Hebraica
Le tribù scomparse

Storia delle dieci tribù, del loro ritorno e di una geografia fantastica

Racconta il libro dei Re che il regno di Israele era composto da tutte le tribù tranne quelle di Giuda e Beniamino, che a propria volta intorno a Gerusalemme costituivano insieme il regno di Giuda. Dieci tribù dunque, attestate all’incirca nella zona dell’attuale Samària, nella valle del Giordano, intorno al lago di Tiberiade e a nord fino al Golan e al Libano meridionale. Dopo la conquista assira del regno di Israele nel 721 e le conseguenti deportazioni, le dieci tribù del nord scompaiono dalla scena della storia. E’ verosimile pensare a una graduale assimilazione nel contesto mediorientale in continua evoluzione, ma questo ci interessa qui fino a un certo punto. Più interessante, almeno da una prospettiva di storia delle idee, è il progressivo affermarsi della credenza presso gli ebrei di Gerusalemme, ma anche della diaspora babilonese e mediterranea, del ritorno un giorno delle tribù, che in qualche remoto luogo continuerebbero a esistere con una ben distinta identità e la consapevolezza di appartenere al popolo ebraico. E’ una leggenda che con il passare dei secoli acquista popolarità e si salda infine con l’ideale dell’attesa messianica, suscitando in epoca medievale e moderna esiti imprevedibili.

Alla base della credenza di un possibile ritorno delle tribù scomparse ci sono alcuni passi del Tanakh. Nel primo libro delle Cronache si attesta la presenza in esilio, presso il fiume Gozan, delle tribù di Reuven e Gad e di metà della tribù di Menashe “fino a questo giorno”. Ma se le tribù vivono da qualche parte in Oriente “fino a questo giorno” allora, come molti hanno pensato, è possibile il loro ritorno in un giorno futuro. Cenni alle dieci tribù compaiono anche nei libri profetici di Isaia, Geremia e soprattutto Ezechiele, che auspica il ricongiungimento di tutti i figli di Israele per farne “un popolo solo nel paese sui monti di Israele, un solo re sarà re per tutti loro, non saranno più come due nazioni e non saranno più divisi in due regni”. Numerose fonti del periodo del Secondo Tempio citano le tribù scomparse, senza mai dubitare della loro effettiva esistenza. Nelle Antichità giudaiche Giuseppe Flavio sostiene che si trovino in Siria, oltre l’Eufrate, e che siano composte da così tante persone da rendere impossibile un conto preciso. Nella Mishnà però rabbi Akiva, rispondendo a rabbi Eliezer, sottolinea che “le dieci tribù non possono ancora tornare”.

Tra la tarda antichità e i primi secoli del medioevo si afferma la credenza che le tribù risiedano oltre il misterioso fiume Sambatyon, che per sei giorni alla settimana ribolle e spumeggia e solo il settimo giorno, lo Shabbat, si placa. Poiché nessun ebreo oserebbe mettersi in cammino nel giorno consacrato al riposo, si spiega perché il ritorno delle tribù tarda a venire. Questo significa che gli ebrei non sono in grado di superare il fiume magico rimanendo ebrei; potrebbero farlo senza difficoltà il settimo giorno, ma violando lo Shabbat perderebbero ciò che più li contraddistingue dagli altri popoli, e non avrebbe più significato il ricongiungimento con i discendenti delle tribù di Giuda e Beniamino. Nel IX secolo è il viaggiatore Eldad haDani, che afferma di discendere dalla tribù perduta di Dan, a descrivere il Sambatyon e a localizzare le tribù perdute. Eldad visita l’Arabia, la Mesopotamia, l’Egitto, il Nordafrica e la Spagna e colloca la tribù di Issachar sui monti Zagros nel cuore della Persia, quella di Zebulon tra l’Armenia e l’Eufrate, quella di Reuven oltre le montagne di Paran, Efraim e metà della tribù di Menashe nell’Arabia meridionale, Simeone e l’altra metà della tribù di Menashe nella terra dei Khàzari dove riceverebbero tributi da decine di regni. Dan, Naftali, Gad e Asher vivrebbero invece oltre il fiume Kush, sulle rive del Sambatyon. Per Eldad il Sambatyon è un fiume di rocce e sabbia che travolge ogni cosa e che è circondato da fiamme. Alcuni studiosi hanno identificato il fiume Kush con il Nilo e la “terra dell’oro” dove scorre con l’Egitto, e hanno pensato di conseguenza all’Etiopia come al paese dove rintracciare le quattro tribù, compresa quella da cui Eldad afferma di provenire. Come segnala Umberto Eco (Storia delle terre e dei luoghi leggendari, Bompiani), è forse proprio il racconto di Eldad all’origine della popolare leggenda medievale del Prete Gianni, un sacerdote nestoriano che dominerebbe un impero situato in un meraviglioso e imprecisato oriente di cui parla anche Marco Polo oppure, secondo altre fonti, nell’Africa subsahariana. Altri viaggiatori medievali, ebrei e non ebrei, hanno raccontato di aver avuto contatti con le tribù scomparse. Tra questi Beniamino di Tudela, che nella seconda metà del XII secolo riferisce di averle incontrate durante un viaggio in Persia e in Arabia. Beniamino colloca a Nishapur, nella Persia settentrionale quasi al confine con l’Afghanistan, le tribù di Dan, Asher, Zebulon e Naftali, “governate dal principe Yosef Amarkala Halevi”; a Khaybar in Arabia, lungo il corso del misterioso fiume Habor citato dal libro dei Re, quelle di Reuven e Gad e metà della tribù di Menashe.

Nel XVI secolo il vescovo spagnolo Bartolomé de Las Casas identifica gli indios americani nei discendenti delle dieci tribù, nel frustrato tentativo di preservarli dallo sterminio. Meno di un secolo più tardi questa idea viene sviluppata in tutt’altra direzione dal marrano Antonio de Montezinos, che vive ad Amsterdam con il nome di Aharon Halevi e, al ritorno da un viaggio in Ecuador, narra di aver incontrato sulle Ande gruppi di indios che recitavano lo Shemà e si sarebbero rivelati discendenti di Reuven giunti in America addirittura prima di ogni altro popolo, pellirosse inclusi. Pochi anni dopo il racconto di Montezinos viene ripreso da Manoel Dias Soeiro, un altro marrano tornato all’ebraismo ad Amsterdam con il nome di Menashe ben Israel. Menashe in Olanda diventa rabbino e intellettuale noto anche fuori dalle comunità ebraiche, dove è in contatto con artisti e filosofi come Rembrandt e Grozio. Nel volume apologetico Esperança de Israel riporta la “scoperta” in Sudamerica delle tribù perdute e su questa base chiede, durante il regime di Cromwell, la possibilità per gli ebrei di tornare a risiedere in Inghilterra, da cui ufficialmente non erano più ammessi dalla lontana espulsione del 1290. In ebraico medievale l’Inghilterra era denominata ketzè haaretz, letteralmente “confine della terra” – riecheggia qui il gioco di parole inglese angle-terre, terra all’angolo, cioè al confine del mondo -; la residenza degli ebrei al “confine della terra”, quindi in Inghilterra, è allora condizione necessaria per la venuta del messia. Inoltre solo quando le tribù si ricongiungeranno con la parte restante del popolo ebraico il messia potrà arrivare. Menashe dedica l’edizione latina del suo libro al Parlamento inglese e nel 1655 ribadisce la richiesta alla presenza dello stesso Cromwell a Londra. Il suo tentativo non ha successo, contribuisce però a creare quel clima che di fatto consente a piccoli nuclei di marrani che praticano l’ebraismo ma non sono ufficialmente ebrei di stabilirsi sull’isola.

Dall’estate 1665, al tempo della grande esplosione del movimento sabbatiano che sconvolge gli equilibri dell’intero mondo ebraico, circolano voci secondo cui le dieci tribù si sarebbero messe in marcia per congiungersi al messia Shabbetay Zevi e alla moltitudine dei credenti. Nel testo poetico di un anonimo credente italiano che descrive il messia “nello splendore della sua bellezza” pronto a “soggiogare tutti i regni della Persia”, Gershom Scholem (Shabbetay Zevi. Il messia mistico, Einaudi) ravvisa un evidente riferimento alle tribù perdute e alla loro ricomparsa. Nell’arco di poche settimane, segnate dalla diffusa euforia per la rivelazione del messia a Smirne nel dicembre 1665, si moltiplicano i rapporti che parlano del ritorno imminente delle tribù, che sarebbero già in marcia nei deserti di Persia, Arabia e Nordafrica. A contribuire alla diffusione di simili racconti non solo fonti ebraiche, ma anche numerosi scritti di autori cristiani con inclinazioni millenaristiche come l’olandese Pieter Serrarius e lo scozzese Robert Boulter. Secondo alcune lettere prodotte da credenti ebrei le tribù di Reuven e Gad stanno marciando in armi verso Gaza, dove in quel momento risiede il profeta Nathan, che per primo aveva proclamato la missione messianica di Shabbetay Zevi. In breve tempo si infittisce lo scambio epistolare tra le comunità ebraiche delle due sponde del Mediterraneo ma anche a nord fino ad Amsterdam, Amburgo e la Polonia passando per l’Italia e i Balcani, a oriente fino alla Persia e allo Yemen. Molte voci annunciano la manifestazione del messia e riferiscono del ritorno imminente delle tribù, che avrebbero presto conquistato la Mecca e sbaragliato l’esercito turco. Alcune fonti parlano di decine di migliaia di soldati ebrei in marcia, altre di centinaia di migliaia, altre ancora di milioni. Secondo una testimonianza proveniente da Casale Monferrato l’esercito, che avrebbe già espugnato la Mecca, “è pronto a marciare contro i tedeschi e i polacchi, che tanto hanno perseguitato gli ebrei” (il riferimento va qui ai grandi pogrom che nel 1648 avevano sconvolto l’ebraismo in Polonia e Ucraina).

Secondo Scholem è probabile che le leggende sull’avvicinarsi delle schiere delle tribù perdute si siano sviluppate non per impulso diretto di Shabbetay o di Nathan, ma in modo spontaneo a seguito del generale stato di esaltazione per l’esplosione messianica. Le varianti che fondono fantasie popolari e elementi mistici nell’attesa del prossimo ritorno vittorioso delle dieci tribù sono numerose fino al riflusso successivo all’apostasia del messia nel settembre 1666. Ma ancora nel 1675 il credente Baruk di Arezzo racconta che un emissario delle tribù sarebbe giunto presso Nathan a Kastoria, nel Balcani, con una lettera più tardi consegnata a Shabbetay stesso a Dulcigno. “La consegnò nella mano pura del nostro signore in persona, ma i suoi contenuti non sono noti”, aggiunge Baruk, che però sèguita specificando che argomento della missiva è un invito rivolto al messia perché si unisca alle dieci tribù nascoste “durante il suo periodo di occultamento” successivo all’apostasia, cioè alla conversione formale all’islam di nove anni prima davanti al sultano. Alla morte di Shabbetay nel 1676 ancora Baruk spiega che “il nostro signore è andato dai nostri fratelli, i figli di Israele, le dieci tribù che sono al di là del fiume Sambatyon per sposare la figlia di Mosè. Se noi siamo degni, egli ritornerà subito dopo le celebrazioni del matrimonio per redimerci; se non lo siamo, allora egli indugerà lì fino a che non si saranno abbattute su di noi molte tribolazioni”. Baruk conclude riportando la notizia che un rabbino greco avrebbe visto “il nostro signore” Shabbetay, che lo avrebbe informato “che partiva quella settimana per la Tartaria, che è la strada giusta per il fiume Sambatyon”.

Nel corso dei secoli non c’è quasi popolo che non sia stato considerato discendente dalle dieci tribù: dagli abitanti del Kashmir – sulla base delle paraetimologie ebraiche di alcuni luoghi – a quelli del Caucaso, dai tartari dell’Asia centrale ai misteriosi khàzari, da nuclei di cristiani in Siria ai beta Israel dell’Etiopia, che oggi vivono in maggioranza in Israele e che leggende ancora ben vive dicono discendenti della tribù di Dan, con presumibile grande soddisfazione postuma di Eldad haDani. Ma c’è chi ha descritto come eredi delle tribù perfino i mormoni dello Utah, negli Stati Uniti, gli zulù, i giapponesi e i malesi. Secondo Richard Brothers (1757-1824), un malato psichiatrico inglese autonominatosi profeta e addirittura “nipote di Dio” – il posto del “figlio”, dissero allora le malelingue, era già occupato -, i discendenti delle tribù perdute sono nientemeno che gli abitanti delle isole britanniche. Ma c’è perfino di meglio. Nel secolo XIX l’irlandese John Wilson fonda il movimento del British Israelism su questa base: le dieci tribù sarebbero state deportate in Asia centrale, trasferendosi in un secondo momento nella regione del mar Nero e da qui, infine, in Inghilterrra, dove avrebbero acquistato capelli biondi e occhi azzurri e la stessa famiglia reale discenderebbe in linea diretta da re David. La prova? I saxons (sassoni) sono Isaac’s sons, i figli di Isacco, in barba alle scienze etimologiche.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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