Cultura
La jewish side di Aretha Franklin

Dietro il successo della più grande vocalist di sempre ci furono le straordinarie intuizioni del leggendario produttore ebreo americano Jerry Wexler

Sono passati quasi due anni dalla scomparsa di Aretha Franklin (morta il 16 agosto 2018 a 76 anni, dopo una lunga lotta contro il cancro), l’indiscussa Regina del Soul, che ha attraversato da protagonista non solo la musica, ma anche la storia e il costume dell’America nera, diventando un simbolo di longevità artistica e di emancipazione femminile. Non molti conoscono, però, l’importanza del fattore ebraico per il successo della cantante, i cui inizi di carriera non furono affatto facili.

Nei primi cinque anni di contratto con la Columbia (oggi Sony), nei quali incise nove album, l’artista nata a Memphis non riuscì, nonostante l’evidente talento vocale, ad affermarsi a causa di uno stile musicale troppo confuso, che passava da raffinati standard jazz a zuccherose canzoni dei musical. L’uomo che riuscì a trasformare Aretha in una superstar fu il produttore ebreo americano Jerry Wexler, nato nel Bronx, ma di origini polacche e tedesche. Fondamentale anche nella fase iniziale della carriera di Ray Charles, Wexler era soprannominato il “re ebreo funky della musica nera” per l’amore e la profonda conoscenza che aveva della black music.

Stephen Whitfield, nel suo libro Alla ricerca della cultura ebraica americana, racconta l’empatia che Wexler provava per la lotta afroamericana per i diritti civili: “Come ebreo, non pensavo di essermi identificato con una classe inferiore, perché ero anch’io considerato allora l’underclass, il sottoproletario”. Dinamico, carismatico, sicuro di sé fino a risultare quasi arrogante, il produttore era affamato di successo e particolarmente abile nella promozione radiofonica.

Wexler era “l’uomo macchina” dell’Atlantic, che agli inizi era una piccola etichetta indipendente specializzata in r&b che apparteneva ad Ahmet e Nesuhi Ertegun, figli dell’ambasciatore turco in Usa. Wexler e i fratelli Ertegun erano accomunati dalla medesima passione per la musica black e per essere non solo proprietari dell’etichetta, ma anche i produttori degli artisti.

Negli anni Cinquanta l’Atlantic aveva ingaggiato Ray Charles, mentre negli anni Sessanta furono Solomon Burke e Wilson Pickett i suoi artisti di maggiore successo. In quel periodo il fenomeno del soul era in piena espansione, con tre etichette, la Motown, la Atlantic e la Stax, che dominavano questa nuova fetta di mercato. Mentre la Motown era specializzata nel soul più rassicurante, la Atlantic si distingueva per un soul torrenziale e ricco di groove. Una musica caratterizzata da una forte componente di improvvisazione, che aveva trovato la sua fucina nei Fame Studios di Muscle Shoals,una piccola cittadina dell’Alabama, dove alcuni brillanti musicisti bianchi del Sud stavano reinventando il blues e il soul. Wexler, da scaltro businessman newyorkese, aveva stipulato un vantaggioso patto di distribuzione con Jim Stewart della Stax, dove erano esplosi i talenti di Otis Redding e di Sam & Dave.

Nell’ambiente del soul era noto da tempo che Aretha, in scadenza di contratto con la Columbia, stava cercando una nuova etichetta e Wexler fu abile nel cogliere l’occasione. Aretha arrivò all’appuntamento negli uffici dell’Atlantic insieme al marito, senza avvocati, né agenti. La sua prima frase fu lapidaria: “Voglio hit”. Wexler le propose un anticipo di 25.000 dollari per il primo disco, aggiungendo che l’avrebbe presentata a Jim Stewart della Stax, etichetta partner che lui promuoveva e distribuiva. Una scelta singolare, ma in quel periodo la sua attenzione era rivolta alla vendita dell’Atlantic, che riteneva ormai arrivata al suo punto massimo d’espansione.

Incredibilmente, Jim Stewart rifiutò di produrre il disco perché non la riteneva adatta al sound della Stax. Un errore clamoroso che farà la fortuna di Wexler, “costretto” a diventare il suo produttore. Aretha e Ted furono contenti della soluzione: erano incuriositi dall’idea che uno dei capi dell’Atlantic sarebbe andato in studio per registrare l’album. Wexler convinse la cantante, che notoriamente non amava viaggiare in aereo, di incidere agli studi Fame di Muscle Shoals, dove era nato il successo di When a Man Loves a Woman di Percy Sledge. A Muscle Shoals avrebbe inciso un nuovo disco in un modo completamente diverso, senza spartiti, con ampio spazio lasciato all’improvvisazione dei suoi eccellenti musicisti.

Nel giro di poche ore, in uno studio in cui non aveva mai registrato prima d’allora, Aretha trovò un’incredibile sintonia con i musicisti messi a disposizione da Jerry Wexler, tutti rigorosamente bianchi: Chips Moman e Jimmy Johnson alle chitarre, Roger Hawkins alla batteria, Tommy Cogbill al basso e Spooner Oldham al piano elettrico. Ragazzi di campagna, cresciuti negli anni Cinquanta e Sessanta in Alabama, allora lo stato americano con i maggiori problemi di razzismo.

Aretha, timida e riservata, disse poche parole, ma quando si sedette al piano iniziò la magia. Quelli che erano soltanto degli accordi si trasformarono dal vivo, grazie al supporto della sessione ritmica, nel capolavoro I Never Loved a Man (The Way I Love You). Dal testo era evidente che l’uomo bugiardo e traditore a cui si riferiva era suo marito Ted White, dal quale divorziò poco dopo.

Il 45 giri arrivò immediatamente in cima alla classifica r&b e poco dopo nella top ten del pop, superando, per la prima volta nella carriera di Aretha, il milione di copie vendute. L’Atlantic era riuscita a ottenere in due settimane il risultato che alla Columbia era sfuggito per cinque anni. L’apice del suo primo album era Respect, canzone più sincopata e ricca di groove rispetto all’originale di Otis Redding. Nell’interpretazione di Aretha e grazie ai prodigiosi cori di Carolyn ed Erma, la canzone acquistò inediti significati sessuali.

Mentre il testo originale di Otis era il punto di vista di un uomo che pretendeva rispetto, nel la nuova versione la protagonista era una donna disinibita ed emancipata, che non si vergognava a esprimere le sue esigenze anche sotto le lenzuola. Quando Wexler fece ascoltare per la prima volta la canzone a Redding, il cantante, con un sorriso stampato sul volto, disse: “Questa ragazza mi ha rubato la canzone.Non è più mia. Da adesso in poi appartiene a lei” Respect entrò in classifica il 29 aprile 1967. In poco tempo raggiunse il primo posto sia nelle classifiche pop che r&b, cambiando per sempre la carriera di Aretha.

Per capire quanto la musica della Regina del Soul abbia influenzato anche la cultura ebraica,  in un libro sulle relazioni genitore-figlio pubblicato nel 2011 dalla  casa editrice Eerdmans, il rabbino Michael J. Broyde, professore di giurisprudenza alla Emory University ed ex membro della Beth Din of America, ha spiegato quanto sia stato ispirato dalla canzone Respect. Il rabbino Broyde ha concluso che il rispetto dovrebbe essere la componente essenziale della relazione genitore-figlio da un punto di vista etico ebreo, superando perfino l’amore.

Come sottolinea Rock and Roll Jewish di Michael Billig, Wexler accostò Aretha ad alcuni cantautori ebrei americani, tra cui Burt Bacharach, di cui ha interpretato magnificamente la sua I Say a Little Prayer nel 1968. Così come aveva trasformato Respect di Otis Redding in una canzone completamente diversa, Aretha ripeté la stessa operazione con I Say a Little Prayer di Burt Bacharach, portata al successo solo tre mesi prima della sua incisione da Dionne Warwick.

La cantante la registrò con un nuovo groove, supportata dalla sessione ritmica dei Muscle Shoals, e scrisse l’arrangiamento vocale per le Sweet Inspirations, in modo da rendere il brano ossessivo e tormentato. I Say a Little Prayer diventò in poco tempo una hit e rimase per tre mesi in classifica. Nel 1971 Aretha Franklin registrò Spanish Harlem, una canzone creata da tre star della musica pop ebraica, Jerry Leiber, Mike Stoller e Phil Spector, creatore del celebre “wall of sound”, da anni in prigione per omicidio.

Wexler inventò, nel corso di un brainstorming, il titolo della canzone You make me feel (Like a natural woman), affidando il compito a due cantautori ebrei, Carole King (nome d’arte di Carol Klein) e Gerry Goffin, di comporre un brano basato su quel titolo. I due l’avevano concepita originariamente come una canzone romantica, mentre Aretha la trasformò in un brano da chiesa, una vera preghiera a Dio, più che all’uomo amato, di folgorante bellezza.

La Regina del Soul ha interpretato magnificamente You make me feel (Like a natural woman) il 6 dicembre 2015, la sua ultima apparizione pubblica, come omaggio a Carole King nel corso dei prestigiosi Kennedy Center Honors, ospitati a Washington. Sono bastate poche note di pianoforte per far rimanere a bocca aperta un’artista navigata come Carole King, quasi incredula di fronte a tanta bellezza.Hanno fatto il giro del mondo, allora, le immagini di Barack Obama che, commosso dalla canzone, si asciugava una lacrima. Nel 2020 la figura della Regina del Soul sarà celebrata in due attesissimi biopic: la serie tv Genius: Aretha e il film Respect. Dopo aver celebrato Albert Einstein e Pablo Picasso, National Geographic aggiunge un nuovo capitolo alla sua serie Genius, dedicando otto episodi alla cantante di Memphis, ma cresciuta a Detroit.

Aretha sarà interpretata da Cynthia Erivo, un Tony Award e un Grammy già conquistati in carriera, oltre a una doppia candidatura agli Oscar 2020 sia come miglior attrice protagonista sia per la miglior canzone, il brano Stand Up, interpretato per il biopic Harriet. Il debutto negli Stati Uniti della serie tv diretta da Anthony Hemingway è previsto (Coronavirus permettendo) per il 25 maggio.

Jennifer Hudson, dopo aver già portato a casa un Academy Award grazie a Dreamgirls, ispirato alla storia della Supremes, sarà la protagonista del film Respect, la cui uscita è prevista per il 20 ottobre in Usa. Basato sulla sceneggiatura di Tracey Scott Wilson e diretto dalla regista Liesl Tommy, il film è stato girato fra Usa e Canada. La Hudson sarà affiancata da Forest Whitaker, Tate Donovan e Marlon Wayans. Special guest sarà Mary J. Blige nei panni di Dinah Washington, altra voce indimenticabile della storia della musica. Ci auguriamo che i due biopic rendano giustizia alla straordinaria figura di Aretha Franklin, la prima donna a far parte della Rock and Roll Hall Of Fame, la seconda per numero di Grammy Award (18) e la più grande voce femminile secondo un sondaggio di “Rolling Stone” del 2014.

Gabriele Antonucci
Collaboratore

Giornalista romano, ama la musica sopra ogni altra cosa e, in seconda battuta, scrivere. Autore di un libro su Aretha Franklin e di uno dedicato al Re del Pop, “Michael Jackson. La musica, il messaggio, l’eredità artistica”,  in cui ha coniugato le sue due passioni, collabora con Joimag da Roma


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