Cultura
“Leopoldstadt”, il gioco scenico biografico di Tom Stoppard

40 personaggi in cerca di memoria. Quella biografica dello scrittore inglese, quella universale della Storia del Novecento. Ovvero: la saga dei Metz nel quartiere ebraico di Vienna

È il testamento spirituale di Tom Stoppard, 85 anni, guru e maestro del teatro inglese,  e anche il suo far i conti con il proprio passato ebraico (era nato in Cecoslovacchia. Si salvò dalla Shoah bambino perché la madre sposò un britannico). Sua madre in seguito non gli raccontò mai niente di quella memoria, riemersa per caso quando l’autore era già anziano durante l’incontro in un caffè con un lontano cugino, che non sapeva di avere. La madre, come in un film, se ne stava seduta a pochi tavoli di distanza. Era seccata, sconvolta che il figlio venisse a conoscenza di una verità che lei aveva accuratamente occultato per tutta la vita.

Ecco uno di quei casi in cui l’ispirazione è addirittura più interessante dell’opera stessa: Stoppard deve aver sempre sentito il bisogno inconscio di rimettere a posto i pezzi, di vederci chiaro, fino alla decisione di comporre il puzzle con l’arte, di voler parlare di una famiglia, non necessariamente la sua, vissuta in quegli anni di terrore.

Ambientata a Vienna, nel quartiere ebraico Leopoldstadt da cui il testo prende il titolo – anche se la storia non si ambienta lì –  l’opera inizia negli ultimi giorni del 1899 e segue una famiglia numerosissima, i Metz (quaranta i personaggi in scena tra consanguinei e domestici) per tutto il ventesimo secolo.
Il tema dominante che pervade l’atmosfera generale è proprio la delusione di quei borghesi, viennesi, assimilati a cui soltanto la storia che si svolge fuori ricorderà di far parte di una famiglia ebraica: per gli ebrei l’abisso è sempre aperto, si dice in un punto. Si comincia proprio da una festa di Natale con un grande albero che porta sulla punta una stella di David e si procede fino al 1955, percorrendo un periodo di tempo in cui i componenti del nucleo Metz cadranno come birilli.

Quaranta personaggi sono tanti: anche se ti tieni accanto un albero genealogico alla fine ti perdi.
Quaranta personaggi sono irritanti, pure per il lettore o lo spettatore più paziente.

Forse Stoppard ha sentito il bisogno di giocare con un numero così elevato di trame proprio per affermare la vita sulla morte, per contrastare lo sterminio che risucchiò nel nulla tutti quegli ingenui amanti di Klimt, Mahler, Schnitzler e Freud?

Sul palco più che quello che accade è interessante quello che non avviene. Perchè durante la notte dell’Anschluss nessuno bussa alla  porta dei Metz risparmiandoli? Oppure è straziante il gioco che l’autore fa con il destino dei personaggi: quello che dicono, che pensano non prevede affatto la tragedia che capiterà loro e che lo spettatore ormai ben conosce, al punto che un’ironia amara, quasi cechoviana, sembra la cifra stilistica di questo dramma, in cui fatti storici e ingenuità umana si rincorrono come gatto e topo.

I Metz non sanno, non vogliono vedere quello che li aspetta e che si svolge davanti ai loro occhi, continuano a vivere all’interno della loro grande casa come se fosse il giardino dei ciliegi, con la stessa inconsapevolezza che hanno Rosencrantz e Guilderstern quando recano con sé il messaggio che li condanna a morte.

Forse un materiale così denso, ampio e caleidoscopico sarebbe stato più adatto a un romanzo che a un’opera teatrale che pure, recentemente portata a Broadway da Patrick Marber, ha riscosso ampi consensi.
Lo dico con un pò di invidia drammaturgica: solo in America è possibile raccontare una saga familiare con quaranta personaggi, che dura più di due ore in scena.
In Italia non viene accordata la stessa fiducia al teatro, al pubblico, agli autori e a i registi.
O forse, in Italia non abbiamo soldi e tutta quella storia infinita di dolore e capricci del caso siamo abituati a stringerla nei monologhi.

Tom Stoppard, Leopolstadt, Faber & Faber (in lingua inglese), pp. 128

Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

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