Hebraica
“La via delle api”, il libro che fa del lettore un impollinatore del significato

Viaggio nel volume di Haim Ben-Abraham, da poco pubblicato da Giuntina. Per scoprire che la dolcezza del miele ha a che fare con le parole. Da leggere e interpretare

La raccolta di midrashim sul libro del Deuteronomio Devarim Rabbà esordisce commentando le prime parole del quinto libro della Torà, elle hadevarim, “queste sono le parole”. Sono le parole che introducono gli ultimi discorsi pronunciati da Mosè al popolo prima dell’ingresso di questo secondo nella terra della promessa, parole che per la tradizione rabbinica ripetono quanto già sappiamo dalla lettura dei libri precedenti di Esodo, Levitico e Numeri. Il midrash suggerisce però di vocalizzare e dunque leggere diversamente l’incipit: non devarim bensì dvorim, non parole ma api. “Queste sono le api” dunque, grazie alle quali è possibile ripetere ancora e ancora la Torà. Cioè rileggerla. Cioè interpretarla.

Pochi libri condividono il fascino della Via delle api. Lettura, scrittura, midrash di Haim Ben-Abraham (Giuntina), da pochi giorni in libreria, innanzitutto grazie all’architettura splendida con cui è costruito. Il libro è infatti un percorso attraverso i percorsi dell’interpretazione ebraica che si interroga sulle regole del midrash non nella teoria ma per mezzo di una serie di passi attinti al grande fiume della tradizione. La pluralità delle vie di chi interroga i testi e così facendo si interroga, si mette in gioco e in discussione, è resa graficamente da una impaginazione estremamente originale. Pur essendo pubblicato in volume non di grande formato (nella collana storica della casa editrice, “Schulim Vogelmann”), troviamo parti di testo in corsivo con citazioni dalla Torà o più spesso dal Talmud e dal midrash contornate da testo in corpo minore che si sofferma sulle espressioni più significative, ne rintraccia l’origine e ne sviluppa il potenziale semantico; ma troviamo anche il testo principale che si snoda attraverso le citazioni e il commento alle citazioni, conducendo il lettore, come un volo d’ape, da un fiore all’altro; e poi note che non sono note (non hanno d’altronde numerazione), intese a spalancare nuovi scenari approfondendo questioni appena accennate nel testo principale; infine un dialogo che riprende i temi fondamentali, chiude alcuni dei discorsi aperti e ne apre di nuovi che rimangono da esplorare. La scelta di un libro composto, anche nell’impaginazione, di segmenti diversi, comporta il rischio di offrire al lettore uno spezzatino slegato di componenti eterogenee. Il risultato è invece tutt’altro. Ben-Abraham è infatti abile a dosare gli ingredienti creando una ricetta in cui i diversi sapori risaltano in piena armonia.

Il filo principale che seguiamo pagina dopo pagina è quello del midrash, una parola che troviamo già nella Torà soprattutto ma non solo in declinazioni altre derivate dalla medesima radice. Per esempio nel libro di Bereshit/Genesi, quando Rebecca incinta dei due gemelli Esaù e Giacobbe sente che i figli si muovono (o lottano, come interpreta il midrash Bereshit Rabbà) nel suo ventre e va a interrogare il Signore. Interrogare è in ebraico lidrosh, la stessa radice da cui proviene il termine midrash. Che cosa fa Rebecca rivolta a Dio, se non interrogare, richiedere con forza, esigere una risposta? Rebecca non si arrende ai dolori delle doglie riconoscendoli come naturali, ma esige una spiegazione. Come i greci si rivolgevano a oracoli per ottenere una risposta dal dio, così Rebecca si rivolge al proprio. L’accento è tutto sulla domanda, non sulla risposta. Interrogare il Dio di Israele attraverso la divinazione analoga a quelle diffuse in Grecia, in Mesopotamia e altrove non è una prospettiva sconosciuta al Tanakh. Dal periodo persiano in avanti, quello che comincia dal punto di vista dei testi biblici con Ezra, l’interrogazione (midrash) di Dio per avere una spiegazione comincia a trasformarsi, assumendo il significato nuovo di interpretare. L’evoluzione dell’interrogazione in interpretazione segue il processo plurisecolare di composizione e infine fissazione del canone biblico, come mostra la ricerca più recente (per esempio l’ottimo Shaye J.D. Cohen, Dai Maccabei alla Mishnah, Paideia).

Fissare un elenco di testi che vanno conservati e ai quali si riconosce autorità o addirittura ispirazione divina porta alla certezza del testo, che alla conclusione di questo lungo percorso diviene qualcosa di immodificabile, Scrittura. La fissazione di rotoli considerati di ispirazione divina esclude testi meno diffusi e importanti della tradizione, separa nettamente un dentro da un fuori che viene abbandonato e perso (parti significative della letteratura ebraica del periodo ellenistico vengono conservate dai padri della Chiesa cristiani, che le utilizzeranno per i propri scopi). Avere un testo unico di riferimento comporta la cessazione di riscritture bibliche (come quelle fatte da Filone e Giuseppe Flavio), traduzioni libere in volgare aramaico (i cosiddetti targumim) e anche traduzioni relativamente fedeli in greco (a partire dalla prima, la cosiddetta Settanta). Allo stesso tempo, se il testo certo è uno ed è intraducibile, va interpretato. Questo è quello che fa la civiltà rabbinica prima nella Mishnà e nella Toseftà, poi nel Talmud nelle due redazioni palestinese e babilonese. E naturalmente nel midrash extratalmudico. Prima del riconoscimento di un certo numero di libri come autorevoli lo stesso atteggiamento interpretante non era pensabile. L’interpretazione è conseguenza della fissazione del testo.

Il midrash è perciò il prodotto forse più straordinario che la civiltà rabbinica di età tardoantica ha lasciato. Non semplice genere letterario – pur essendo anche questo – è un modo di pensare e di leggere la Torà non come una serie di storie da cui trarre insegnamenti edificanti e nemmeno come codice da eseguire alla lettera, come vorranno i caraiti. Al contrario, è un atteggiamento di lettura che intende il testo “come un repositorio di segni, indizi, che devono essere non colti nella loro immediatezza ma interpretati, ossia riportati al loro naturale stato di parola viva, di discorso”. Ogni lettera della Torà – e addirittura ogni accento e ogni spirito, stando a un midrash che proietta Mosè nella scuola di rabbi Akiva – costituisce un punto di partenza, non un punto di arrivo. Un appiglio al quale il lettore-interprete si aggrappa non per afferrare il vero, unico, definitivo significato ma per centuplicare i percorsi del significato. È quella pratica del testo che David Banon in un libro affascinante ha chiamato lettura infinita (La lettura infinita. Il midrash e le vie dell’interpretazione nella tradizione ebraica, Jaca Book). Se ogni componente anche minima della Torà rimane disponibile a una lettura per definizione inesauribile, questo non significa che ogni lettura possibile sia riconducibile al midrash. Fare midrash, infatti, comporta ieri come oggi la disponibilità a calarsi completamente all’interno della tradizione rabbinica, allo stesso tempo però creando qualcosa di nuovo. Meglio ancora, creando tanto più qualcosa di nuovo quanto più ci si immerge nel flusso mobile della tradizione.

Le api diventano così simbolo dei lettori che si spostano di parola in parola, di frase in frase, di fiore in fiore senza esaurire ciò che quelle parole e quei fiori hanno da offrire. Ma il compito dell’ape e del lettore-interprete non finisce qui, è molto più importante e addirittura decisivo. Il lettore, come l’ape, nel suo percorso impollina, feconda il testo, trasferendo e mescolando ciò che è più prezioso, il significato. In assenza di lettori un testo perde la possibilità di esprimere significato, è come il manufatto di una civiltà scomparsa esposto in un museo, un oggetto magari splendido ma intraducibile, inerte, non vivo. Sono le api a fare di un testo un Testo, a rendere parole scritte oltre (anche molto oltre) duemila anni fa da persone con esigenze, idee e visioni del mondo completamente differenti da quelle di chiunque viva oggi non oggetti da museo ma fiori pronti a essere fecondati e a dare miele. Non è forse vero che è uso di alcuni insegnanti ebrei intingere le lettere nel miele e farle leccare al bambino che comincia a studiare?

Haim Ben-Abraham, La via delle api. Lettura, scrittura, midrash, Giuntina, pp. 190, 18 euro

 

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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