Hebraica Nizozot/Scintille
Se la letteratura testimoniale è il nuovo corpus midrashico

La lettura della Shoah proposta da rav Greenberg e la memoria come paradigma universale

Le tragedie più recenti scacciano dalla memoria quelle più lontane, recita un proverbio ebraico. Che la Shoah abbia relegato in secondo piano molte altre storie terribili di pogroms (quelli d’inizio Novecento in Russia, ad esempio) o di conversioni forzate o di ‘cacciate’ non meno violente, è però un fatto spiegabile in forza non solo del suo esserci cronologicamente vicina ma anche, e soprattutto, della sua magnitudo e delle specifiche condizioni nonché delle peculiari modalità che ne hanno determinato storicamente il sorgere, gli sviluppi e gli esiti esiziali. Indicatore di tutto ciò è la scelta compiuta da quasi tutto il mondo ebraico, con una vistosa eccezione nel mondo anglosassone, di designarla appunto con il termine ebraico shoah, che significa devastazione, rovina, catastrofe (the holocaust, termine biblico per un tipo di sacrificio offerto nel Tempio, ha comunque perso in inglese il suo significato originario). Non solo, ma la totale negatività del termine è stata corretta, sin dall’istituzione di uno yom ha-Shoah in Israele, con l’aggiunta di una memoria della ghevurà, dell’eroismo ebraico inteso come la reazione e l’insieme degli atti di resistenza ebraica alla persecuzione nazi-fascista, a dispetto della netta superiorità dei persecutori in ambito militare, politico, propagandistico, ecc.
Anche nel momento più buio e di maggior impotenza, gli ebrei vittime del fascismo e del nazismo hanno tentato di difendere e salvare se stessi e i valori della vita, della libertà, della dignità: la ghevurà è essenzialmente questo tentativo, andato per lo più frustrato per mancanza di mezzi e di solidarietà da parte del mondo non ebraico. Per quanto tutto ciò possa apparire retorico, l’accostamento di shoah e ghevurà è già uno schema interpretativo, è già una lettura storiografica che cerca di connettere e dare un senso a eventi storici complessi, percepiti sia dai loro attori più o meno protagonisti sia dai testimoni e dagli studiosi – più o meno coinvolti emotivamebte in quei fatti – come “eventi senza precedenti nella storia”. Non “unici” (tutti gli eventi storici sono, in qualche modo, unici) ma “senza precedenti” e dunque di difficile comprensione, almeno se per comprensione intendiamo un render conto coerente, razionale e/o teleologico dei fatti stessi.

Se ciò corrisponde al vero, oggettivo e soggettivo, non sorprende che la Shoah sia diventata, oltre che tema di indagine storica (nel senso più vasto del termine), anche oggetto di riflessione meta-storica ossia etica, filosofica e religioso-teologica, e la sua memoria – persino la ricostruzione dei fatti stessi – sia stata impiegata, ‘usata’ verrebbe da dire, ora per sostenere una certa concezione del destino ebraico (ad esempio la necessità del sionismo), ora per giustificare un’altra concezione di quel destino, magari opposta (ad esempio per denunciare quello stesso sionismo come ribellione alla tradizione religiosa). La faglia sulla quale si sono disposte e contrapposte queste divergenti interpretazioni dei fatti e della memoria della Shoah, dentro il mondo ebraico, può essere definita come la dialettica tra continuità e discontinuità, una dialettica che ruota attorno alla difficile domanda se la Shoah vada considerata come una delle tante tragedie che hanno segnato la lunga storia del popolo ebraico oppure se essa vada letta come una rottura radicale di quella storia. Quasi tutti gli storici, i filosofi e i rabbini si sono posizionati nello spettro delle interpretazioni della Shoah (ma anche del sionismo) a partire dalle risposte date a questa domanda.

Un caso emblematico di approccio ispirato alla discontinuità è quello, noto ma sempre degno di menzione, del poeta ebreo polacco Jacob Glatstein, morto nel 1971, che scrivendo in yiddish riassume il senso della Shoah nel folgorante distico: “Sul Sinai abbiamo ricevuto la Torà, a Majdanek l’abbiamo restituita”, parole drammatiche che segnano e veicolano per gli eventi che chiamiamo Shoah un senso di totale discontinuità con tutta la storia ebraica, almeno da un punto di vista religioso (ma questo punto di vista non pertiene forse alla più profonda raison d’être del popolo ebraico e dell’ebraismo?). Sul versente opposto, per così dire, si potrebbe porre l’approccio di un altro sopravvissuto alle deportazioni, il grande talmudista ungherese David Weiss Halivni, classe 1927, che apre la sua autobiografia con questa non meno folgorante breve riflessione: “Si legge nel Midrash rabbà: La spada e il Libro [il sefer Torà] scendono dal Cielo legati l’una all’altro. Dice il Santo: ‘Se custodirete ciò che è scritto in questo Libro, sarete risparmiati da questa spada; altrimenti ne sarete consumati’. Noi ci siamo stretti attorno al Libro e ciononostante siamo stati consumati dalla spada. Qui viene espressa tutta la volontà ebraica di restare fedeli nel corso della storia a ciò di cui il Sinai è cifra, ma si esprime anche lo sconcerto e la protesta, di natura religiosa, per una promessa di protezione che non si è realizzata, per una sofferenza che sembra anzi mettere in dubbio quella promessa… Esse, tuttavia, fedeltà e sofferenza, sembrano proprio la chiave di volta del destino storico di Israele nel mondo. Ho commentato estesamente questi approcci nel mio volume Le terze tavole. La Shoah alla luce del Sinai (EDB 2019).

Una terza posizione di grande rilievo nel ponderare gli eventi e collocarli in prospettiva della storia religiosa del popolo ebraico è quella del rabbino newyorkese, modern orthodox, Irving Itzchaq Greenberg, nato nel 1933, un allievo di rav Joseph B. Soloveitchik. Rav Greenberg sostiene che le proteste di un Glatstein e di un Weiss Halivni vanno prese sul serio e occorre accettare che la Shoah abbia ‘mandato in frantumi’ l’alleanza sinaitica, tanta è stata la violenza dirompente della Shoah sulla vita e sull’identità del popolo della Torà e del Talmud; e tuttavia gli ebrei non vogliono e non devono affatto darla vinta a ‘nuovi Aman nazisti’ (“non devono dare vittorie postume a Hitler”, secondo l’efficace espressione di Emil Fackenheim), e soprattutto non hanno voluto lasciarsi andare alla disperazione. Anzi, hanno risposto continuando – ecco il paradigma della continuità pur riconoscendo la cesura, la frammentazione nel profondo – a generare figli ebrei, creando lo Stato di Israele e rifondando migliaia di nuove yeshivot. In questo modo, dice rav Greenberg, gli ebrei del dopo-Auschwitz si sono presi la responsabilità di riconfermare l’alleanza del Sinai come ‘azionisti di maggioranza’, come senior partners rispetto a Santo benedetto, e hanno così avviato un terzo ciclo della storia ebraica.

Nella visione di questo autorevole rabbino americano, il primo ciclo è quello della narrazione biblica (dopo l’esilio a Babilonia Israele ha creato il giudaismo rabbinico); il secondo ciclo è quello che dal 70 si è prolungato fino alla Shoah (dopo la distruzione del Tempio Israele ha creato il Talmud, la mistica e la filosofia ebraica…); oggi, dopo la Shoah, Israele ha rifondato uno Stato, ha elaborato nuovo midrash e ha rilanciato lo studio di Torà e Talmud, addirittura offrendoli in traduzione al mondo e aprendo la propria sapienza persino ai propri persecutori! Ha scelto, di nuovo, la vita! Questo terzo ciclo della grande avventura ebraica nel mondo – al cui centro sta l’alleanza umano-divina iniziata con Avraham e Sara, e completata al Sinai con Moshè rabbenu – sarà nel segno del “nonostante Auschwitz” ovvero di una responsabilità più grande, divenuta resistenza al male storico nelle sue forme politiche liberticide e disumane, divenuta etica contro tutte le indifferenze alle offese contro l’umanità e la creazione; in una parola, una responsabilità divenuta memoria della ghevurà come paradigma universale. Tutto questo sta nella grande riflessione collettiva, quasi un nuovo corpus midrashico (in questa chiave ho proposto di leggere tutta la letteratura testimoniale, a cominciare da Primo Levi), che da oltre settant’anni elabora la memoria della Shoah in un esigente memoriale per la vita, uno yad va-shem, ‘una stele e un nome’, dove il ricordo dei nomi delle vittime è già una santificazione del Nome. Ve-chay ba-hem.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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