Hebraica Nizozot/Scintille
Le Massime dei Padri: l’etica ebraica spiegata (dai Chabad) a ragazzi e ragazze

Arriva ora in Italia un’edizione davvero unica nel suo genere: una versione delle Massime dei Padri con un’impaginazione funzionale allo studio dei più giovani

Pirqè Avot, tradizionalmente tradotto come Massime dei Padri, è un trattato della Mishnà, il primo grande codice di halakhà della tradizione rabbinica (messo per iscritto tra II e III secolo dell’era comune). Tecnicamente fa parte del quarto ‘ordine’ dei sei che compongono la Mishnà, il seder neziqìm ossia l’ordine del danni (che include trattati di diritto civile e penale, specie sul funzionamento dei tribunali, dunque testi rivolti soprattutto ai giudici). Ci è pervenuto senza una ghemarà, il tradizionale ‘completamento’ talmudico che ne fa oggetto di discussione. E tuttavia è uno dei classici del giudaismo più commentati dai maestri di Israele, in tutte le epoche fino ad oggi. Dacché esiste la stampa ne sono state pubblicate infinite edizioni, di tutti i tipi e per tutte le capacità di comprensione, dalle più divulgative (non va dimenticato che queste Massime si trovano integralmente anche nei siddurim, nei libri di preghiera, poiché va studiato un capitolo alla volta tra Pesach e Shavu‘ot) sino a eruditissime versioni critiche in più tomi. Tra i tratatti extra-talmudici vi è un’opera, intitolata Avot de-rabbi Nathan, che ne costituisce un ampliamento e uno dei primi commentari.

Per iniziativa del movimento Chabad, noto anche come la chassidut di Lubavitch – e con il sostegno della Comunità ebraica e del Museo ebraico di Roma – arriva ora in Italia un’edizione davvero unica nel suo genere: una versione delle Massime dei Padri adattata ai ragazzi e alle ragazze, con un’impaginazione funzionale allo studio dei più giovani, arricchita da illustrazioni a colori (opera di Boris Shapiro) e, soprattutto, da una serie di apparati testuali che integrano e spiegano in modo succinto e chiaro il testo stesso, ovviamente riportato nell’originale ebraico con traduzione a fianco.

Tra questi apparati troviamo delle biografie dei maestri citati (tutto il trattato è un’antologia di insegnamenti e aforismi di natura morale e comportamentale); molte “scintille” o perle di saggezza della tradizione; spiegazioni di parole-chiave e di concetti fondamentali del giudaismo rabbinico e in particolare del chassidismo (il movimento sorto sulla scia del carismatico Ba’al Shem Tov nel XVIII secolo); e non da ultimo molteplici racconti brevi, tratti dal mare delle aggadot e dei midrashim, tesi a illustrare letterariamente i contenuti etici del trattato stesso. Così presentati, i Pirqè Avot – termine che potrebbe tradursi semplicemente come fondamenti o pilastri del giudaismo – diventano un’enciclopedia di educazione ebraica adatta a tutti, ad ogni età, ma certamente accattivante soprattutto per ragazzi e ragazze, che possono scegliere di studiare, in ogni pagina, ora un solo racconto, ora un’annotazione storica, ora una riflessione morale e halakhica, senza lasciarsi intimorire dalla serietà e vastità dei temi e dei commenti. L’innovativa edizione è stata tradotta in italiano e curata da rav Shalom Hazan, ed è pubblicata per i tipi della Giuntina di Firenze (identificabile come Edizione Weiss, grande formato, 240 pagine tutte a colori, euro 30).

Spigolare tra queste pagine “per ragazzi” rende anche gli adulti più consapevoli dell’inesauribilità dello scibile ebraico, nella misura in cui ci rendiamo conti che, per quanto si studi, c’è sempre qualche angolo della Tradizione (con la T maiuscola) che ignoriamo o che non abbiamo ancora studiato. Ecco un esempio di racconto, un’aggadà tratta dal Talmud Babilonese, Bava Metzi’à 85b. «Rabbi Khiyà si rese conto che gli ebrei stavano dimenticando lentamente la Torà, perché non vi erano abbastanza maestri… Così elaborò un piano: piantò del lino, fabbricò delle reti con i filamenti del lino piantato e catturò dei cervi; quandi abbattè i cervi mediante la shekhità [la macellazione rituale], ne diede la carne agli orfani e con la pelle degli animali fabbricò rotoli di pergamena sui quali scrisse i cinque libri della Torà e i sei ordini della Mishnà. Quindi si recò in diverse città in cui non c’erano maestri, consegnando ciascun rotolo a ciascun bambino e spiegandone lui stesso i contenuti. Infine, insegnò a ciascun bambino come insegnare ad altri quel che avava imparato. Fu così che rabbi Khiyà riuscì a evitare che si dimenticasse la Torà».

Ora, questo maestro Khiyà (o Chiyyà) fu un saggio che visse a cavaliere tra II e III secolo; gli si attribuiscono grandi meriti nella stesura della Toseftà. Vissuto sia in eretz Bavel sia in eretz Israel, questo studioso ebbe fama di taumaturgo – facitore di miracoli – e su di lui si diffusero diverse storie leggendarie. Ma nella storia sopra citata dall’edizione Weiss dei Pirqè Avot, lo troviamo in veste di “fondatore di scuole”. Quale attività più meritoria dal punto di vista ebraico? Non solo fondatore di scuole, ma laborioso coltivatore di piante di lino e cacciatore e macellatore rituale e cuoco addetto alla mensa per gli orfani; e poi conciatore e sofer ossia scriba di rotoli di Torà; e infine, naturalmente, maestro (rav) e padre (av) per quei giovani orfani che, alla sua scuola, diventano essi stessi valenti maestri. Il quadro didattico è completo: cosa manca in siffatta breve storia che non sia un’esemplificazione dei valori fondamentali del giudaismo, come insegnati proprio nelle Massime dei Padri? Ecco la catena di trasmissione al suo meglio, dove impariamo che non basta “essere maestri” intellettualmente, se non si pianifica in modo strategico un percoso educativo che non trascuri il cibo e il necessario supporto materiale, che non dia quella sicurezza anche psicologica che permette di dedicarsi poi, corpo e anima, alla Torà.

Certo, i Chadad non nascono nel solco del razionalismo della Wissenschaft des Judentums… Sappiamo. Amano inoltre indulgere in aneddoti miracolistici, in interventi di Qadosh Baruch Hu tramite i suoi chassidim. E va bene! La vita è piena di cose imprevedibili e una finestra aperta al miracolo non è solo una questione di fede religiosa, ma può leggersi come sana meraviglia verso gli imprevisti positivi o le piacevoli sorprese dell’esistenza. L’importante è che questa fede nel soprannaturale non faccia dimenticare che la via della santità passa anzitutto attraverso un buon uso del mondo naturale, di questo mondo, un uso secondo Torà, e che non dobbiamo aspettare il miracolo dall’alto per cambiare le cose o per andare avanti. Se io non sono per me, chi sarà per me? ecc. leggiamo proprio nei Pirqè Avot I,14. In questa nuova traduzione ed edizione tale famosa massima morale, attribuita a Hillel l’anziano, è resa così: «Se non mi sforzo io di aiutare me stesso, chi lo farà per me? Ma se sono egoista e aiuto solo me stesso, che cosa valgo? E se non faccio ora ciò che dovrei, quando lo farò? Potrei non averne più l’opportunità». Tra i commenti, eccone uno potente: «Queste parole – im ein anì lì… – possono anche significare: se io non possiedo neppure me stesso, che cosa possiedo veramente?». Ecco davvero un classico della chokhmà ebraica che non smette di sorprenderci.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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