Hebraica
Le parole del deserto. Un ragionamento intorno alla parashà di Bemidbar

Analisi di un viaggio e di uno stare. O della costruzione dell’identità di popolo

Tra la festa di Pesach, quando viene rievocata e in certa misura rivissuta l’uscita dall’Egitto, e quella di Shavuot, in cui si celebra il dono della Torah, il popolo ebraico si trova nel deserto. La tradizione rabbinica descrive questo periodo di cinquanta giorni come scuotimento dalla condizione servile dell’Egitto e indispensabile preparazione non a una libertà generica e in definitiva poco consistente intesa come rifiuto di limiti, ma a una libertà vincolata al giogo dei precetti. L’ambiente che fa da sfondo costante a questa preparazione è il deserto, luogo arido e omogeneo per eccellenza, che da millenni costituisce la destinazione privilegiata per tutti coloro che decidono di allontanarsi dalla civiltà con i suoi contatti e le sue influenze molteplici, i traffici e le discussioni, e provare a rivolgersi alla trascendenza. E’ peraltro significativo che nel racconto della Torah l’esperienza del deserto, cioè della negazione della civiltà egiziana fondata sulla sopraffazione da cui si prendono anche fisicamente le distanze, non sia l’obiettivo finale ma una tappa preparatoria in vista del rientro nella civiltà in seguito all’assunzione di responsabilità, cioè dell’impegno a farsi carico della legge (che è poi, con una circolarità significativa, la Torah stessa). Il deserto non sembra dunque un valore in sé, ma una condizione in vista di altro, la premessa indispensabile per la costituzione di una civiltà opposta rispetto a quella dell’Egitto.

In prossimità di Shavuot viene letta la parashà di Bemidbar, letteralmente “nel deserto”, con cui comincia il quarto libro della Torah che racconta le vicissitudini del popolo d’Israele nel corso di quarant’anni nel Sinai. La prima traduzione in greco del testo, la cosiddetta Settanta, intitola il libro Arithmoi, “numeri”, un termine conservato poi nella successiva versione latina di Gerolamo e in quelle nelle lingue moderne. Lo stesso Talmud indica il libro come chomesh hapequdim, “quinta parte [della Torah] sui numeri”, cioè sui censimenti, perché in esso il popolo viene censito non una ma due volte. Come ha scritto recentemente il rabbino francese David Meyer nella Bibbia dell’Amicizia (a cura di Marco Cassuto Morselli e Giulio Michelini, San Paolo), la grande sfida del libro di Bemidbar/Numeri è di tenere insieme l’infinito delle sabbie del deserto e la finitezza delle cifre amministrative.

La tradizione ebraica ama soffermarsi sulle parole, scomponendole e ricomponendole, mostrandone la densità semantica e le risonanze numerologiche. Se scomponiamo Bemidbar troviamo:
Be (B), che indica lo stato in luogo, cioè il risiedere statico in un dato luogo, l’essere radicato, situato, presente;
Mi (M), che indica il moto da luogo, cioè la provenienza da un luogo diverso da quello di residenza, le sorgenti, le origini, gli antenati, il passato;
Davar (DBR/DVR), che indica “cosa” e “parola” in una unità che non ha equivalente in lingua italiana. La parola-cosa è una realtà concreta con effetti tangibili, proprio come lo studio che, secondo una definizione del Talmud, è grande perché porta all’azione.
Di conseguenza, secondo Cosimo Nicolini Coen (Il segno è l’uomo, Durango) Bemidbar può venire tradotto come (essere) nelle-dalle parole. Questo essere situati nelle e provenire dalle parole-cose “permette di passare dai corpi piegati alla schiavitù, soggetti al lavoro per la costruzione di piramidi, tombe destinate a perpetuare il nome del Faraone, ai corpi proiettati, diretti, al lavoro-culto per il Nome trascendente, ovvero alla realizzazione, in nome di questo Nome, dell’economia di giustizia terrena”. D’altronde anche la parola “lavoro” (avodà) in ebraico ha una densità senza equivalenti in italiano: indica infatti il lavoro quotidiano per la sopravvivenza, la sua degenerazione in senso schiavistico il cui modello (negativo) costantemente richiamato nella Torah è l’Egitto ma anche il culto divino. L’orientamento decisivo per trasformare il lavoro servile e coatto in piena realizzazione di potenzialità sta quindi forse proprio nel deserto, nel transito cioè nelle e dalle parole-cose.

Possiamo aggiungere un altro tassello. Il plurale di davar è devarim, le parole che nel numero di dieci vengono ascoltate-praticate nel deserto. Le dieci parole (“comandamenti” nella versione canonica greca e cristiana) vengono dunque date nel luogo del silenzio e della solitudine, ma anche della semplicità assoluta e del manifestarsi della parola divina già prima del monte Sinai, con l’episodio di Mosè di fronte al roveto ardente raccontata in Esodo/Shemot. Le dieci parole sono pronunciate e scritte, cioè provengono dalla trascendenza e sono fissate su lastre di pietra, in modo da costituire un riferimento materico pubblico e duraturo. Sono quindi parole Mi-Be, che vengono da e sono incise in.

Ma la profondità di Bemidbar non è ancora esaurita; non è esauribile, forse, proprio come non si possono contare i miliardi di grani di sabbia del deserto. Be e Mi, essere in e venire da, richiamano anche il rapporto complesso tra radicamento e memoria; tenute insieme in Bemidbar, alludono forse alla possibilità di uno slancio verso, un moto a luogo finalmente, che nel racconto della Torah corrisponde all’avvicinamento alla terra di Canaan. L’entrata in Canaan ha valore però esclusivamente nella misura in cui dà la possibilità di costruire forme di convivenza su premesse diverse e antipodiche rispetto a quelle dell’Egitto, realizzando l’economia di giustizia di cui parla Nicolini Coen.

La situazione di incompletezza e passaggio che il deserto descrive ha un risvolto drammatico nell’estinzione della generazione degli esuli dall’Egitto prima dell’ingresso nella nuova terra. Soltanto coloro che sono nati nel deserto entreranno a Canaan, gli altri moriranno senza prendere parte alla (iniziale) realizzazione della promessa, incluso Mosè, colui che secondo la tradizione guida i profughi fuori dalla schiavitù (Mi) e nel deserto (Be). Chi è stato asservito conserva anche dopo l’affrancamento tracce della schiavitù sui corpi, nel linguaggio e nel pensiero, nei desideri diurni e nei sogni notturni. Come ha scritto Primo Levi nell’introduzione alla Notte dei Girondini di Jacob Presser (Adelphi), “è ingenuo, assurdo e storicamente falso” ritenere che un sistema fondato interamente sulla sopraffazione – il riferimento di Levi va al nazionalsocialismo e ad Auschwitz – “santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada e le sporca, le assimila a sé”. Chi ha sperimentato la schiavitù può farsi testimone e sancire così il passaggio altrui verso la libertà ma, stritolato in un meccanismo tragico, difficilmente provare il gusto della libertà, sembra insegnare il percorso bemidbar, nel deserto. Non nel momento preciso dell’uscita dall’Egitto, bensì a partire dall’uscita dall’Egitto e per tutto il lungo e tortuoso percorso nel deserto, un gruppo di profughi diventa soggetto collettivo, assume cioè un’identità di popolo.

Il poeta ebreo egiziano di lingua francese Edmond Jabès ha scritto:
“Se Dio ha parlato nel deserto,
è per privare di ogni radice la sua parola,
affinché la creatura sia il suo legame privilegiato.
Faremo, della nostra anima,
un’oasi nascosta, diceva rav Abravanel”.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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