Cultura
La logica dell’invisibile: come nasce il Mossad – #2

Perché il Mossad è la più importante struttura civile d’intelligence: la storia, le origini e le funzioni

Se la comprensione della funzione dei Servizi di Intelligence rimanda all’analisi della natura dello Stato e delle sue amministrazione, essendone diretta espressione ed articolazione, allora non si può non considerare la storicità dello Stato nazionale, nel Novecento come nel nuovo secolo. Ossia, il suo mutare di fisionomia nel corso del tempo. Fallito il progetto socialcomunista di farlo diventare il collettore di tutte i bisogni e delle tante domande sociali, ovvero il loro filtro centralistico, e rivelatosi deficitario il modello liberistico, che ne vorrebbe a tutt’oggi ridurre al minimo le funzioni (difesa, esteri, ordine interno), rischia di rimane in piedi un soggetto ibrido, per più aspetti irrisolto. Poiché la sua sovranità è stata ripetutamente messa in discussione, ossia intaccata, dalle radicali trasformazioni socioeconomiche di questi decenni.

Forse con l’epidemia di Coronavirus, ed i suoi massicci effetti non solo sanitari ma anche economici e sociali al presente e in divenire, una riflessione sulla funzione dell’intervento pubblico in senso lato, si imporrà. A patto che non si ripetano gli schieramenti ideologici rigidamente contrapposti tra fautori del pubblico e del privato. Poiché quando questa pandemia si sarà esaurita, almeno nelle sue manifestazioni più conclamate, saranno le stesse nozioni di pubblico e privato ad avere subito significative trasformazioni. Quali e quante. ossia in che senso, verso quali direzioni, lo vedremo a tempo debito.
Non è un caso, peraltro, che il know how dell’Intelligence venga chiamato in causa su un tema strategico nelle società a sviluppo avanzato, ovvero la tracciabilità di persone e dati. Se un tempo neanche troppo lontano, quando cellulari ed internet erano ancora di là da venire, si richiedeva la rintracciabilità (ossia l’identificazione di un’unità di tempo e luogo nella quale un individuo fosse reperibile) ciò che con le tecnologie elettroniche è intervenuta è, per appunto, la tracciabilità, intesa come la successione di transiti, passaggi e, in immediato riflesso, delle transazioni, delle relazioni, dei contatti che stanno accompagnando il percorso di un soggetto. Che sia individuale ma anche collettivo.
Israele, segnatamente, è al centro dei cambiamenti legati alla globalizzazione. Vivendo la condizione paradossale di un Paese che rivendica una forte «identità» nel momento stesso in cui è attraversato dalle ondate di internazionalizzazione sistematica di tutti gli scambi.

Il concetto medesimo di «sicurezza» è oggi polisemico, dovendo essere declinato in una pluralità di significati e di accezioni. La stessa divisione, un tempo altrimenti ben più marcata, tra protezioni civile e intervento militare, con la trasformazione della nozione di «guerra» (non più strettamente legata alla sola azione bellica di unità combattenti organiche così come di miliziani ma frequentemente interconnessa ai flussi costanti di informazioni e al loro indirizzo verso la collettività), interviene nella valutazione del ruolo dell’Intelligence nelle società contemporanee, quest’ultima non assolvendo esclusivamente una funzione di natura difensiva.

A ciò che nei decenni trascorsi era conosciuto come «complesso militare ed industriale» (l’interconnessione di interessi, affari ma anche di impianti e produzioni, tra la sfera produttiva civile e quella dell’esercito, insieme al gioco degli utili e dei benefici che ne derivavano per alcuni privati, non meno che alla capacità di influenzare l’agenda politica degli Stati) si sta affiancando, integrando e in parte sostituendo un’articolazione che lega al digitale – ossia alla fruizione sistematica della numerabilità nella costruzione della realtà – la capacità di ridefinire i confini tra pubblico e privato. Soprattutto nell’identità delle persone, rispetto allo spazio e ai tempi delle loro condotte, delle loro relazioni, delle loro scelte. Una riflessione ad ampio respiro, possibilmente scevra di retoriche di circostanza, deve quindi riformulare completamente il significato del lavoro di informazione ed elaborazione dei dati per la sicurezza collettiva. Poiché è la nozione stessa di «sicurezza collettiva» a mutare dal momento che il rapporto tra tecnica e umanità sta subendo una profonda trasformazione nella società planetaria.

La nascita dell’Intelligence nell’Yishuv, l’insediamento sionistico nella Palestina ottomana e poi mandataria, è peraltro legata allo stringente stato delle necessità quotidiane. Ossia, ad uno specifico bisogno non solo difensivo ma anche conoscitivo. Il costituirsi di gruppi comunitari in un contesto arabo richiedeva la comunicazione reciproca – sia per comprendere l’evoluzione delle cose che per rispondervi adeguatamente – in una situazione che nel corso del tempo, e soprattutto dopo la fine della Prima guerra mondiale, andò facendosi sempre più problematica. Le tensioni con la popolazione non ebraica, ossia il susseguirsi delle sollevazioni arabe del 1920-21, 1929, 1936-39, furono alla radice della formazione dei gruppi armati ebraici e della loro organizzazione non solo in chiave difensiva ma anche preventiva e poi offensiva. Il confronto con l’Intelligence inglese e la competizione all’interno dei diversi gruppi ebraici operanti dopo la Prima guerra mondiale – fino al conflitto tra Haganah («la difesa»), l’Irgun (ovvero l’Irgun Tzvai Leumi, l’«Organizzazione militare nazionale») e il Lehi (Lohamei Herut Israel, i «Combattenti per la libertà d’Israele», altrimenti conosciuto come «Banda Stern») – furono parte integrante del ramificarsi di quelle che sarebbero state le future organizzazioni di spionaggio e controspionaggio israeliane. Oltre ad un addestramento sul campo, in quegli anni cruciali, durati dal 1920 al 1948, si definì uno stile di intendere l’attività di Intelligence che poi avrebbe caratterizzato l’intera Comunità dei servizi nazionali.

Il primo elemento di tale approccio peculiare era quello antropico: il confrontarsi con il fattore umano, in tutte le sue sfaccettature, era ritenuto un dato essenziale, imprescindibile. L’attività di ricognizione, raccolta dati, rielaborazione e, infine, risposta operativa non poteva basarsi infatti su un modello astratto di società, dovendone semmai identificare i mutamenti che di essa ne erano (e rimangono) parte. Se ciò poteva valere nelle relazioni con le controparti – quella araba e quella inglese – era tanto più rilevante per l’identificazione e la selezione dei propri membri operativi, all’interno di una comunità nazionale ebraica che andava ancora definendo i suoi caratteri di fondo. Così come in essa difettava un’esperienza di statualità politica, persa due millenni prima, al pari non esisteva ancora un prototipo di “israeliano” al quale rifarsi per stabilire quali dovessero essere le virtù e i caratteri sui quali esercitare la selezione dei propri quadri.

Tutto si svolse quindi in maniera piuttosto sommaria ed empirica, confrontandosi anche con le differenze e le competizioni legate ai diversi gruppi di distinta origine territoriale che confluivano nell’Yishuv. Gli ebraismi, in buona sostanza, non coincidevano. Una funzione accessoria dei nascenti Servizi, quindi, era il contribuire a stabilire un rapporto continuativo tra alfabetizzazione politica, cittadinanza comunitaria ebraica, dimestichezza nel ricorso alle armi e controllo del territorio come base della futura costituzione di un unico sistema di enti di informazione.

Un secondo elemento fu da subito l’intensa discussione sul ricorso alla violenza all’interno dei gruppi militanti ebraici, almeno fino alla nascita dello Stato d’Israele, quando fu poi sottratto ai conciliaboli politici contrapposti e ai gruppi “partigiani”. Furono allora sia il tema della gestione delle attività di intelligenza che la sua riconduzione ad un’unica autorità, nel 1948, ad aprire un nuovo orizzonte, fortemente caratterizzato dall’impronta di David Ben Gurion. Il quale riteneva che essi dovessero costituire non solo uno strumento di consolidamento dello Stato ebraico ma anche una cornice entro la quale indirizzare l’azione delle istituzioni pubbliche. Al riguardo, c’è chi ha parlato – denunciando una tentazione di monopolio da parte della più importante figura politica di quegli anni – della creazione di un «Deep State», uno Stato profondo, parallelo a quello ufficiale, visibile, dove alla diplomazia si sarebbe sostituita la sistematica propensione agli atti di forza. Senz’altro per Ben Gurion era essenziale non solo confrontarsi con il mondo arabo (nella convinzione che fosse capace di intendere solo i dati di fatto) ma anche evitare che alla guida del giovane Stato non ascendessero né il Maki (i «comunisti») né l’Herut (i «fascisti»).

L’una e l’altra cosa riuscirono, ancorché a modo loro. A lungo il capo del governo mantenne le agenzie di sicurezza sotto il suo controllo. Era nei fatti  una rilevante concentrazione di potere. Non a caso la formalizzazione dell’esistenza del Mossad, il più noto dei Servizi, avvenne solo negli anni Sessanta, benché fosse oramai per molti il segreto di Pulcinella. Sta di fatto che nei quindici anni tra la loro organizzazione e il successivo riconoscimento pubblico, si generasse un vuoto giuridico, uno spazio di discrezionalità rispetto ad obiettivi, ruoli, missioni, poteri e budget, nonché nelle relazioni competitive tra di essi. Non  a caso, la più grande critica, ripetuta nel corso del tempo, per arrivare fino ad oggi, è la sottrazione di una parte delle loro procedure ad una verifica penale, ossia da parte di uno dei tre poteri dello Stato, quello giurisdizionale. Più volte, anche in anni a noi molto vicini, è stata messa in discussione la pratica delle uccisioni mirate. Oltre che per una valutazione di ordine morale, molti critici hanno messo in rilievo che sia contraddittorio che uno Stato di diritto, che tra l’altro rifiuta la pena di morte, permetta implicitamente la possibilità di procedere ad eventuali esecuzioni extragiudiziali.

La risposta, ripetuta nel corso del tempo, è che qualsiasi cosa diversa dalla completa segretezza rispetto a certi capitoli del tema della «difesa» nazionale in un ambiente regionale ostile, potesse portare a situazioni che avrebbero minacciato l’esistenza stessa di Israele. Comunque ad un suo indebolimento. A tale riguardo, più che la sola discussione giuridica o il conflitto politico, importa il soffermarsi a riflettere sulla concezione della nozione stessa di «emergenza» nazionale e il suo mantenersi, così come il suo mutare, dal 1948 ad oggi. Poiché intorno ad essa, e al suo tradursi concreto in azione, si sono verificate molte faglie di divisione nella discussione pubblica, di cui la Comunità delle agenzie di Intelligence è stata spesso protagonista o comunque partecipe, senza per questo rivelare la propria identità. Il fatto stesso che nel curriculum di una parte non secondaria del ceto politico l’avere preso parte ad un periodo di training presso le Agenzie sia un fattore di accreditamento dinanzi agli elettori, che leggono in ciò un riscontro dell’attenzione e della sensibilità per il problema della sicurezza, testimonia di questa condizione. Non va tuttavia confuso con un fenomeno parallelo ma ben distinto, ossia l’ingresso dei generali, una volta terminato il servizio attivo (in età sufficientemente giovane, per impedire che consolidino un’eccessiva discrezionalità personale nei confronti dei comandi militari), nella leadership politica. Poiché questi ultimi vengono selezionati per i vertici delle Forze armate, proprio in virtù anche della successiva spendibilità in altre amministrazioni pubbliche, a partire dal governo medesimo. Il tema del rapporto tra livello civile e mondo militare in Israele è d’altro canto una questione strategica, che caratterizza da sempre la peculiarità dell’esperienza del Paese, essendo uno dei punti più importanti per la generazione (e la riformulazione) dell’identità di cittadinanza.

Un terzo aspetto, fu la costruzione di una visione unitaria del mondo arabo da parte del movimento sionista palestinese, fruibile dentro le successive azioni di intelligence. Si tratta di un tema fondamentale, che non può essere svolto in maniera adeguata in queste righe. Ma è il punto di incontro tra culture dell’emergenza (identificazione e risposta alla minaccia incombente) e visione della “normalità” (pratiche della cooperazione e della condivisione) non solo con le società circostanti ma anche all’interno della propria comunità nazionale. In questo ambito di sutura si situa lo spazio reale del lavoro di Intelligence, ossia la sua legittimazione sociale e politica. Il tutto rimanda a quegli indirizzi di sviluppo del dibattito pubblico, in termini di culture politiche di lunga durata, che incorporano in sé il discorso sul rapporto tra minacce, sicurezza e poteri pubblici. La definizione del «nemico», come anche dei potenziali alleati, è strategica rispetto all’identità israeliana.

Un quarto ed ultimo fattore, in sé non meno fondamentale, è la trasposizione della complessa prassi dell’interpretazione dei Testi biblici e della tradizione nell’azione dei Servizi di informazione e sicurezza. L’Intelligence si è sviluppata in Israele grazie anche a questa diffusa propensione, quasi un calco culturale diffuso, comune in non pochi ambienti, in sostanza una prassi quotidiana che si è trasfusa nella generazione del sistema di Intelligence. Se si vuole trovare un qualche parallelo con il grande “interlocutore antagonista” del sionismo, la Gran Bretagna, può essere utile riflettere sul fatto che negli anni Quaranta il reclutamento nei servizi inglesi privilegiò gli analisti, i ricercatori e gli studiosi che lavoravano, o si trovavano ad operare nelle università inglesi. Con un distinguo sociale non da poco: mentre nel Regno Unito ciò portò, per forza di cose, a lavorare con soggetti che appartenevano a classi sociali benestanti (presenti in grande numero nell’accademia), nel caso sionista e poi israeliano per lungo tempo la selezione fu fatta non necessariamente in ambienti religiosi (che pure una qualche parte ebbero nella formazione dei quadri) ma comunque in contesti dove il rapporto tra lavoro sul territorio e attività di riflessione intellettuale era considerato imprescindibile per la propria identità militante e di cittadinanza. La diplomazia, sionista e poi israeliana, a lungo sfuggì invece ad una tale logica, scontando anche una discreta emarginazione, non solo per gli eventuali calcoli di interesse da parte di David Ben Gurion.

All’interno di questa intelaiatura non solo operativa ma anche e soprattutto culturale, si possono quindi distinguere diversi passaggi, con una loro specifica cadenza cronologica, che meglio aiutano a capire le stagioni nella storia della Comunità dell’Intelligence israeliana. Il primo di essi è quello che va dal 1947 al 1949, durante la lotta per l’indipendenza politica, caratterizzata dal passaggio dalla guerra civile, tra ebrei ed arabi, alla guerra d’Indipendenza. Rientrano in questo quadro l’azione per unificare il territorio dello Stato d’Israele e la risposta alla reazione dei paesi arabi circostanti. Così come le tensioni all’interno delle forze paramilitari sioniste, a volte in secca contrapposizione tra di loro, e il passaggio all’unificazione nel costituendo esercito nazionale, le Forze di difesa israeliane (Idf). Si transitò allora da quelli che erano conosciuti come «plotoni arabi» (incaricati di raccogliere informazioni sugli avversari) alla ramificazione di un primo servizio di Intelligence territoriale.  Le questioni della scarsità di risorse economiche e della scelta delle priorità fu da subito una questione fondamentale. Prosaicamente, dinanzi alla pluralità di funzioni da assolvere (difesa, offesa, accoglienza degli immigrati-rifugiati, prima ricerca dei criminali nazisti, coordinamento delle attività tra la madrepatria e l’estero e così via) si dovette scegliere cosa privilegiare e cosa lasciare eventualmente a tempi successivi. La connessione tra spionaggio e disinformazione nelle fila dell’avversario fu quindi da subito un tema fondamentale: non potendo contare su un apparato in grado di contrastare direttamente tutte le minacce, necessitava disorientare il nemico. Peraltro, fino alla primavera del 1948, ad assorbire la nascente Intelligence israeliana – attraverso il «Mossad LeAliya Bet» (da tradursi, ancorché in forma non letterale, come l’«Istituto per l’immigrazione clandestina»), proto-struttura clandestina del futuro ente di coordinamento comunemente e universalmente conosciuto come Mossad – fu la questione dei salvataggio degli ebrei europei. La vicenda dell’«Aliyah Beth-Bricha», l’immigrazione clandestina ebraica nella Palestina inglese, fu comunque strategica per il suo rilievo nella ramificazione di una rete di rapporti segreti tra Europa e Medio Oriente, che sarebbe poi risultata fondamentale negli anni successivi a dopo il 1948.

Già nel 1940, peraltro, era nato lo «Shai», acronimo di «Sherut Yediot», il «Servizio di informazione», dell’Haganah, che avrebbe preceduto l’Aman. Durante la Seconda guerra mondiale tra la potenza mandataria e il gruppo dirigente dell’Yishuv erano intercorsi rapporti di scambio, laddove mentre la prima forniva armi, addestramento e finanziamenti (con estrema parsimonia e prudenza) il secondo, come contropartita, garantiva personale operativo, in grado di muoversi tra la popolazione araba (parlandone la lingua, cosa che difettava tra i britannici). Ad occuparsi per parte inglese della gestione delle relazioni era stato l’MI4 (il dipartimento della direzione britannica dell’Intelligence militare, ossia la quarta sezione, parte dell’Ufficio di guerra), ricorrendo ai veterani dei «Posh-Plugot HaSadet»(«Compagnie di campo»). Queste ultime erano milizie dell’Haganah che avevano già operato durante la grande rivolta araba del 1936-1939. Selezionati da Yitzhak Sadeh, comandante della polizia ebraica degli insediamenti, i Posh avevano raggiunto la consistenza di 1.500 elementi, divisi in tredici gruppi operativi distrettuali. Sciolti nel 1939, per essere poi integrati nell’«Hish-Heil HaSadet» («Unità di campo»), durante la guerra furono utilizzati con funzione di commando. Lo Shai, in seguito, con un personale a ranghi ridottissimi, si dedicò allo spionaggio tra le file delle autorità mandatarie britanniche, alla propaganda, alla lotta contro le milizie arabe, alla protezione delle attività produttive ebraiche fino al contrabbando di armi.

Il secondo passaggio si consumò tra il 1949 e il 1951, dall’anno degli accordi armistiziali di Cipro in poi. È in questa fase che, procedendo ad una riorganizzazione delle piccole (ed artigianali) strutture preesistenti, si definirono i modelli di implementazione del servizio di informazione e sicurezza, i primi conflitti interni alla struttura nel merito della sua operatività e dei suoi obiettivi, gli iniziali rapporti con i servizi stranieri e l’articolazione delle sezioni operative tra Mediterraneo ed Europa nonché la dialettica politica ed organizzativa tra le nuove amministrazioni del giovane Stato e la sua incidenza sui servizi di intelligence. I soggetti politici concorrenti erano il ministero degli Esteri, il ministero della Difesa, la presidenza del Consiglio dei Ministri e l’esercito. Data al dicembre del 1949 la nascita, e al 1951 la formalizzazione dell’istituzione, di HaMossad LeTeum («Istituto per il coordinamento»), poi HaMossad LeModi’in U’Letafkidim Meyohadim («Istituto per lo spionaggio e compiti speciali») dal 1963. Per definizione, il Mossad è la struttura civile d’intelligence più importante. Quanto meno, quella meglio conosciuta. Al netto delle molteplici funzioni assolte dai servizi militari, spettano all’«Istituto» tutte le attività relative all’identificazione, prevenzione ed eventuale repressione di quelle attività, clandestine e non, che possano compromettere la sicurezza dello Stato e della società israeliana. Così come la cura di una immagine di sé, resa nel corso del tempo quasi parte di una sorta di espressione della cultura pop, che rimanda all’astuzia, alla determinazione, alla forza, alla vendicatività.  Poiché del Mossad sono  state offerte molte raffigurazioni, perlopiù estremamente competitive nel mercato dell’immaginazione. In quanto fare azione di Intelligence vuole anche dire coniugare, in un gioco continuo di rimandi, realtà a finzione, commissione ad omissione, rifiuto e identificazione.

Un mandato così ampio implicava già in sé le condizioni di una sostanziale competizione con gli altri organismi della sicurezza, in un Paese dove questa è da sempre parte integrante delle culture politiche di base. In tutta plausibilità, al netto delle dichiarazioni per le quali il Mossad doveva svolgere per l’appunto «attività di coordinamento» delle diverse branche dell’amministrazione della sicurezza (ossia dello stesso Aman, per evitare che assumesse una veste troppo autonoma dai poteri civili; lo Shabak-Shin Bet e il «dipartimento politico» del ministero degli Esteri), la sua nascita e il suo sviluppo si inscrivono dentro il disegno di rafforzare, nei fatti, l’ambito discrezionale e decisionale del capo del governo. Non fu un caso, infatti, se esso fosse posto da subito – in quanto sua emanazione amministrativa – alle dipendenze del Premier. La sua successiva articolazione in dipartimenti (per la raccolta di informazioni e le azioni di spionaggio; di azione politica e di scambio diplomatico; per le operazioni speciali, di natura paramilitare; per le analisi e le ricerche; per lo sviluppo e l’avanzamento tecnologico, insieme ad altre unità operative non censite, poiché rispondenti ad un ulteriore livello di riservatezza) ha meglio dato corpo non solo ad una struttura di servizio a sé ma ad un vero e proprio circuito di competenze e di soggetti in grado di condizionare aspetti significativi delle scelte politiche israeliane. Di ciò, tuttavia, avremo ancora modo di parlare più avanti.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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