Cosa significa sentirsi ebrei oggi? E cosa appartenere a una comunità? Fotofrafia dell’attualità con riflessioni sul tempo che verrà
Intendiamoci da subito: qualsiasi discorso sul ruolo delle «minoranze» è, di per sé, molto difficile. Soprattutto se si inserisce nel mentre in cui un’intera maggioranza, quella che è parte di ciò che noi riconosciamo come «nazione» o «Stato», sta vivendo a sua volta una profonda crisi di identità. Il tema dei cosiddetti «sovranismi» si inserisce appieno dentro questa logica. Poiché ci segnala la crisi di identità che i popoli stanno attraversando, non solo per via della «globalizzazione» ma anche, e soprattutto, per il riscontro che la strada dell’unificazione mondiale, basata soprattutto sull’estensione del regime di mercato, non è in alcun modo lineare. Non si tratta di inadeguatezza di società e culture. Semmai è il riscontro che i differenziali di potere, soprattutto tra chi ha (e quindi può e potrà) e chi invece non ha (non essendo in grado di incidere in alcun modo, neanche sulla traiettoria della sua medesima esistenza), si sono fatti molto più marcati di quanto già non lo fossero nel recente passato.
Il discorso sul ruolo delle minoranze nazionali, quindi, non può che partire da una tale premessa. Peraltro, queste ultime (tali per ragioni religiose, linguistiche, culturali, storiche o cos’altro), non hanno altro compito che sia quello di preservare, in buona salute, se stesse. Dentro l’alveo della collettività. Non esistono «missioni» da compiere. Continuare ad esistere è già in sé, un impegno non da poco. Dopo di che, c’è tuttavia anche qualcosa d’altro. Ossia, il fatto che ci si è assunti un legittimo impegno, a partire da quello di testimoniare che una storia di gruppo, quella ebraica, in Italia, costituisce l’indice di una vicenda ben più ampia, che chiama in causa non solo il nostro Paese ma l’intera Europa. Quando una minoranza parla di sé stessa chiama in causa, da subito, le condotte della parte restante della società, quella maggioritaria. In un gioco di specchi. Poiché l’eccezione richiama la norma. Pertanto, non si può quindi dire qualcosa di sé senza ascoltare, al medesimo tempo, ciò che ci ritorna da parte di coloro che ascoltano.
Riflettere su queste cose, senza correre il rischio di venire fraintesi, è francamente molto difficile. Non solo sul piano concettuale ma anche, e soprattutto, sul versante della comunicazione. Ovvero, quel contesto in cui si rischia di essere fatti oggetto, da subito, di un altrimenti immeritato insulto. Poiché la chiusura in sé, quella di chi si sente giudicato ritenendosi invece al di sopra delle parti – quando invece esiste proprio perché parte di una collettività nazionale – è immediatamente dietro l’angolo. Per tante ragioni. Nel caso ebraico, è senz’altro la reazione a secoli di emarginazioni, sudditanze, persecuzioni. Ma tutto ciò non basta per capire, e ancora meno per giudicare, il comune presente, quello che unisce ebrei a non ebrei.
Forse si dovrebbe iniziare a ragionare su un ebraismo 4:0. Qualcosa, per capirci, che si confronti non solo con le dinamiche interne di una minoranza compatta (tale poiché completamente integrata, nella sua specificità, all’interno della società italiana) ma anche con le trasformazioni che quest’ultima ha conosciuto, quindi riflettendole, inesorabilmente, anche sulla considerazione di sé. Poiché se si è componente, a partire dalle proprie specificità, di una collettività più ampia, in questo caso quella italiana, non ci si può tirare fuori ogniqualvolta qualcosa non coincida con le proprie aspettative. Infatti, non si rivendica il diritto alla propria unicità quand’esso non corrisponda al vincolo di reciprocità. Poiché se l’ebraismo peninsulare invecchia, e va facendosi sempre più numericamente ristretto, in ciò seguendo e assecondando i trend generali della società di cui è parte, al medesimo tempo rischia di rarefarsi, in una sorta di assoluta auto-referenzialità. Tale in quanto al racconto del tempo che si vive si sostituisce, invece, la nostalgia per ciò che si crede di essere stati. Qualcosa, francamente, di assai poco invidiabile, alla lente di uno storico. Si sa, tuttavia, che la malinconia per trascorsi idealizzati è parte di una sconfitta: quella che deriva dall’incapacità di capire quale sia la sfida del presente.
Nessuno ha il diritto di parlare per conto terzi ma, al medesimo tempo, non si può rivendicare, per parte propria, un’integrazione, più o meno felicemente compiuta, se non ci si confronta con le opinioni che arrivano dagli osservatori esterni. Che non possono solo esternare plausi e compiacimenti. In quanto qualsiasi esistenza, individuale così come di gruppo, è fatta di tante opportunità di reciproca comprensione quanto di altrettante non linearità, quindi di incomprensioni. Ecco, forse il primo problema è proprio questo, ossia l’incapacità di capire che la «tradizione» non corrisponde con una sorta di gelosa difesa di un perimetro esistenziale immaginario. L’ebraismo non è mai sopravvissuto allo spirito dei tempi senza, in qualche modo, adattarsi ad esso. Tradizione, da questo punto di vista, è anche comprensione: di sé come degli altri, senza nutrire l’angoscia di essere, per una tale ragione, contaminati, assorbiti e poi assimilati. Ci si adatta non per perdersi bensì per ritrovarsi.
Il secondo aspetto rilevante, in immediato riflesso, è che non esiste una «tradizione» millenaria fatta di condotte e pensieri immodificabili bensì un percorso di adeguamento nelle vicende dell’umanità. Di cui si è parte. Chi studia la storia ebraica ne coglie molti aspetti, a tale riguardo. La tradizione è un’ossatura, per così dire, consegnata al calco delle generazioni che trascorrono nel tempo. L’ebraismo, infatti, è una presenza storica non solo come mero riscontro fattuale (le persone e le comunità in quanto tali) ma anche culturale (i pensieri, del tutto mutevoli, così come i modi di stare insieme e interagire con l’ambiente collettivo). Ed i medesimi pensieri sopravvivono alle persone che li esprimono e li manifestano se sanno mettersi in rapporto con il mondo circostante. Che, nel nostro caso, perlopiù non è composto da ebrei, tanto per capirci. Senza questa consapevolezza, peraltro, lo Stato d’Israele non sarebbe mai nato. Il sionismo, a sua volta, si sarebbe ben presto esaurito, rivelandosi uno dei molti messianismi senza nessun respiro storico.
Un secondo aspetto è quello, in sé strategico, dell’identificare chi sia il depositario più autorevole dell’identità di gruppo. Un passaggio – quest’ultimo – ancora una volta estremamente delicato. In quanto il definire cosa sia lecito e ciò che invece non lo è, ossia quel che costituisca il campo della legittimità condivisa e ciò che ne è invece escluso, costituisce il vero nocciolo di quanto chiamiamo con il nome di «potere». Ovvero, della capacità non solo di nominare le cose che contano (e che esistono proprio per una tale ragione) bensì di renderle patrimonio collettivo. Esercitando – quindi – una diretta e immediata influenza sul proprio gruppo di riferimento. Un po’ in tutte le società si sta sviluppando, dinanzi ai riflessi negativi della globalizzazione dei mercati, il bisogno di avere delle certezze alle quali ancorarsi. A fronte della debolezza degli Stati nazionali, così come delle leadership laiche, molto spesso a tratti tecnocratiche, il campo della decisione, in politica, a volte coinvolge esponenti delle religioni. In un percorso di decadenza progressiva del secolarismo. Per capirci, non è solo un problema del mondo musulmano. A casa nostra si rivela con la necessità di aggrapparsi ad un tradizionalismo che riesce a definirsi soprattutto non per ciò che vorrebbe essere ma per quanto rifiuta, a partire dalla presenza del pluralismo nelle stesse minoranze nazionali. Che invece si ricompattano, del tutto illusoriamente, dietro ad un simulacro di identità fatto di cristallizzazioni, di finzioni, di credenze senza riscontro.
Tuttavia, il principio per cui sussiste «una libera Chiesa in un libero Stato» («Ecclesia libera in libera patria») rimane a tutt’oggi imprescindibile. In Europa ci sono voluti più di quattrocento anni di guerre di religione per acquisirlo come proprio. A tutt’oggi, ce ne accorgiamo, può essere rimesso ancora in discussione. Le minoranze nazionali, da una tale traiettoria, hanno solo da ricavare la loro rinnovata subalternità. Quella a venire. Poiché ad ogni forma di imputazione dell’identità nazionale ad un’appartenenza precostituita (religiosa, “etnica”, linguistica o cos’altro), come tale monolitica, corrisponde sempre e comunque – prima o poi – l’esclusione di quanti non sono identificabili con la sua plebisciaria esclusività. Cosa vuol dire quest’ultima parola? Che si è maggioranza proprio perché si possono squalificare le minoranze, indicate non tanto come elementi del pluralismo bensì come minaccia alla coesione sociale. È già successo, potrebbe ancora ripetersi.
Cosa implica tutto ciò? Un riscontro di fondo è quello per cui il discorso pubblico sulla «memoria» è destinato, prima o poi, ad esaurirsi. Ovvero, non ad essere completamente dimenticato ma – invece – a perdere la sua forza di propulsione. Si tratta di un terreno sul quale l’ebraismo italiano, e non solo esso, ha costruito parte significativa della sua immagine pubblica. Riallacciando, a ragione, il ricordo di sé a quello di un intero Continente. Con il rischio, tuttavia, di scambiare la propria identità con quella della «vittima eterna». Una sorta di eco impropria dell’antichissimo pregiudizio antigiudaico. Beninteso, per capirci ed evitare equivoci: non c’è nulla di male nel fatto che, dalla seconda metà degli anni Ottanta, l’impegno sia stato profuso in tale senso. Chi scrive queste note, per capirci, ne è stato parte tanto immediata quanto integrale. E tuttavia rimane il resto, ovvero la consapevolezza che gli ebrei esistono come tali e, quindi, non solo come vittime. Poiché è anche il fraintendimento in tale senso a ingenerare l’atteggiamento, oggi assai diffuso, per il quale quando l’ebreo, per l’appunto, non è vittima, allora non può che essere carnefice. La vicenda dell’immagine pubblica d’Israele, molto spesso manipolata, sta lì a raccontarcelo. Non basta quindi dire che si tratti di una falsificazione.
Un secondo riscontro è che alla traiettoria socio-demografica della Diaspora europea, contrassegnata da un sostanziale declino, a fronte – invece – della vivacità degli insediamenti israeliano e statunitense, va evidentemente accompagnato un qualcosa che non si riduca alla mera rassegnazione. I modi essere (e di sentirsi) ebrei in Europa, segnatamente anche in Italia, sono cambiati nel corso del tempo. Il pluralismo ne è parte integrante. Nulla si perde di quanto è inteso come tradizione nel momento stesso in cui si affronta, con determinazione, il trascorrere del tempo, delle generazioni, delle medesime sensibilità. A meno che non si abbiamo improprie rendite di posizione da difendere, mascherandole come «interesse collettivo», nel momento stesso in cui nascondono funzioni, finzioni e rendicontazioni personali.
Un terzo ed ultimo riscontro, tra i tanti ancora possibili, è che l’ebraismo italiano non è un partito. Come tale, non è di parte. Ovvero, non collima con una fazione, qualunque essa sia. Tuttavia, c’è qualcosa di non meno delicato che sta alle spalle di questo discorso. Si tratta della storia più recente. Nessun equilibrismo, per intenderci. Se non si è di una parte, non lo si è neanche dell’altra. In quanto si decide individualmente, e mai come gruppo, in chi e cosa riconoscersi. Il collettivo in sé – infatti – rimane neutro. Le donne e gli uomini che lo compongono, invece, non lo sono mai. Proprio perché cittadini, che vivono il proprio tempo e le sue passioni, scegliendo personalmente a tale riguardo. Se si parla di memoria, allora, non si può non ricordare da quale “parte” arrivarono le peggiori offese, quelle razziste. Destinate come tali, in una guerra di sterminio causata dalle medesime potenze europee di radice razzista, a cancellare le comunità ebraiche europee. Per il fatto stesso di esistere e null’altro. Non si tratta di essere «di destra» (ne esistono molte, tra di loro spesso incompatibili) o di «sinistra» (un termine che ha perso molta, forse troppa, aderenza con la realtà). SI tratta semmai di non illudersi rispetto al tempo a venire.
Si riparte da queste cose, maledettamente complicate ma ineludibili. Nessun rancore non elaborato né, tanto meno, una qualche rivalsa da esercitare. L’ebraismo italiano si sta troppo velocemente assottigliando. Rischia di scomparire, prima o poi. La vera assimilazione, ad oggi, sta in ciò e non nelle conversioni, come invece avveniva nei due secoli trascorsi, Il problema, in fondo, è non solo suo proprio. Rimanda semmai all’identità collettiva di un paese, il nostro, che senza il pluralismo collettivo, quello delle minoranze che lo abitano e lo animano, rischia di divenire l’ombra di se stesso.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.
Articolo in gran parte condivisibile, ma con qualche aspetto da chiarire. Quando si parla di Ebraismo 4.0, (forse quello a cui si dovrebbe tendere?), si parla di “minoranza compatta” (compattezza auspicabile?). In realtà le linee di faglia all’interno dell’ebraismo italiano sono molteplici: sul piano politico c’è una frattura tra ebrei radicalmente di destra e filogovernativi (meloniani? leghisti? italoforzisti? renziani?) contrapposti a ebrei “di sinistra” (anche se la sinistra in Italia appare oggi quanto mai frantumata e priva di una comune visione del futuro). Anche sulle vicende israeliane si può rilevare una frattura tra gli ebrei “filoisraeliani a prescindere” e gli ebrei radicalmente anti-Netranyahu (cosa che del resto accade anche in Israele). Sul piano religioso, poi, abbiamo i cosiddetti ultraortodossi o haredim (timorati), rappresentati in Italia soprattutto dai Hassidim Habbadnik, gli ortodossi più o meno modernizzati, i progressivi (riformati, liberali, ricostruzionisti), che si sono dati un assetto istituzionale (Federazione Italiana per l’Ebraismo Progressivo, 2017), per ora solo parzialmente riconosciuto dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che, secondo le Intese con lo Stato, dovrebbe rappresentare l’Ebraismo italiano in tutte le sue forme. Vi sono poi i laici radicali/umanisti, che criticano o rifiutano la dimensione religiosa dell’ebraismo, e lo vivono come un fatto puramente culturale, ma non per questo cessano di essere ebrei. Il collettivo, si afferma, dovrebbe conservare una neutralità che in realtà appare impossibile da mantenere: le decisioni istituzionali di solito si uniformano ad una maggioranza che tende a schiacciare (e scacciare?) tutti quelli che non si riconoscono in essa. Un pluralismo, quindi, molto conflittuale, che stenta a riconoscersi in istituzioni ed identità cristallizzate, e fatica molto a mettere in atto i necessari cambiamenti. Tutto ciò, anche per ragioni anagrafiche, espone l’ebraismo italiano al rischio della sua stessa sopravvivenza. Una legge antiquata, poi, spinge a dare un rilievo eccessivo alla comunità di Roma, che non può e non deve restare la realtà preponderante dell’ebraismo italiano, ma deve lasciare spazio alle altre comunità, sia storicamente radicate nelle varie città italiane, sia quelle nate da poco tempo.