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Qual è lo stato dell’ebraismo in Italia?

Fotografia di uno stallo, tra identità, identitarismo, conservazione e incoscienza storica

Queste non sono noccioline. Ovvero, non costituiscono parole gratuite come neanche il classico “sasso lanciato nello stagno”, tanto per fare un po’ di scena, magari sul momento, per poi velocemente smontare baracca e burattini e tornare quindi nel silenzio. Di esercizi manieristi e coreografici, peraltro, sono lastricate le strade dell’incomprensione.

Veniamo quindi al dunque. Qual è lo stato dell’ebraismo in Italia? Forse siamo in presenza di un paradosso. Oppure, pensandoci, tale non è, non almeno ad osservare le cose con uno sguardo un po’ meno superficiale di quello che, altrimenti, si è disposti ad offrire ad esse. Mentre l’ebraismo, a partire proprio da quello italiano, gode di un’attenzione mediatica, e di pubblico, che è andata crescendo dagli anni Ottanta in poi, non essendo solo la risultante dell’immagine di una «minoranza» bensì il calco storico e culturale di una più grande collettività – ossia, nel nostro caso, di un intero Paese, e quindi della sua stragrande maggioranza, composta da cristiani – la sua presenza demografica va ridimensionandosi, sempre più spesso racchiusa, così com’è, in classi di età avanzate. In parole spicciole, si parla di ebrei nel momento in cui la loro presenza va progressivamente rarefacendosi. C’è un qualche nesso tra l’una cosa (il rendere oggetto di attenzioni mediatiche una minoranza) e l’altra (il misurarne la consunzione numerica)? Evitiamo facili speculazioni così come banalizzazioni. Cerchiamo invece di capire perché una tale attenzione pubblica (beninteso, a volte non sempre benevola) si manifesti proprio in un tornante demografico invece decrescente. Certo: l’impatto culturale di un gruppo non lo si misura esclusivamente sul numero di elementi che lo compongono. Semmai conta il ruolo che storicamente ha esercitato. Tuttavia, ciò non basta per arrivare ad una qualche conclusione.

Non c’è comunque solo questo aspetto. Si tratta anche d’altro, che pure non è per nulla estraneo alla trasformazione nella composizione della società ebraica peninsulare. La quale, comunque, continua a dare anche segni di vitalità, soprattutto nel Meridione d’Italia. A non pochi – infatti – il dibattito interno alle Comunità, e ai suoi organismi nazionali, pare essere spesso ingessato. Ossia, incapace di andare oltre non solo alle medesime posizioni già manifeste, quelle in qualche modo precostituite, ma ad un orizzonte, altrimenti disegnato a priori, dove chiunque non adotti schemi di pensiero e di espressione collaudati rischia non solo di essere frainteso bensì di subire un qualche scherno pubblico.

Al limite, soprattutto quando si scade nel confronto virtuale – laddove le responsabilità sono e rimangono comunque sempre personali – di una sorta di gogna mediatica, tra irrisioni e vituperi, sarcasmi e rifiuti. La qual cosa, in sé, è ancora più incongrua dal momento che non esiste una “linea ufficiale” nell’ebraismo italiano, alla quale tutti dovrebbero allinearsi, se non per ciò che, del tutto legittimamente, costituisce il perimetro della difesa (e promozione) della sua continuità storica ed esistenziale.

L’ebraismo non è un partito. Almeno su questo ultimo aspetto non si potrà che concordare. Raccoglie il pluralismo di coloro che ne sono parte come anche le influenze del dibattito che si svolge intorno ad esso. Dopo di che, è proprio sul modo in cui intendere il senso di quel “perimetro di difesa” che invece le posizioni non solo divergono (e fin qui poco o nulla di male) ma, troppo spesso, si contrappongono, fino alla censura reciproca. A tale riguardo esiste anche il fenomeno del «fuoco amico», che si esprime con un’intransigenza che rasenta l’intolleranza verso l’altrui opinione. Si tratta di un costume di comportamento che si associa a quel populismo comunicativo che è grande parte del tempo che stiamo vivendo. Al pari di certo revisionismo spicciolo, e di uno stile di condotta intellettuale che porta al rifiuto identitario di ogni forma di dialogo, un tale approccio, nel mentre disseziona ogni affermazione altrui – decontestualizzandola, privandola dei significati che la corroborano, trasformandola in materia di pura polemica – al medesimo tempo si erige a giudice implacabile di un’ortodossia culturale che non ammette repliche. Non sono mai il dibattito e l’analisi critica a dividere; semmai è il gusto dello scontro implacabile a fare appassire la vitalità che pure sussiste ma fatica a manifestarsi.

Non di meno, mentre da una parte si chiede legittimamente a tutti gli italiani di comprendere e riconoscere le radici storiche e le ragioni civili di una minoranza, dall’altra si rischia di essere inesorabilmente intransigenti nel giudicare quelle posizioni che non traducano la comprensione in mera identificazione, ossia in un rapporto acritico, quindi aprioristico, non tanto con la propria storia di gruppo bensì con l’idea prevalente, a tratti immaginaria, che di essa si nutre. In una sorta di richiesta di allineamento, non si sa bene neanche rispetto a qualcosa che non sia, il più delle volte, pura ricostruzione in chiave di insindacabile mitografia. Si tratta, in quest’ultimo caso, di un meccanismo ideologico che assume ed indossa vesti tanto rilucenti quanto ingannevoli. Tali poiché abbaglianti, in grado di produrre incrostazioni che, nel corso del tempo, sono destinate a non fare più fluire la corrente dell’identità. In quanto quest’ultima non è mai un elemento fermo, fisso, immobile ma un muoversi nel tempo. Se non trova canali di scorrimento, è obbligata a divenire una sorta di anacronismo.

In ciò che diciamo non c’è nessuna licenza poetica, né un gratuito filosofeggiare – tanto per capirci – bensì la consapevolezza che coloro i quali pensano, e quindi osservano, quanto è passato come se costituisse un tempo senza storia, rischiano di mummificare non solo ciò che fu ma anche, e soprattutto, il presente. Proprio ed altrui. Si scambia infatti troppo spesso la sclerosi per auto-protezione, la separazione per conservazione, il particolarismo per tradizione. E molto altro ancora.

Liberarsi dalla necessità di nutrire il bisogno di illusioni è invece la premessa per non ingannarsi da sé. Poiché qualsiasi questione che rimandi alle idee diffuse, di senso comune, ha a che fare con quella condizione che chiamiamo con il nome di «potere»: è tale ciò che, avendo la forza di includere, può al medesimo tempo decidere di escludere, emarginando quanti non intendano sottomettersi ad esso. Da sempre è così. Non è una questione “ebraica”; si tratta di un fatto sociale, che attraversa tutti i gruppi storici. Un tale riscontro deve quindi indurre a non pensare che la preservazione di una storia collettiva debba sempre e comunque risolversi in coloro che esercitano, di volta in volta, una egemonia di comunicazione rispetto al gruppo di appartenenza. Non è una lotta tra persone, e men che meno tra schieramenti precostituiti, bensì un problema di equilibri e tolleranze tra le diverse parti. Equilibri, per capirci, che non evocano improbabili par condicio e, ancora meno, lottizzazioni di sorta. Semmai domandano di non utilizzare temi e problemi come terreni di dogmatismo e di scomunica.
Proprio per tali ragioni, se la lotta contro l’antisemitismo deve essere patrimonio comune, per ebrei e (soprattutto) non ebrei, bisogna allora capire non solo cosa si stia chiedendo agli interlocutori ma anche che cosa possa essere offerto in chiave di apertura, scambio e condivisione. In quanto il rapporto, tra minoranze e maggioranza, non è mai univoco. Semmai biunivoco, richiamando un obbligo di restituzione: se tu mi ascolti, e cerchi di capirmi, al pari mi impegno a comprenderti. Anche nelle tue contraddizioni. Fermo restando un riscontro che, invece, a molti sfugge: l’ebraismo non si riduce esclusivamente al racconto delle sofferenze sopportate e ad un lacrimevole passaggio su questa terra. Non si può racchiudere e risolvere la sua dimensione storica solo ed esclusivamente nelle persecuzioni subite. Come invece piacerebbe a non pochi interlocutori. Altrimenti il sionismo, e lo stesso Stato d’Israele, non sarebbero mai esistiti. Su un tale piano inclinato, una riflessione rispetto al tema ricorrente della «memoria», sui suoi molti usi ma anche su alcuni abusi, ovvero sulle sue torsioni di significato, a questo punto si imporrebbe. In maniera laica e pacata.

Sì, è vero: si continua a parlare degli ebrei soprattutto in rapporto alla Shoah. Ossia, di quella catastrofe collettiva che ha cercato di cancellarne la presenza planetaria. Lo stesso interesse per la cultura ebraica, e per la sua profonda presenza nella società dei gentili, viene spesso risolto in questa immedesimazione, a tratti quasi sentimentale ed affettiva. Non per questo, tuttavia, si deve assecondare una tale prassi, quand’anche da essa se ne possano trarre quei legittimi riscontri di tangibilità che, invece, non sono riconosciuti dal costituire una cultura e un insediamento complessi, fatti di continuità e discontinuità, di narrazioni e di interruzioni, di passaggi così come di incontri, commistioni, condivisioni. L’ebraismo è sopravvissuto al tempo (e nel tempo) proprio per questa sua capacità adattiva. Non è camaleontismo ma è pluralismo interno. Che a certuni piaccia o meno.

Ed al riguardo, in un oramai non troppo recente numero di Moked, si era già avuto modo di scrivere: «c’è uno spettro che si aggira per l’Europa; non è quello del comunismo e neanche del fascismo bensì quel fantasma della libertà che è costituito dall’aggrapparsi al discorso sulla “identità”. Soprattutto quando quest’ultima è millantata per una qualche forma di diritto assoluto, inderogabile, non giudicabile (“io sono ciò che dichiaro di essere, punto e basta”) mentre nei fatti è invece un dovere imposto a terzi, in nessun modo negoziabile (”avete l’obbligo di piegarvi alla signoria del mio giudizio, altrimenti siete in fallo”).

Come esiste una malattia dello Stato nazionale nell’età della sua crisi, ed è il sovranismo, così si dà una patologia del carattere individuale, e del pensiero di gruppo, che è l’identitarismo. Cerchiamo di capirci. […] L’identità, in sé, è un architrave fondamentale del modo in cui le persone intendono se stesse. […] L’identitarismo è invece la perversione del presupposto identitario, in quanto lo trasforma in un mero costrutto ideologico. E ciò avviene quando l’identità perde quel tratto non solo soggettivo, personale, quindi fluido, destinato a modificarsi nel tempo – per adattamento ai mutamenti dell’ambiente circostante – ma anche la sua natura di elemento di comunicazione. Fatto che si verifica tanto più nel momento in cui gli individui, tra di loro consorziati, si arroccano nella rivendicazione di uno spazio di gruppo completamente chiuso rispetto a qualsiasi influenza esterna: una sorta di recinto mentale, prima ancora che altro, ossia un confine d’acciaio che finge di potere prescindere da qualsiasi confronto con ciò che gli sta intorno. I fondamentalismi di ogni genere e risma, quindi non solo quelli religiosi, storicamente soddisfano un tale criterio di condotta. Ma per estensione sono anche altri gli atteggiamenti collettivi che ne rimangono interessati. Il tratto comune a tutti è il riferimento ad una qualche forma di paura da contaminazione: se mi confronto e mi “confondo” con ciò che è diverso da me, rischio di corrompermi. Ragion per cui mi rinserro in me stesso, nel mio gruppo di omologhi e rifiuto tutto quanto possa in qualche misura rimanere estraneo da ciò. […] L’identità, quindi, come tratto profondo, ascritto, [al pari di] un calco ineludibile e non trasformabile; non invece [elemento della] personalità, in quanto prodotto storico. I fondamentalismi, d’altro canto, da sempre cancellano la storia come racconto della trasformazione degli individui, delle comunità e delle società. Nell’età della globalizzazione, l’angoscia da omologazione così come il timore per un tempo a venire del quale non si colgono i lineamenti, possono produrre molti mostri. Soprattutto quelli che abitano i pensieri di chi non riesce a pensarsi».

Ecco, forse bisogna ripartire anche da quest’ansia che, a volte, sembra essere lenita da una tentazione desecolarizzante, quand’anche, in fondo, ciò non segni ritorno alcuno alla religiosità ma, piuttosto, un vagare tra suggestioni di improbabili uniformità, laddove invece ciò che si ottiene è una crescente incoscienza di sé e della propria medesima storia.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


2 Commenti:

  1. Sono totalmente d’accordo con questo testo. In questi anni ho patito attacchi continui perche mi occupo di prevenzione di genocidi e cerco di allargare il concetto di giusti con i giardini che creo in Italia e nel mondo ad altri giusti che hanno operato per la salvezza dell’altro in condizioni estreme. Tutto questo mi ha portato ad agire in solitudine all’interno della società, sapendo di essere considerato un eretico da parte di chi in nome dell’identità ha costruito un tribunale di inquisizione. Cosi mi è sembrato che l’ebraismo e i suoi esponenti si comportassero alla stregua di un partito che deve dare la linea e bacchettare i deviazionisti. Nulla a che vedere con l’identità ebraica plurale di cui sono orgoglioso.

  2. Interessante articolo, che però presenta un’omissione: quella della nascita, a partire dal nuovo millennio, e della crescita dell’ebraismo progressivo. Ad oggi sono presenti in Italia cinque comunità progressive (2 a Milano, una a Roma, una a Firenze ed una a Bologna) più altre havuroth (a Torino e a Bergamo/Brescia) che fanno riferimento alla Federazione Italiana per l’Ebraismo Progressivo ed all’European Union for Progressive Judaism. Vi sono anche altre realtà in Calabria, a Genova e a Catania che si muovono autonomamente, al di fuori di organizzazioni strutturate a livello nazionale. Suggerisco all’autore di prendere in considerazione anche queste realtà, che si pongono in modo critico rispetto alla visione unilaterale della tradizionale Halachà del rabbinato ortodosso, e propongono una halachà che tenga conto delle conquiste della modernità.


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