Cultura
Dall’alfabeto ad Auschwitz. Le ragioni di una scrittura non vocalizzata

La recensione del libro di Cosimo Nicolini Coen, “Il segno è l’uomo”, edito per Durango

Dimmi come scrivi e ti dirò chi sei. A cominciare da una questione tecnica, fondamentale e distintiva: scrivi le vocali che pronunci o no? Perché è qui il grande spartiacque tra il mondo ebraico e quello genericamente definito occidentale, il cui alfabeto comprende tutti i segni per trascrivere i suoni compresi nel proprio vocabolario. In ebraico invece sono le consonanti a rimanere, a fissarsi sulla carta o su qualunque altro supporto della scrittura. E proprio su questa differenza si basa il ragionamento di Cosimo Nicolini Coen, nostro collaboratore, ma soprattutto filsofo, nel suo libro Il segno è l’uomo. Pratiche di scrittura ebraica: alcune cosniderazioni teoretiche, appena uscito per Durango.

La disamina filosofica prende le mosse dal pensiero di Carlo Sini che nel suo studio sulla scrittura arriva a stabilire che il linguaggio nasce da un preciso supporto di scrittura e non il contrario, come comunemente si pensa. Ovvero, non è il procedimento mentale a condizionare la scrittura, che ne sarebbe semplicemente la trascrizione, ma la scrittura a condizionare il pensiero. Come scrive Davide Assael nella prefazione al volume, la vocalizzazione dell’alfabeto che avviene in Grecia con la relativa introduzione dell’alfa privativa, segna un netto spartiacque con il passato. In quel momento infatti il mondo occidentale comincia a dare forma al pensiero razionale – scientifico. Comincia cioè a voler oggettivare il mondo, a partire dalla sua essenza. Perché avere la possibilità di negare l’esistenza di qualcosa, come fa l’alfa privativa, significa poter pensare il non essere. Un fatto inedito fino a quel momento, che dà il via al principio di non contraddizione, quello secondo cui l’essere è e il non essere non è. In questo modo il soggetto parlante punta a descrivere la realtà, al di là e a prescindere dall’esperienza diretta che ne fa e convogliando in questa descrizione tutti gli aspetti più personali di se stesso in quanto soggetto.

La parola ebraica che indica la scrittura è mikrà che, come spiega  Assael, condivide la radice con likrò, leggere. Scrittura dunque è lettura nel mondo ebraico. “La differenza non è da poco” scrive Assael, “perché la lettura è ciò che si da nell’interpretazione. Da un lato, quindi, l’immagine occidentale di una scrittura che stabilisce significati fissi (scripta manent), dall’altra l’idea ebraica di una scrittura come supporto che favorisce l’interpretazione“.
Due mondi. Due punti di vista antitetici sul ruolo dell’uomo sul pianeta: definire o interpretare, oggettivare o interrogare. L’ebraico infatti resta una scrittura consonantica, dove le parole possono assumere significati diversi a seconda di come si leggono, a seconda di come si vocalizzano. Si può dunque scorgere nella stessa parola la presenza di significati diversi, a volte anche contrapposti. Pensiamo poi ai sensi chiamati a sostenere queste due filosofie: la prima, quella oggettivante e descrittiva, si basa sulla vista (ben evidente, nei secoli successivi, in S. Tommaso e Galileo Galilei); la seconda sull’udito: bisogna ascoltare per interpretare.

E qui il gioco si fa (ancora più) serio. Perché è proprio in questo iato che si consuma una delle rimozioni più importanti messe in atto dalla cultura occidentale e rilevate dalla filosofia, in particolare di Husserl: l’occidente, per il filosofo fondatore della fenomenologia, avrebbe dimenticato il mondo della vita, nella ricerca spasmodica dell’oggettivazione. Ecco perché, seguendo il filo del discorso di Nicolini Coen, proprio nel mondo occidentale, è stato possibile realizzare quella mostruosità che sono stati i campi di sterminio nazisti. Sono la rappresentazione estrema degli effetti di una scrittura oggettivante e annichilente, che non tiene conto della vita e che può arrivare ad annientarla nella più totale indifferenza. Roba forte.

Molto interessante il ragionamento condotto dall’autore lungo i due sistemi di scrittura e lungo il sistema precedente e fondante la scrittura, quello dell’enumerazione. Si contano le merci, che vengono segnate per essere individuate, riconosciute, rispetto alla lista che le contempla tutte, inclusi i loro eventuali movimenti (vendita, morte, furto…). Si contano gli schiavi. Si contano gli internati nei campi nazisti. “La Shoah si è rivelata sottrazione di umanità interpretante, purga teoretica, richiamando con tale epiteto ad altri crimini di altri totalitarismi, crimini che portano il nome di burocrazia, di amministrazione che, prima di ogni gulag, già sopprime l’istanza rivoluzionaria”, scrive Nicolini Coen. Che continua: “Purga teoretica finalizzata a eliminare i corpi inscritti –effettivamente o solo potenzialmente –nelle prassi grafiche ermeneutiche, eliminando, con essi, l’apertura interpretativa dal corpo sociale stesso. La genealogia dell’individuo viene a trovare nell’evento grafico della Shoah tragica riattivazione dell’antica e mai morta dialettica tra la scrittura enumerante, assoggettamento alla logica della classificazione e del dominio, e la scrittura soggettivante, dove –come visto a partire dall’atto di vocalizzazione del consonantico –l’assoggettamento al dispositivo grafico si inaugura e riverbera nell’inviolabilità del singolo, condizione di apertura di senso”.

Quella macchina dell’orrore messa a punto del sistema totalitario nazista aveva poi a che fare con il progresso. Era un sistema industriale, che faceva capo a una concezione macchinizzata della realtà, in cui la distruzione, la morte e il genocidio erano pensati in relazione ai sistemi di produzione. La linearità del progresso come concetto filosofico prima ancora che come realtà oggettiva ha a che fare anch’esso con il sistema di scrittura e con l’organo che lo supporta, la vista. E anche rispetto a questo elemento il ragionamento che Nicolini Coen propone in queste pagine è degno di nota. Perché mette in luce un’altra differenza saliente del sistema interpretativo ebraico: l’idea di progresso come ritorno al punto di partenza. Un ritorno profondamente diverso dall’andata, perché implica l’acquisizione di una consapevolezza, che sola può rendere possibile il viaggio. In ebraico progredire è lehitkadem, spiega Assael, dove kedem è l’Oriente, il luogo da cui tutto sorge. Il progresso è quindi un percorso verso l’origine. Un andamento che distingue il pensiero ebraico nettamente da quello occidentale, al di là di quello tragico e concentrazionario, ma che si intreccia con questo in modo irreversibile. Le implicazioni e le ragioni di questa compenetrazione tra i due sistemi culturali le racconta l’autore nel suo libro, ma certamente la psicoanalisi ne è un esempio evidente. Lo psicanalista si sottrae, un po’ come il Dio biblico, per intervenire solo in situazioni di estrema necessità, a guidare il paziente, protagonista del proprio viaggio verso l’origine, in una nuova consapevolezza di sè e del mondo. In una nuova capacità di ascolto. Dunque di lettura e quindi di scrittura.

Questo libro ha a che fare con il progresso. Perché il lettore che vi si immerge è costretto a compiere un viaggio verso le origini, per mezzo dell’acquisizione di sempre più precise consapevolezze. Del resto, lo studio di Nicolini Coen prende le mosse proprio da un bisogno personale di conoscere l’ebraismo e di confrontarlo con il pensiero occidentale. Quaslcosa che impone di operare una scelta, quella, come scrive l’autore, “di interrogare il senso d’essere delle due tradizioni, dunque la propria posizione nel mondo“. Et voilà: il viaggio di cui sopra è in primis quello personale di Nicolini Coen, che commenta così il proprio lavoro: “Ne risulta dunque un esercizio filosofico personale, nelle sue ragioni di fondo, eppure declinato nell’intento di formulare tesi, concetti e, finanche, immagini, le cui veridicità vorrebbero esulare il singolo per parlare alle esperienze, nuovamente personali, di altri soggetti –tra loro prossimi e distinti a un tempo”. Un invito al viaggio, dunque. Al proprio personalissimo ritorno all’origine.

Cosimo Nicolini CoenIl segno è l’uomo. Pratiche di scrittura ebraica: alcune cosniderazioni teoretiche, Durango

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


1 Commento:

  1. Buongiorno Micol. Grazie del suo buon articolo. Le segnalo solo un’inesattezza. Mikrà (מקרא) traduce la Scrittura, cioè i 24 libri del תנך , la Bibbia ebraica. Con « s » minuscola , scrittura in ebraico è כתיבה ktivà.
    Una buona giornata a lei.
    MT


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