Hebraica Nizozot/Scintille
Le migliori Nizozot del 2022

Dai pregiudizi intorno ai farisei fino al ghilgul, cinque approfondimenti filosofici

Una selezione delle nostre Scintille, quelle che Massimo Giuliani ci scrive a proposito del pensiero ebraico. Qui troverete degli assaggi, per la lettura completa dell’articolo, cliccate sul titolo in rosso.

Chi erano davvero i farisei?
La questione è complessa e, a dispetto del progredire degli studi storico-filologici sulle fonti (su tutte le fonti che riguardano i farisei, ebraiche e cristiane e qumraniche), una risposta chiara e ben articolata su chi fossero costoro non è stata ancora data. Tuttavia, quel poco che storicamente si sa e si può dire con chiarezza, è che i perushim – termine ebraico polisemico, ossia che può avere molti signficati, tradotto con ‘farisei’ – non erano un gruppo di arroganti fondamentalisti o di sdegnosi isolazionisti rispetto al resto del popolo ebraico di duemila anni fa! Al contrario, erano un network di scuole molto vicine alla gente comune, che si dedicavano allo studio e all’interpretazione della Torà e che praticavano i precetti con umiltà e fedeltà, e che a volte li adattavano alle mutate condizioni socio-politiche del popolo ebraico, sempre attenti agli aspetti interiori del culto, conciliando i riti del Tempio con la ricerca di una sana spiritualità. Una sintensi di questi atteggiamenti, tesi a combinare la prassi religiosa con una profonda moralità pubblica e privata, si trova nel testo della Mishnà chiamato Pirqè Avot, I capitoli dei Padri. Paradossalmente il termine perushim compare di rado nelle fonti ebraiche, quasi che quei maestri non lo usassero per se stessi. Ma forse è evitato perché, nel II secolo dell’era comune/cristiana, tale nome aveva già assunto (all’esterno del mondo ebraico) connotati negativi, quelli giunti fino a noi. Indagine intorno a un pregiudizio.

La Toseftà, la meno conosciuta delle grandi fonti ebraiche
La Toseftà condivide con il codice mishnico, oltre la datazione, soprattutto la struttura essendo a sua volta divisa in sei ordini e in una sessantina di trattati; è citata e data per nota dagli amoraim (i maestri del Talmud), soltanto è molto più estesa: nell’insieme è quattro volte più ampia della Mishnà, scritta essa pure in ebraico, seppur meno pulito e conciso di quello mishnico e con non pochi aramaismi e prestiti lessicali greci e latini. Essa è conservata sia in manoscritti (l’unico completo si trova a Vienna e risale alla fine del XIII secolo) sia in volumi a stampa – editio princeps a Venezia negli anni Venti del XVI secolo, proprio come il Talmud Bavli – e nelle edizioni successive del Bavli venne inserita ‘in folio’, in pagina, come il commento di Rashi.
Sin dalle origini venne pensata come un complemento della Mishnà, come una fonte halakhica autentica ed integrativa a scopo essenzialmente esplicativo. In un certo senso la Toseftà è il primo esteso commento alla Mishnà, vergato in uno stile letterario molto simile (e assai diverso dai ‘canovacci’ delle discussioni talmudiche successive). Oggi essa è divenuta un testo tecnico, per addetti ai lavori, ma un tempo non era certamente così. Come hanno mostrato gli studiosi israeliani Chaim Shapira e Menachem Fisch, la Toseftà incarnerebbe una filosofia dell’halakhà più rigida e tradizionalista, la Mishnà, invece, sarebbe un testo più aperto – flessibile, come dice Halbertal – perché più disponibile a discutere l’halakhà . Stando a questi studi, la questione non è la centralità dell’halakhà (che è fuori discussione) ma le modalità con cui si addiviene a decisioni halakhiche. Esse erano oggetto di dibattito e codificazione diversificata già ai tempi dei ‘padri del mondo’, ossia di Hillel e Shammai. Il primato di Hillel, secondo i maestri, gli è stato riconosciuto perché era disposto a cambiare opinione e ad abbracciare, se validi, gli argomenti di Shammai. Come non si separano e tantomeno si contrappongo Hillel e Shammai, anzi una scuola integra e illumina l’altra, così non si possno separare e opporre l’un l’altra Mishnà e Toseftà.

Filosofia del miracolo
Pensare il miracolo è un compito tipico della riflessione teologica e della filosofia della/e religione/i, e anche il mondo ebraico ha sviluppato idee e teorie in proprio sul tema. Ma cosa si intende ebraicamente con questo termine? La difficoltà a definire cosa sia ‘miracolo’ deriva dal fatto che esso si comprende solo e proprio a partire dalla sua stessa definizione, la quale è, in ultima analisi, sempre pre-condizionata e parte di una pre-comprensione, religiosa o antireligiosa che sia. Il miracolo ‘dipende’ da chi lo vede e lo accetta, come la bellezza e il suo contrario sono nell’occhio di chi guarda. Vi sono state, nel giudaismo rabbinico, essenzialmente due vie per cercare risposte a tutte queste domande o per controbattere alle obiezioni mosse alla fede nei miracoli. La via di chi rinuncia a cercare una spiegazione e pensa che la fede stessa sia la risposta; e la via di chi invece vuol capire e cerca una spiegazione razionale, anzi esige che la fede interroghi la ragione e che la ragioni illumini la fede. Quest’ultima è la via della filosofia ebraica, dal medioevo ad oggi. La prima via è in pace con l’idea che il mondo non sia uscito perfetto, per così dire, dalle mani del Creatore; di più, è come se il Creatore l’abbia lasciato intenzionalmente imperfetto onde stimolare l’essere umano a completarlo e perfezionarlo.
Nel mondo ebraico le tendenze fideistiche e le tendenze razionalistiche hanno sempre convissuto, almeno fino all’alba della modernità. Per riscattare il miracolo, frenare gli eccessi razionalistici della teologia e riaccreditare la fede come via plausibile per comprendere relazionalmente il mondo – e Dio e l’essere umano – ci vollero l’approccio ermeneutico di un ba‘al teshuvà come Franz Rosenzweig (1886-1929) e il suo recupero del valore della testimonianza e della dimensione esperienziale. Paradossalmente sarà un nuovo pensiero filosofico, dice Rosenzweig, a restituire ai teologi, anche a quelli ebrei, quel ‘miracolo’ di cui si erano frettolosamente vergognati, facendolo tornare “il figlio prediletto della fede”.

Apocalittica. Un antico linguaggio ebraico per la crisi di oggi
In sintesi, l’apocalittica è la forma narrativa di una certa filosofia ebraica della storia, nella quale il tempo presente – tempo di crisi e sofferenze – si spinge e accelera verso il tempo futuro, visionato come momento di salvazione da quelle crisi e di consolazione da quelle sofferenze. Nell’apocalisse, il kets ha-et, la “fine del tempo” è invocata come chiave di un presente che anela ad essere l’et ha-kets, il “tempo della fine”. Questo anelito è lo stesso che attraversa, nella storia ebraica, le fasi di febbre messianica: quando le cose sembrano non solo andare male ma toccare il fondo (quando la Giudea fu distrutta dai romani, o quando si fu espulsi da un Paese, o nelle persecuzioni e nei pogrom), ecco riattivarsi la fede/speranza che Dio manderà un messia a riscattare e restaurare quel che è andato perduto, a “capovolgere le sorti”, come avviene a Pesach, a Purim e nel giorno di Kippur allorché Iddio benedetto perdona e ci reinscrive sul metaforico ‘libro della vita’. Sosteneva Scholem: il messianismo ebraico, almeno nelle sue origini, rappresentava una ‘teoria della catastrofe’ ed elaborava le aspettative delle élite ebraiche dinanzi a timori apocalittici.
Esempi di retorica apocalittica si trovano persino nella Mishnà, codice ispirato a grande moderazione politica e refrattario a eccessive aspettative messianiche. Ad esempio in Sanhedrin e in Sotà. Tuttavia l’apocalittica ebraica, pur nelle drammatiche visioni di lacrime e sangue, è foriera anche di speranza, a cui si dà il nome generico ma pregnante di messia. Così come, seppur in modo meno evidente, veicola anche un messaggio di ravvedimento e di teshuvà quali strumenti per evitare il peggio, un catastrofismo fine a stesso o un messianismo deleterio (che in realtà è una forma di fondamentalismo estremista). Ecco perché il giudaismo rabbinico ha cercato di inglobare i temi apocalittici nella propria letteratura normativa, halakhica ed etica. La fine del mondo può attendere, ma preparare un letto agli anziani e un pasto caldo ai bambini no.

Ghilgul: la ruota della reincarnazione delle anime
Come sono finite nel giudaismo o almeno in una significativa parte della vita ebraica (quella connessa alla mistica medievale e poi al chassidismo) una dottrina e una credenza che, come è noto, sembrano e sono patrimonio di culture politeiste, prevedendo il ritorno, meglio la reincarnazione, della medesima anima in corpi diversi in tempi diversi?
Secondo gli aneddoti agiografici sulla vita del Ba‘al Shem Tov, ad esempio, il ‘fondatore’ del chassidismo sembra credere che il nuovo corpo a cui un’anima peccatrice è destinata, ai fini dell’espiazione, venga deciso e decretato direttamente da una corte celeste, che in un caso specifico scelse che tornasse a vivere nel corpo di un uccello puro: “Se l’animale fosse stato mangiato da uno tzaddiq o se fosse stato usato per il banchetto del santo shabbat, allora l’anima avrebbe potuto trovare il rimedio per i propri peccati e sarebbe stata liberata. Così avvenne. L’anima entrò in un pollo che fu subito venduto a un uomo per la cena di shabbat”. La storia è lunga e articolata, piena di dettagli come tipico degli storyteller chassidici. Alcuni rimandi a questa credenza compaiono per la prima volta in quell’antico testo mistico che è il Sefer haBahir, che risale agli ultimi decenni del XII secolo e composto probabilmente in Provenza, e proprio per questo del ghilgul o metempsicosi si è occupato a fondo lo storico-filologo-filosofo della qabbalà Gershom Scholem, in un saggio che si trova nel volume La figura mistica della divinità (Adelphi, Milano 2010, a cura di Saverio Campanini). Il saggio si apre con la domanda: la metempsicosi e la metensomatosi, ossia il passaggio da un corpo all’altro, possono essere idee autoctone del mondo ebraico o sono entrate nel folklore del popolo di Israele per osmosi, per contatto con culture allogene? Possono esservi arrivate direttamente dalle scuole orfiche e neoplatoniche, così apprezzate nel mondo antico? Come è noto, seppure con molte cautele, Scholem propende per l’ipotesi che “si tratti di una tradizione giudeo-gnostica arrivata per vie a noi ignote dall’Oriente nei circoli in cui è nato il Bahir”. Ipotesi vaga, da ogni punto di vista.
Non potendo entrare nelle complesse interpretazioni di tutti i passi in cui si suppone si parli di metempsicosi, vale la pena sottolineare che tale dottrina sortisce anzitutto l’effetto di rompere sia la staticità sia la predeterminazione nella concezione dell’anima stessa: come principio mobile, dinamico, in continuo movimento, l’idea di anima riflessa in questa dottrina si svela multistratificata, fluida, composita. Ergo, estremamente moderna. E poiché si tratta di una credenza e non attiene alla sfera dell’halakhà, pochi risultano i maestri che si sono dati da fare a smentirla, a combatterla come eretica. Eretica era piuttosto la dottrina della ‘mortalità dell’anima’ (ecco forse la vera causa del duro cherem inflitto al giovane Spinoza nel 1656). In fondo, poi, la reincarnazione smentisce automaticamente che l’anima muoia, anzi la proietta in un processo di auto-miglioramento che poteva persino piacere a certi filosofi ebrei di scuola neoplatonica e, se interpretata come parte di un cosmico tiqqun ‘olam, tornava centrale anche nelle nuove ricezioni della qabbalà luriana (la più esemplare delle quali resta, appunto, il chassidismo). Come insegnava rabbi Levi Itzchaq di Berdichev: “Per ristabilire la perfezione del suo corpo [ossia delle sue azioni] una persona deve compiere quei precetti a cui ha disobbedito anche attraverso molti ghilgulim” (Kedushat Levi). Spesso, nel mondo chassidico, le storie connesse al ghilgul sono usate per confortare situazioni di lutto, specie nel caso di figli morti giovani, alla luce della fede che tale morte significa che quell’anima aveva raggiunto il suo massimo grado di perfezione in questo mondo.
Alla fine, è chiaro, moralità e osservanza dei precetti sono meglio salvaguardati se si insegna che abbiamo soltanto una vita, una sola chance e non possimo permetterci di sprecarla (e poi, di nuovo, chi ci garantisce che nella prossima reincarnazione le cose andranno comunque meglio?).


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.