Hebraica Nizozot/Scintille
Altezze e profondità nel pensiero del Rebbe Menachem Mendel Schneerson

Riflessioni a partire dal volume che raccoglie i suoi Liqquté Sichot, le “conversazioni”

Che il pensiero dei grandi maestri del chassidismo non possa essere ridotto a pillole di saggezza popolare, ad aforismi per tutti i palati o a un’aneddotica simil-fioretti francescani, è cosa nota a chiunque sia mai andato oltre le sintesi divulgative e agiografiche che, da Buber in poi, hanno rappresentato in modo folkloristico questa originale, moderna esplosione di creatività ebraica, sorta in Ucraina nella seconda metà del XVIII secolo. Senza virare al polo opposto, e finire nell’accademico o nello storiografico, abbiamo ora uno strumento di rara qualità per saggiare e studiare quel pensiero, nell’ultimo distillato offertoci da quella personalità unica – per carisma spirituale, per erudizione rabbinica e per genio organizzativo – che è stata il settimo (e ultimo) Rebbe di Lubavitch, Menachem Mendel Schneerson (1902-1994), che nessuno nel mondo ebraico, se attento o solo curioso, può ignorare. Per oltre quarant’anni è stato il leader amatissimo, e dotato di un’energia fuori dal comune, di una dinastia che risale al non meno geniale Schneur Zalman di Liadi (1745-1812), l’autore del Tanya, il quale non a caso definì la propria chassidut con l’acrostico ChaBaD, dalle tre sefirot superiori dell’albero sefirotico (chokhmà, sapienza; binà, intelligenza; da‘at, che vale conoscenza ma anche fede, legame, obbligazione) marcando così una consapevole scelta di intellettualità, che non pochi studiosi oggi chiamano esplicitamente ‘una filosofia del giudaismo’.

Lo strumento cui ho accennato è un’accurata selezione degli insegnamenti di rav Schneerson, tratta dall’importante e assai voluminosa raccolta degli stessi, i Liqquté Sichot, ovvero le “conversazioni” o i “discorsi” offerti in molteplici circostanze e tramite i più disparati mezzi tecnologici (che questo Rebbe fu tra i primi a non disprezzare, anzi a valorizzare a scopi educativi). Tale antologia, tradotta dall’inglese in italiano da Avigail Dodon (sebbene rav Schneerson usasse, da Brooklyn, insegnare normalmente in yiddish), si intitola semplicemente Lezioni di Torà. Riflessioni e insegnamenti di vita; tali discorsi sono stati adattati e introdotti da rav Jonathan Sacks (1948-2020), già rabbino-capo d’Inghilterra; ha una prefazione e una scheda biografica sul Rebbe a cura di Rivka Garelik Hazan, esponente di rilievo del chassidismo Lubavitch a Milano; il volume è appena stato pubblicato dalla Giuntina (pp.432, prezzo abbordabile di 20 euro).

Si tratta di commenti e approfondimenti strutturati attorno alle cinquantaquattro parashot o porzioni in cui è divisa la Torà, intesa come Pentateuco o Chumash, in vista della lettura liturgica ad ogni shabbat; in aggiunta vi si trovano riflessioni esplicitamente dedicate alle feste ebraiche di Chanukkà, Purim, Pesach, Shavu‘ot e ai Dieci Giorni – yamim noraim o ‘giorni terribili’ – che vanno da Rosh hashanà a Yom Kippur. Un breve glossario di termini ebraici chiude il volume. Anche a prescindere dai singoli contenuti, che fluiscono ininterrotti con originalità e rigore concettuale, questo non è un testo ‘da leggere’ ma ‘da studiare’, alla maniera ebraica; è davvero un’opera di Torà – e non solo sulla Torà – che può accompagnare l’ascolto e la comprensione delle parashot settimana dopo settimana, pena il non riuscire a star dietro a tanta ricchezza spirituale, che si espande a trecentosessanta gradi: dall’esegesi biblica e dalla ghematrià alla navigazione nell’oceano del Talmud, dalle fonti filosofiche medievali – a dispetto di chi pensa che la chassidut non sia ‘pensiero’ – ai grandi testi della qabbalà, a partire dallo Zohar naturalmente; fino alle fonti del movimento chassidico stesso, in particolare al Tanya che, come accennato, è un punto di riferimento essenziale per i chassidim di Lubavitch. Esistevano, è vero, già altri testi del Rebbe in circolazione ma quest’antologia, per ‘altezze e profondità’ come afferma rav Sacks, è oggi la migliore in assoluto (in italiano, s’intende).

Invito a riflettere sul fatto che questa silloge di discorsi di Torà del Rebbe Menachem Mendel Schneerson sia stata progettata e curata dal rabbino modern orthodox Sacks, che è stato, di suo, un autorevole maestro a cavallo tra XX e XXI secolo, anche in virtù della sua duplice formazione religiosa e laica (quest’ultima nelle università inglesi). Che abbia voluto ed elaborato questo volume è un segno inequivoco della grande stima che nutriva per rav Schneerson, sebbene poco – in apparenza – avessero in comune per storia personale e per formazione accademica. E tuttavia quella stima si spiega e si comprende proprio alla luce di queste sichot, che non potevano non affascinare una mens philosophica come rav Sacks. Provate a consultare i commenti alla parashat Reé, che abbiamo ascoltato nei batè haknesset sabato scorso, dedicata al trattamento della ‘città idolatra’ secondo le sottili analisi halakhiche di Maimonide in materia, e avrete un’idea del perché rav Schneerson riuscì ad affascinare non solo i suoi pii seguaci ma anche i più dotti tra i suoi colleghi rabbini. Altri esempi: la spiegazione delle tre fasi della “percezione dell’unità di D-o” scandite dai tre mesi di Nissan, Iyar e Sivan e sul valore del tempo nell’ebraismo (cfr. le riflessioni su Shavu‘ot); oppure la spiegazione sul legame interiore tra Moshe rabbenu e il messia, tema sempre delicato in riferimento a rav Schneerson…, il quale nondimeno insiste che è la Torà a “conferire a ciascuna persona la forza e la facoltà di perfezionare se stessa e l’ambiente circostante e di affrettare la venuta del messia” (così nella parashat Shemot). Impossibile non paragonare il Rebbe a Israel ben Eliezer, il Ba‘al Shem Tov, acclamato – per il suo carisma e le sue intuizioni – come il fondatore dello stesso chassidismo.

Certo non si può, solo per questo, farne un’incarnazione messianica o ‘agiografizzare’ ogni suo gesto come atto di eroismo, di preveggenza, et similia: il miracolismo non è la via scelta dai maestri di Israele per accreditare la chokhmà o vincere una discussione halakhica. Ma una volta tenuta separata la tendenza agiografica dal valore intrinseco delle sue derashot, ispirate alle più grandi autorità del giudaismo rabbinico, non avremo dubbi sulla qualità di questi insegnamenti. Non bastesse la testimonianza di rav Sacks, ecco accanto a lui quella dell’israeliano rav Adin Steinsaltz (1937-2020), non meno noto del primo, apprezzato talmudista e cultore di mistica, che si è fatto carico di tradurre personalmente e commentare in inglese la citata opera del Rebbe di Liadi, il Tanya, in segno di stima e contiguità spirituale con rav Schneerson (esistono molte testimonianze in tal senso).

A questo punto, se volessimo rifarci all’antica tradizione di cercare uno zug, un ‘paio’, una coppia di maestri che abbia contraddistinto e segnato in modo irreversibile le due-tre generazioni dell’immediato post-Shoah nel mondo ebraico, ossia tutta la seconda metà del Novecento, solo due sono (a mio modesto, forse avventato avviso) i rabbini candidabili a questo insigne ruolo: rav Joseph B. Soloveitchik (1903-1993) da un lato e il Rebbe di Lubavitch Menachem Mendel Schneerson dall’altro. Ecco le analogie: sono quasi coetanei; vengono entrambi dall’est Europa, da famiglie ortodosse in cui mitnaghdim e chassidim si erano incrociati; hanno entrambi studiato ‘materie profane’ in alcune aule accedemiche laiche d’Europa; sono sopravvissuti alla Shoà riparando negli Stati Uniti e entrambi da New York City, per decenni, sono stati guide riconosciute da tutto il popolo ebraico. Come resistere alla tentazione di compararli alla grande coppia d’inizio II secolo, rabbi Ishmael e rabbi ‘Aqivà? Ma basta suggestioni, le lezioni di Torà del settimo Rebbe di Lubavitch parlano per se stesse e sono destinate a rimanere sul nostro percorso ebraico molto a lungo.

Menachem Mendel Schneerson, Lezioni di Torà. Riflessioni e insegnamenti di vita, adattati e introdotti da rav Jonathan Sacks, prefazione di Rivka Garelik Hazan, Giuntina, pp.432, 20 euro.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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