Israele
Know Hope, quella espressione che a pronunciarla sembra No Hope

Il sottile confine tra speranza e disperazione nell’arte di Addam Yekutieli in mostra a Gerusalemme

Il 16 giugno ha inaugurato a Gerusalemme presso la Gordon Gallery la nuova mostra di Addam Yekutieli. Classe 1986, Yekutieli viene spesso identificato come Know Hope da quando, nel 2005, ha cominciato a lavorare per le strade di Tel Aviv scrivendo, accanto alle sue creazioni sui muri della città, l’espressione “Know Hope”. Grazie al gioco di parole in inglese – per cui, pur trattandosi di “conosci la speranza”, quando viene pronunciato può essere interpretato come “nessuna speranza” –  questa citazione ha da subito catturato l’attenzione del pubblico israeliano prima, e poi quello internazionale, rivelando il sottile confine tra speranza e disperazione, tipico di tutte le opere di Yekutieli.
Il dualismo e la simbiosi tra i molteplici significati di questa e altre citazioni continuano a caratterizzare il suo lavoro che, dopo aver conquistato le strade di Tel Aviv con la sua street art, negli ultimi anni si è fatto largo anche tra una delle più celebri gallerie israeliane: la Gordon Gallery, fondata a Tel Aviv nel 1966, che, dopo oltre cinquanta anni nella Città Bianca, nel 2021 ha aperto un nuovo spazio in una zona industriale di Gerusalemme, il Sapir Center nel quartiere Givat Shaul, destinato a diventare la nuova SOHO della Città Santa.
La storia d’amore tra Yekutieli e Gerusalemme comincia nell’ottobre 2019, in occasione del festival di arte di strada The Walls. Tra le opere dipinte sui muri di edifici abbandonati e nel quartiere di Talpiot balza subito all’occhio il lavoro realizzato dallo street artist americano-israeliano – e per un quarto giapponese – realizzato, appositamente, vicino al confine con il villaggio palestinese di Beit Safafa.

Jerusalm wall, credit This is Limbo Studio

L’opera si chiama 246 Sides to a Story e in questo lavoro Yekutieli “incorpora” l’ex mulino che durante la Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, venne messo a fuoco e fiamme, numerando ogni foro di proiettile da 1 a 246. Accanto ai fori, dipinge la parete di bianco, creando una “lavagna” su cui scrive una frase corrispondente a ciascun numero.
Come succede spesso in molti dei suoi lavori, i testi – sempre in inglese – non sono necessariamente in relazione tra di loro, ma seguono una sorta di “flusso di coscienza”.
Quest’opera, che può ancora essere ammirata nel quartiere di Talpiot, fa parte di un lungo processo che l’artista ha attraversato negli ultimi anni: dall’anonimato alla fama; dai lavori illegali a quelli su commissione.
Yekutieli è stato uno dei primi artisti di strada israeliani a compiere questa transizione, proprio grazie alla collaborazione con la Gordon Gallery di Tel Aviv, cominciata nel 2013.

Installazione – Credit Shira Aboulafia

Non è il primo tra gli street artist israeliani a entrare in gallerie o musei. Ma non tutti, quando lo fanno, rivelano la propria identità, come ha fatto lui. “Quando ero anonimo, l’80% del contenuto degli articoli su di me riguardava l’anonimato e i pezzi di strada, che rappresentano solo in modo parziale quello che faccio”.
L’opera di Gerusalemme è stata una delle ultime grandi opere di street art che Yekutieli ha realizzato negli ultimi anni, in parte a causa dei limiti fisici, spesso imposti dall’arte di strada. In parte, perché è cambiato il suo percorso artistico.
Sono anni che non dipinge più il personaggio con cui è diventato celebre come Know Hope: una figura scarna e longilinea il cui cuore si disloca e appare ogni volta in un luogo diverso. Da allora, il suo percorso artistico è continuato e si è fatto sempre più “intimo”. Negli ultimi cinque anni, per esempio, ha documentato cicatrici sui corpi di individui che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, raccogliendo testimonianze in cui vengono condivisi aneddoti che vanno dal personale al politico.

Accanto alle opere che rappresentano le cicatrici, Yekutieli ha affiancato estratti di queste testimonianze che, attraverso il suo lavoro artistico, vengono ricontestualizzate per creare nuove connessioni: “poesie accidentali”, quasi delle meditazioni sul contemporaneo. Parte di questo progetto ancora on going è oggi visibile nella solo exhibition dedicatogli a Gerusalemme, in cui, oltre all’arte plastica, spicca il testo scritto.
Sebbene sia un artista visuale, il testo è sempre stato un elemento fondamentale nelle opere di Yekutieli, noto per la sua poetica lirica. Il suo lavoro, infatti, da sempre ruota attorno alla condizione umana e alla ricerca di “unità in un mondo frammentato”. A Human Atlas in cui Yekutieli documenta le fotografie delle cicatrici degli intervistati, si propone dunque come un progetto per creare una nuova mappa della regione in cui viviamo.
Il risultato è una nuova topografia della Palestina e di Israele, che si lega a un’analogia tra confine e cicatrice.  Nelle parole dell’artista: “L’approccio è politico ma il contenuto è umano”. E al progetto hanno partecipato israeliani e palestinesi della Cisgiordania.

It Separates Me From Myself, Credit Shir Mijan

Un altro motivo costante nel suo lavoro è quello delle mappe e dei recinti. Da sempre, nei suoi lavori, Yekutieli ruota attorno a incontri interculturali, esaminando questioni come i confini, la memoria collettiva e il nesso tra il personale e il politico, che ritroviamo nuovamente in questa mostra a Gerusalemme dove, in una serie di autoritratti, l’artista riflette sulle nozioni di confine e sull’effetto che hanno su di noi, geograficamente, fisicamente e psicologicamente. Immaginando regioni contese come Gerusalemme, Hebron e Gaza, come diverse aree del suo corpo, al centro di ogni autoritratto Yekutieli propone una mappa, strappata lungo i confini, per essere poi ricucita come se si tentasse di riparare una ferita ancora aperta. In questo modo, anche i confini si espandono, irrompendo fuori dalla cornice e nello spazio intorno alla mappa. La loro rappresentazione, come un percorso a tratti casuale, ingovernabile e autonomo, solleva interrogativi su come questi spesso sembrino avere una presenza astratta nelle nostre vite, ma in realtà ci tocchino direttamente, separandoci non solo dagli altri, ma anche da noi stessi.

Gli uccelli, che da lontano ricordano le foglie, sono spesso presenti nel suo lavoro. Sono in grado di varcare ogni confine, per quanto non privi di pena, come raccontano le lacrime che cadono proprio da questi animali in We Share These Things.
Yekutieli ci racconta come le sue opere, siano esse in galleria o in strada, pur essendo diverse, condividano un’iconografia simile: “Ho fatto una separazione tra i progetti più socialmente orientati e i progetti più iconografici, quelli esposti nelle gallerie. Nella mia mente sono due processi che trattano gli stessi materiali e sono spinti dalla stessa urgenza, ma che alla fine danno vita ad opere diverse in termini di estetica ed esposizione”.

“Dal mio punto di vista – ci spiega Addam – entrambi gli spazi consentono sperimentazioni diverse e coinvolgono diversi processi creativi. La galleria consente un lavoro più pensato, ma in un certo senso più statico. In strada, l’opera diventa parte di un luogo dinamico, ma fa anche parte di un paesaggio complessivo, e io cerco sempre di integrarmi nel luogo in cui mi trovo, in cui non sono mai solo. In galleria invece – continua Addam – lo spazio a disposizione è solo mio, e questo influisce sul lavoro stesso. Negli ultimi anni sono stato più interessato a creare progetti che avessero un’intimità e al tempo stesso un dialogo tra loro. Realizzo sempre opere dall’impatto politico e sociale, ma cerco di affrontarle da un punto di vista più intimo” come possiamo osservare nell’ultima mostra inaugurata alla Galleria Gordon di Gerusalemme. A Desire Path Pushing Through a Minefield – questo il titolo della mostra – contempla, infatti, la connessione tra terra e corpo, memoria e presente, che si intrecciano mentre si tenta di comprendere il nostro ruolo all’interno del panorama geopolitico di Israele e Palestina” sottolinea Addam.

Il titolo della mostra fa riferimento anche al termine urbanistico “percorsi del desiderio”, utilizzato per descrivere percorsi pedonali non autorizzati e non pianificati, che si formano per necessità: “Percorsi intuitivi che deviano da un percorso designato” come i fiori cementificati in questa mostra.
Da un lato i fiori, ormai secchi, sono piegati, attorcigliati, e spezzati dal materiale – il cemento, stesso materiale del muro di separazione – che li racchiude.
Dall’altro, proprio per la loro forma dinamica, è come se stessero ancora cercando la loro strada attraverso le fessure, persistendo nonostante le circostanze, salvaguardando la loro fragile natura all’interno dell’ambiente brutale in cui si trovano.
Attraverso le opere di quest’ultima mostra, dunque, Yekutieli cerca non solo di capire come un individuo possa navigare e sopravvivere nel suo ambiente, ma anche di identificare dove si trovano i punti di incontro e di rottura collettivi.
Per concludere con le parole dell’artista: “In questo delicato processo, ciò che si affronta sono le cose che ci separano, ma anche, cosa ancora più imprevista, ciò che è intrinsecamente comune a tutti noi”.

L’esposizione è stata prolungata sino al 22 luglio e il sito della galleria offre la possibilità di passeggiare virtualmente tra le sue opere

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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