ed è già da solo un programma di intenti: la preghiera ebraica universalmente identificata con il lutto e il mondo impersonale, caotico, cinico del web. Un contrasto che si addice alla personalità ambivalente e all’opera estrosa di questo autore che sa miscelare benissimo emozione e umorismo. Di Nathan Englander avevo letto, ormai molti anni fa, la raccolta di racconti che l’ha reso famoso, Per alleviare insopportabili impulsi, edita nel 1996 in Italia da Einaudi. Mi aveva colpito molto il suo stile ironico, la leggerezza e il coraggio con cui affrontava temi complessi e il patrimonio secolare della tradizione. Dato che è passato molto tempo ho solo dei flash di alcune di queste short stories: in una, Stalin mette a morte ventisette scrittori ma uno di loro è uno schnorrer capitato per caso, un treno per Auschwitz viene scambiato e gli ebrei che vi sono sopra sono presi per acrobati che devono esibirsi davanti al Fuhrer, un rabbino fa fund raising per la sua scuola religiosa travestendosi da Babbo Natale; e poi l’ultimo racconto, quello che dà il titolo al libro, un uomo che ha una moglie molto fredda e che riceve dal Rav una particolare dispensa per frequentare una prostituta. Questo mix di tradizione e modernità si riflette anche nella biografia di Englander. Nato da una famiglia ortodossa di Long Island, a diciotto anni si reca in Israele pieno di sogni e speranze ma diventa laico una settimana dopo infrangendo lo shabbat per prendere un autobus, mosso dal desiderio di visitare il paese. Deluso dalla politica e angosciato dal clima di continua ansia e tensione, torna a New York dove attualmente vive. Dopo i racconti è passato a romanzi più seri e complessi, come Di cosa parliamo quando parliamo di Anna Frank (titolo-citazione del Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Raymond Carver) dove due coppie discutono del loro rapporto con l’ebraismo e con la Shoah, Il Ministero dei casi speciali, ambientato durante la dittatura argentina e poi nel 2017 Una cena al centro della terra, un thriller politico sul conflitto Israelo-palestinese. E ora questo ultimo libro, Kaddish.com, che forse sancisce una nuova fase di maturità e consapevolezza della sua scrittura.
La trama potrebbe avere anch’essa
qualche risvolto autobiografico. Il protagonista, Larry, infatti è nato in una famiglia ortodossa di Brooklyn ma è praticamente ateo. Quando il padre muore sarebbe sua responsabilità recitare il Kaddish, la preghiera che i figli maschi devono recitare per i genitori morti per undici mesi ogni giorno. Un bell’impegno. Nonostante le insistenze della sorella, Larry non ha la minima intenzione di farlo e alla fine, messo alle strette, trova un ingegnoso escamotage,
un sito web dove si può ingaggiare un estraneo per svolgere il rituale e assicurare il giusto riposo all’anima del defunto. Ma questo è solo l’inizio di un cammino che lo porterà a misurarsi con se stesso e con i suoi valori. Lo ritroviamo dopo molti anni con un nuovo nome,
Shuli, rabbino e insegnante in una scuola religiosa; l’incontro con un allievo dodicenne che ha a sua volta perso il padre riporterà in vita il processo del lutto.
Larry ha la sensazione di aver ceduto il diritto di dire il Kaddish come Esaù ha venduto la sua primogenitura per un piatto di lenticchie e cercherà di riprendere non solo il suo ruolo legittimo di figlio ma anche la responsabilità verso la fede che la preghiera comporta. Parte quindi un’indagine rocambolesca per trovare Chelmi, la persona che ha preso il suo posto nel recitare il Kaddish, e una ricerca che lo condurrà in Israele fino a una scoperta rivelatrice.
Il tema dello sdoppiamento, i due personaggi che vivono in America e in Israele,
l’identità usurpata fanno subito pensare al
Philip Roth di
Operazione Shylock. E sarebbe facile etichettare Englander come epigone di una serie di illustri scrittori ebrei americani, da Isaac Singer a Bernard Malamud allo stesso Roth. Un’etichetta che da giovane lo ha spesso infastidito. “Quando mi guardo allo specchio non vedo un ebreo”, amava ripetere seccato ai giornalisti. “Chi legge i fratelli Karamazov non pensa che siano eroi russi”.
Insomma, ha sempre tenuto ad affermare che la sua scrittura era universale, non una narrativa necessariamente ebraica, anche se parlava di ebrei. Eppure è impossibile non avvicinare il suo nome e associare il suo profilo a quello di altri scrittori della sua generazione come
Jonathan Safran Foer, Nicole Krauss, Joshua Cohen, che forse non costituiscono un movimento strutturato ma sono anche loro
caratterizzati dal tormento della memoria e dal bisogno di fare i conti con le contraddizioni del mondo contemporaneo,
attualizzando valori ebraici o prendendone le distanze. Sono tutti autori che sentono che qualcosa manca e cercano di
ricostruire il puzzle indentitario spesso confrontandosi con l’altro, come il Safran Foer di
Ogni cosa è illuminata che sceglie la voce del ragazzo russo che lo accompagna nel viaggio verso lo sthetl della nonna per raccontare la propria storia.
Sono ebrei della diaspora, nativi americani da generazioni ma figli o nipoti di immigrati, che ora si ritrovano a essere
loro stessi “in migrazione” rispetto alla propria religione, alla propria fede e lottano con la religiosità, salvo fare ritorno alla tradizione, attribuendole magari nuovi contenuti. Safran Foer e Englander, ad esempio, hanno editato e tradotto insieme una nuova
Haggadah americana, rafforzando in chiave moderna la domanda che è al centro della narrazione:
che cosa sia adesso libertà, quali siano le proprie schiavitù interiori. Quindi liberi, moderni, ribelli verso le definizioni ghettizzanti, universali ma nello stesso tempo con il dovere inevitabile di passare il testimone da una generazione all’altra. Una volta
Englander all’uscita di un suo romanzo chiese
a Philip Roth:
“La mia pelle diventerà sempre più sottile, sarà sempre più sottile dopo ogni libro in uscita?” E
Roth rispose serafico:
“Così sottile che avvicinandola alla luce potranno vederci attraverso”.
Un’altra connotazione comune a questi scrittori è il rapporto con Israele, visto non più come un’idea astratta o un’appendice di se stessi ma come Stato con il quale bisogna confrontarsi nel bene e nel male. Safran Foer in Eccomi si chiede cosa farebbe Jakob, il protagonista del suo romanzo, se Israele venisse attaccato e corresse il rischio di sparire. Sarebbe pronto a dire “Hinneni”, “ sono qui per te”, come Abramo davanti a Dio, a combattere? E’ quella la sua vera patria? Ma mentre per Safran Foer l’ebreo americano può vivere senza Israele e trovare comunque un suo equilibrio morale da Brooklyn, per Englander la questione sembra più complessa, sentimentale. Il protagonista di Kaddish.com sente che il suo posto per ricominciare una vita autentica è proprio lì, a Gerusalemme e lascia tutto per trasferirsi. Alla fine il compromesso, il delegare ad altri la responsabilità di portare avanti la tradizione non reggono più, bisogna “esserci” davvero se non si vuole restare cloni di se stessi o comparse senza ruolo, come ha scritto Abraham Yehoshua. Una conclusione che appare spiazzante in un autore che attualmente vive a New York. Un autore che però recentemente afferma di essere deluso e spaventato dall’America odierna, piena di suprematismi e di antisemitismo, e che ammette che in fondo adesso, a cinquant’anni, l’etichetta di scrittore ebreo gli va più che bene. Che anzi, ci si riconosce con orgoglio, ne sente perfino la necessità.
Bell’articolo, sinteticamente efficace nel rendere i grossi temi dell’introspezione ebraica.
cercherò di leggere qualche testo di Englander.