Hebraica Nizozot/Scintille
Chi erano davvero i farisei? Troppi stereotipi (sbagliati)

Indagine intorno a un pregiudizio

Periodicamente, specie quando nelle chiese cattoliche si leggono brani evangelici che hanno a che fare con i farisei, ci tocca leggere (e criticare) articoli e commenti su tali brani pieni di pregiudizi e di stereotipi, che nelle menti non avvedute diventano gli stessi malevoli giudizi rivolti da molti ‘fratelli cristiani’ al mondo ebraico. Gli esempi sono degli ultimi giorni, qualche domenica fa si leggeva la parabola, un mashal che come tale è senza pretesa storica, del fariseo e del pubblicano, entrambi intenti a pregare: “Il fariseo adora il proprio io”; “Quel che il fariseo adora non sono altro che le norme della legge… [infatti] si rivolge alla caricatura di Dio, alla sua maschera deforme” scriveva giorni fa su Avvenire un noto padre servita milanese. Un altrettanto noto gesuita romano, che tiene una rubrica su Il Fatto Quotidiano, si spinge addirittura a paragonare il fariseo in preghiera alla regina Grimilde, la cattivona della favola di Biancaneve, che si rivolge allo specchio delle sue brame e parla con arroganza, presunzione, autocelebrazione, delirio… In una foto on line il fariseo, manco a dirlo, prega con il tallit in testa, e in tal modo il cortocircuito è fatto: i farisei sono gli ebrei, chiusi e arroccati nel loro formalismo legale (o legalismo formale), ipocriti e falsi come ‘sepolcri imbiancati’, che Dio disdegna; i pubblicani invece sono gli altri, i cristiani ad esempio, la cui preghiera umile viene apprezzata e accolta. In sintesi, dietro lo stereotipo anti-farisaico c’è l’antica avversione religiosa al mondo ebraico. È possibile fare chiarezza e ed essere intelletualmente più onesti?

La questione è complessa e, a dispetto del progredire degli studi storico-filologici sulle fonti (su tutte le fonti che riguardano i farisei, ebraiche e cristiane e qumraniche), una risposta chiara e ben articolata su chi fossero costoro non è stata ancora data. Tuttavia, quel poco che storicamente si sa e si può dire con chiarezza, è che i perushim – termine ebraico polisemico, ossia che può avere molti signficati, tradotto con ‘farisei’ – non erano un gruppo di arroganti fondamentalisti o di sdegnosi isolazionisti rispetto al resto del popolo ebraico di duemila anni fa! Al contrario, erano un network di scuole molto vicine alla gente comune, che si dedicavano allo studio e all’interpretazione della Torà e che praticavano i precetti con umiltà e fedeltà, e che a volte li adattavano alle mutate condizioni socio-politiche del popolo ebraico, sempre attenti agli aspetti interiori del culto, conciliando i riti del Tempio con la ricerca di una sana spiritualità. Una sintensi di questi atteggiamenti, tesi a combinare la prassi religiosa con una profonda moralità pubblica e privata, si trova nel testo della Mishnà chiamato Pirqè Avot, I capitoli dei Padri. Paradossalmente il termine perushim compare di rado nelle fonti ebraiche, quasi che quei maestri non lo usassero per se stessi. Ma forse è evitato perché, nel II secolo dell’era comune/cristiana, tale nome aveva già assunto (all’esterno del mondo ebraico) connotati negativi, quelli giunti fino a noi.

Per fare chiarezza su questo importante e complicato pezzo di storia ebraica, che si interseca con la formazione dei vangeli e la loro interpretazione, nella primavera del 2019 si tenne un grande simposio, pensato da accademici sia cattolici sia ebrei, presso la Pontificia Università Gregoriana, e nel 2021 è uscito il volume degli atti: I farisei, a cura di Joseph Sievers e Amy-Jill Levine (Ed. San Paolo/Gregorian & Biblical Press, pp.430). In teoria, la catechesi e la predicazione nelle chiese non dovrebbero più ripetere quegli stereotipi, di fatto antiebraici, perché gli studi li hanno mostrati palesemente falsi… ma putroppo ciò non avviene (ancora). Dunque, di nuovo, ecco la domanda: chi sono stati davvero i farisei? O meglio: su quali fonti possiamo contare per conoscerli e come vanno lette queste fonti?
Nei vangeli canonici i farisei sono citati 97 volte; in Giuseppe Flavio 44 volte; negli scritti di Qumran si parla di loro trasversalmente. Come detto, le fonti rabbiniche non usano spesso il termine ‘fariseo’, la cui etimologia rimanda sia alla pratica del commentare le Scritture sia a quella di separare, ad esempio il puro dall’impuro e l’etica dall’immoralità, ossia di preservare la santità. Nelle pagine evangeliche se ne parla spesso come di un partito ideologicamente omogeneo e politicamente potente. Ma come si sa, i vangeli non sono stati scritti con finalità storiche e nel caso dei farisei ci descrivono ‘personaggi’ più che ‘persone’, sebbene a una lettura attenta si apprenda cho essi erano un gruppo tutt’altro che omogeneo, che condivideva almeno in parte le stesse idee di Gesù. Gesù la pensava come loro sull’importanza dell’interpretazione delle norme bibliche (per esempio in materia di matrimonio e divorzio, un tema che nelle scuole dei perushim era molto discusso, con opinioni anche divergenti); sul primato della preghiera del cuore, l’avodat ha-lev su cui insiste tutto il giudaismo rabbinico che di quelle scuole è il legittimo erede, nella continuità e nella discontinuità dovuta a eventi storici (come la distruzione del Tempio); sull’attenzione particolare al mondo femminile; soprattutto sulla credenza nell’olam ha-bà, nel mondo futuro, e sulla connessa fede nella resurrezione dei morti (di contro ai sadducei, che non vi credevano).

Da molti punti di vista, Gesù era in tutto e per tutto un fariseo, più esattamente un fariseo della Galilea, o almeno un esponente di una qualche scuola farisaica, delle molte che esistevano. È dunque curioso, anzi bizzarro che molta narrativa su di lui lo presemti in antitesi con quel mondo… di cui condivideva così tanto e così in profondità. Oggi sappiano che molte (supposte) polemiche tra Gesù e i farisei altro non erano che ‘discussioni accademiche’, frequenti nelle scuole e nei diversi partiti della società ebraica del I secolo. Tutto ciò fu ben spiegato, quasi cent’anni fa, da un grande maestro dell’ebraismo europeo ossia Leo Baeck (1873-1956), che nel 1927 pubblicò uno studio dal titolo “I Farisei”, ampliato nel 1934 con il sottotitolo: “Un capitolo della storia ebraica”, e più volte ristampato (è stato pubblicato in italiano da Giuntina nel 2013). Alla luce di questi studi, molti stereotipi vengono smontati sulla base di prove testuali. Secondo Leo Baeck, “il fariseismo è stato il grandioso tentativo di fare del giudaismo una religione della vita, della vita singola e comunitaria, vissuta nella quotidianità e ispirata alla santità: essere perushim voleva e vuol dire cercare di avvicinare il reale all’ideale e preparare il terreno al regno di Dio. Il nome [farisei] appartiene al passato, ma il significato espresso in quel nome rimane una realtà ideale”.

Concludendo sulla parabola evangelica, lo studioso ebreo del Nuovo Testamento Marco Cassuto Morselli si chiede: “Cosa voleva insegnare Yeshua/Gesù con questo mashal? Che è meglio essere peccatori piuttosto che giusti? Evidentemente no. E quale insegnamento devono trarne gli ascoltatori di oggi: che i cristiani non sono tenuti ad osservare la Legge e perciò sono migliori degli ebrei che invece si sforzano di osservarla? Altrettanto evidentemente no. Eppure, se nei commenti cristiani la parabola non viene adeguatamente contestualizzata, l’effetto rischia di essere proprio questo, anche al di là delle intenzioni”. Scrivono gli storici Massimo Grilli e Joseph Sievers nelle conclusioni dei summenzionati atti del simposio in Gregoriana: “Soltanto un’indagine condotta su basi storiche e teologiche rinnovate e più rigorose può condurre a un ripensamento dell’immagine dei farisei [e soltanto] le scoperte di tale nuova ricerca potranno contrastare gli stereotipi diffusi tra i cristiani e nella popolazione di tutto il mondo, anche non cristiana”.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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