Il paradosso di una città contemporaneamente divina e umana
Sebbene quattro siano le città che, secondo la tradizione ebraica, godono di uno speciale legame con la qedushà ossia la santità – Gerusalemme, Chevron/Hebron, Sfat/Safed e Tiberiade – quella davvero unica, la città santa per antonomasia, chiamata dalle Scritture e dalla liturgia sinagogale ‘ir ha-qodesh, la “città del Santo”, è Gerusalemme o Yerushalaim in ebraico, dall’etimologia incerta ma popolarmente interpretata come ‘città della pace’ o ‘fondazione integra’, cui fanno eco numerosi salmi in quanto inni celebrativi di Sion. Il mito di Gerusalemme entra nella storia ebraica poco più di tremila anni fa, con la conquista militare da parte di Davide, che era stato proclamato re dal profeta e ultimo giudice di Israele Samuele (cfr. 2 Sam 5-6). Con il figlio di Davide e suo successore, Salomone, viene edificato un tempio destinato a diventare la gloria e il motore della vita sociale, religiosa, politica ed economica della tribù di Giuda. Biblicamente a questa città è connesso il ricordo di Abramo, che vi incontrò il ‘re di giustizia’ Melkhitzedeq e che qui avrebbe portato e legato Itzchaq per il sacrificio; qui tornò da Babilonia nel VI secolo il sacerdote e scriba Ezra per leggere pubblicamente la Torà, rinnovare l’alleanza con il Dio di Israele e ricostruire il secondo tempio.
Non stupisce che l’autocoscienza religiosa di Israele coincida con l’esaltazione di questa città. La storia del sionismo tra XIX e XX secolo, fino ad oggi, ne è la riprova, e già solo questo fatto costituisce storicamente e teologicamente un unicum, che dà a pensare.
Nel trattato della Mishnah Kelim I,6-9 si descrive la santità del mondo intero attraverso dieci cerchi concentrici: al centro v’è la terra di Israele, e via via concentrate in essa vi sono Gerusalemme, le recinzioni del tempio, le aree del santuario e del santo dei santi… Le mappe medievali riflettevano questa concezione geo-spirituale del mondo, mettendo Gerusalemme al punto di convergenza e diramazione dei tre continenti allora conosciuti: Asia, Europa e Africa. Nel midrash Tanchumah leggiamo: “La terra di Israele è posta al centro del mondo e Gerusalemme è al centro della terra di Israele. Il tempio poi sta al centro di Gerusalemme. È qui che la creazione [del mondo] ha avuto il suo inizio. Gerusalemme è l’ombelico della terra, è destinata a diventare la metropoli di tutte le nazioni, che saranno chiamate ‘figlie di Gerusalemme’… Se qualcuno ti dovesse dire che gli ebrei della diapsora si raduneranno a Gerusalemme e questa non sarà ricostruita, non credergli”.
Nondimeno e in modo paradossale, questa prospettiva ebraica sulla città resta a un tempo israelo-centrica e aperta alle nazioni, materiale e metafisica, storica ed escatologica. Per il mondo ebraico religioso questa narrativa (aggadà) sulla sacralità di Gerusalemme si traduce in norme precise e vincolanti, in una condotta di vita (halakhà) tesa a tutelare la bellezza e la purezza di questa città le cui mura, oltre a proteggerla militarmente, la difendono simbolicamente come un ‘eruv, un confine sacro – un limes – delimitando giuridicamente, halakhicamente appunto, ciò che è permesso fare al suo interno o cosa è proibito, cosa è conforme alla sua santità e cosa la contamina e la deturpa. Nella città, ad esempio, non possono esservi cimiteri e sepolture (ad eccezione di quelle regali e delle tombe di alcuni profeti), e persino i cortei funebri sono halakhicamente proibiti. Come ricorda lo storico Ariel Toaff, “In essa non possono essere allevati animali da cortile come galline e oche, oltre agli ovini e ai bovini (e naturalmente ai maiali che sono proibiti con grande severità). Gerusalemme deve rimanere una città senza pollai, stalle e porcili, affinché le sue strade, luogo di incontro di pellegrini e religiosi, rimangano sempre pulite e accoglienti e non siano trasformate in fetidi tratturi, percorsi a ogni ora dalle mandrie e dalle greggi. L’halakhà vieta poi di coltivare ortaggi in città, per evitare il cattivo odor dei concimi… e proibisce che vi si installino fornaci, perché con il loro fumo potrebbero annerire il candore della case e danneggiare la salute degli abitanti” (da “Gerusalemme nell’halakhà”, 1990).
Tali alti standard ambientali veicolano la fede ebraica nel valore sacrale di questa città, e il connesso bisogno di proteggerla, anche a scapito della sua vita economica, come se politica ed economia dovessero piegarsi alle esigenze della qedushà. Tuttavia, apice dei paradossi, cercherete invano nella tradizione rabbinica un mito di fondazione di Gerusalemme o una festa per la sua conquista, un po’ come nell’antica religione romana esisteva un dies natalis Romae. Come se la guerra che guadagnò a Israele la sua capitale non fosse affatto rilevante da un punto di vista religioso. Come spiega Yeshayahu Leibowitz: “La guerra di Giosuè per la conquista, che trasformò la terra di Canaan in terra d’Israele per generazioni dando inizio alla storia del popolo d’Israele, fu una guerra prescritta e combattuta per ordine del Signore (…) che Israele non cambattè per impulso nazionale o per propri interessi (…) Ora, ciò che è più sorprendente in assoluto è che proprio questa guerra prescritta – la più grande e la più importante nella storia di Israele, e che fu combattuta in accordo con la Torà e per ordine divino – non sia stata ricordata tra le feste di Israele, e che nel calendario ebraico questo evento non abbia ricevuto per sé un giorno specifico dotato di santità… Lo stesso avvenne per la conquista di Gerusalemme da parte del re Davide, avvenimento che trasformò la città gebusea in Gerusalemme, capitale del regno [ebraico] per generazioni e per la quale fu stabilito, secondo l’ordine del re Davide, che divenisse il luogo scelto in cui costruire il tempio, casa eterna; anche per questo importante e significativo avvenimento non vi è nessun ricordo nella tradizione di Israele” (da: “Le feste ebraiche e il loro significato”).
Dal 1968, è vero, esiste nel calendario civile israeliano lo Yom Yerushalaim (il 28 del mese di Iyar) voluto dalla Knesset per celebrare l’unificazione della città durante la guerra dei sei giorni e il suo status politico di ‘capitale unica e indivisibile dello stato di Israele’; ma tale giorno, per quanto sia segnalato in ogni lunario ebraico, resta una festa civile e non religiosa, parte di quella civil religion che ogni società moderna possiede. È più l’affermazione di un fatto politico che la celebrazione della santità di questa città. Per quanto santa, essa appartiene a un ordine urbano alle cui origini, non va dimenticato, la Torà pone l’intoccabile Caino, chiamato appunto ‘fondatore di città’ (cfr. Bereshit/Gn 4,17).
La sacralità della città di Gerusalemme è dunque paradossale, perché se da un lato deriva per fede dalla Presenza divina, che ha eletto questo luogo a sede della Shekhinah, omphalos del mondo, dall’altro lato Gerusalemme resta una città di comuni peccatori, che sparlano gli uni contro gli gli altri (secondo una pagina del Talmud) o che non mandano i figli a studiare (secondo un’altra pagina del Talmud) meritando, perciò, la punizione come ogni altro luogo di peccatori. Proprio la questione dello studio è, nella prospettiva ebraica, un momento qualificante al fine di poter dire se una città (o una terra) sia o no ebraicamente santa. Adottando la distinzione elaborata da Emmanuel Levinas, si può dunque dire che la sacralità è intrinseca, ma la santità è derivata e acquisita; in un certo senso, è condizionale, dipende da noi. Niente esplicita l’idea meglio della pagina del Talmud Yerushalmi, trattato Chaghigà, là dove leggiamo che i leader del giudaismo della fine del II secolo mandarono due emissari in una certa città ebraica; costoro, varcate le mura, chiesero di potersi incontrare con i neturei karta, ossia i guardiani della città. Al che vennero introdotte delle guardie armate… ma i cittadini si sentirono dire che costoro non erano ‘i guardiani’ ma i ‘distruttori’ della città; chiesero allora chi fossero questi ‘guardiani’ ed ebbero come risposta: ‘gli studiosi e i maestri, questi sono i guardiani di una città’, secondo l’espressione rabbinicamente interpretata del salmo 127,1: “Se il Signore non collabora alla vigilanza di una città, invano veglia il guardiano”.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma
Articolo molto interessante