Cultura Cibo
L’oca, il maiale kasher

Storie e ricette intorno al prelibato pennuto che piaceva anche a Re Salomone

Troppo grossa per volare, è noto che l’oca non può muoversi granché. Questo però non le ha impedito di fare lunghi viaggi nel corso dei millenni. Addomesticata dagli antichi Egizi, era già nota al popolo di Israele almeno tremila anni fa, tanto da essere presente, sembra, perfino sulla tavola di re Salomone. Di sicuro, faceva bella mostra di sé nei banchetti dei Romani, che avevano acquisito l’uso di ingrassarla, c’è chi dice già per consumarne il fegato, più credibilmente per evitare che prendesse il volo, restando così legata ai cortili o al massimo ai piccoli campi in cui poteva essere facilmente allevata.
Sempre in epoca romana, comunque, pare che le fossero già preferiti polli e piccioni, mentre in quella medioevale sarebbe quasi scomparsa anche dal Medio Oriente, dove avrebbe mantenuto un certo successo solo in Persia, tra gli Ebrei che la consumavano perlopiù in occasioni di festa come Rosh Hashanah. Nel frattempo, pare che tra i Sefarditi non avesse mai guadagnato terreno, considerata già allora troppo grassa e dal sapore troppo forte.

A questo riguardo, si può fare un lungo salto in avanti e riscontrare come anche nell’Italia centrale dell’Ottocento il pennuto fosse piuttosto raro, almeno tra i cristiani. In una nota dedicata all’oca domestica della sua Scienza in cucina, Pellegrino Artusi racconta le origini antiche dell’animale, citando l’immancabile Campidoglio e concentrandosi poi sulla fortuna dell’oca presso gli ebrei come sostituto del maiale. Lo studioso ricorda quanto lui stesso ne apprezzi la preparazione lessata aggiungendo, però, che a Firenze e in Toscana sia difficile trovarla sul mercato, sembra a causa della pesantezza delle carni. Tutto un altro discorso, invece, vale per la Germania, dove l’animale viene arrostito ripieno di mele e apprezzato da stomaci ben più forti, pare, di quelli mediterranei.

Ed è proprio in Germania e nell’Europa del Nord e dell’Est che ritorniamo con un nuovo salto indietro nel tempo. Snobbata o quasi tra i popoli del Sud a favore di volatili più magri, l’oca nell’Alto Medio Evo si impone nelle regioni più settentrionali, in particolare nelle città e presso le comunità ebraiche.
Sull’evidente vantaggio di una carne che potesse sostituire quella suina si è già detto, ma vale la pena puntualizzarne alcuni aspetti. Al pari del maiale, l’oca non rappresenta solo una fonte preziosa di carni grasse e nutrienti, ma si presta anche a essere impiegata fino all’ultimo cicciolo. Oltre a essere kasher, è anche facile da allevare in luoghi angusti, con il vantaggio aggiuntivo di essere di bocca facile, accontentandosi anche di mangimi di bassa qualità. Inoltre, se non viene macellata prima, ha una vita che può arrivare a trenta e più anni, fornendo dunque uova per un periodo lunghissimo.
Per quanto sia triste rimarcarlo, però, è da morta che l’oca può essere sfruttata completamente. Se da una parte le sue carni possono essere trattate come quelle dell’anatra, in umido o arrostite, dall’altra se ne può estrarre il grasso e usarlo come base dello schmaltz. Ingrediente simbolo della cucina ashkenazita, questo condimento è sempre stato il gustoso sostituito dell’olio in tutte quelle regioni in cui gli estratti vegetali rappresentano un bene di lusso, prendendo il posto del burro in una tradizione come quella ebraica che limita l’uso dei derivati del latte. Protagonista quindi di fritture come di arrosti, lo schmaltz di oca rappresenta una delle chiavi del successo del grosso pennuto presso le comunità del Nord Europa. Queste stesse comunità influenzeranno notevolmente non solo la gastronomia legata ai precetti religiosi, ma anche quella non ebraica, interessata comunque agli impieghi più succulenti di un animale tanto versatile.

Si può aprire una parentesi su quello che è uno degli impieghi più universalmente noti di questa candida creatura, ossia la produzione del foie gras attraverso il suo ingrassamento forzato. La storia racconta che l’inventore del paté di fegato così come lo conosciamo oggi, sotto forma di pasticcio in crosta, sia stato uno chef di Strasburgo, Jeanne-Pierre Clause. La creazione sarebbe avvenuta verso la fine del Settecento e la materia prima sarebbe stata il fegato delle oche ingrassate dagli ebrei alsaziani. Su questo punto, però, la tradizione si divide, così come le posizioni pro e contro una pratica attuata, come si è visto, fin dai tempi più antichi. Combattuti tra la ricerca di alimenti kasher e il rispetto delle norme religiose che vietano anche ogni forma di crudeltà sugli animali, gli ebrei si sono spesso trovati di fronte al dilemma se produrre e consumare o no certe specialità. Pare che fin dall’anno Mille le autorità religiose discutessero se fosse legittimo ingrassare a forza le oche, con autorevoli commentatori come il francese Rabbi Shlomo Yitzhaqi (Rashi) che ritenevano la pratica contraria alla Legge. Qualche secolo dopo, nella Polonia del Cinquecento, Rabbi Moshe Isserles si mostrava invece più elastico. Arrivando al presente, con gran parte dei Paesi Europei che vietano la pratica e in alcuni casi, come in Svizzera, anche l’importazione di prodotti dai Paesi più permissivi, tra gli ebrei osservanti è ancora acceso il dibattito se la nutrizione forzata delle oche sia o no da considerarsi un maltrattamento e se sia quindi in contrasto con i precetti religiosi. Così, lo stesso foie gras, tanto apprezzato gastronomicamente quanto contestato moralmente, ottiene la certificazione kasher solo a condizione che gli animali provengano da allevamenti che non procurano danni agli animali nella somministrazione dei mangimi.

Restando sulle virtù, diciamo così, naturali del pennuto, resta il fatto che l’oca sia dotata di carni decisamente grasse e che questa caratteristica l’abbia resa cara nei secoli a tutte quelle popolazioni che per latitudine, clima o semplice consuetudine non disdegnano la presenza di alti tassi lipidici nella dieta. Si è detto del Nord Europa e delle comunità ebraiche ashkenazite, ma non si deve dimenticare che l’oca ha conosciuto una importante diffusione anche nel settentrione italiano, in particolare in Veneto e in Lombardia. Come già accennato, la relativa facilità di allevamento di questi animali anche in spazi angusti ne aveva favorito la diffusione nei nuclei urbani oltre che nelle aie delle case contadine. Se a questo uniamo la loro generosità e versatilità, non dovrebbe stupirne la diffusione a Venezia, in quello che era stato il primo ghetto in assoluto, istituito nel 1516. Qui, a causa di un’epidemia scoppiata tra le oche nel 1830, ne era stato affidato il censimento al medico Giuseppe Levi, che aveva contato la bellezza di 1580 capi, “praticamente un’oca per ogni ebreo all’epoca residente in città, il che va anche a sottolineare la centralità dell’oca nel mangiare alla giudia” come sottolinea Donatella Calabi nel suo libro Venezia e il Ghetto.

Non troppo lontano, nella confinante Lombardia e nella Bassa Padana, le oche erano tra le specie più allevate nei cortili delle cascine, così come erano diffuse le modalità di preparazione e di conservazione delle loro carni, uno su tutti il prelibato prosciutto d’oca di Ferrara. Nella pianura lombarda era molto apprezzata l’oca in unto arrostita e conservata nei vasi di terracotta, ricoperta del suo stesso grasso disciolto, così come i salami d’oca venivano insaccati nella pelle del collo dell’animale proprio come nella tradizione ebraica. Discorso analogo vale per le preparazioni tipiche venete, in particolare per la conservazione delle carni crude, affermatasi presso le comunità ebraiche locali, ma inserita nei manuali di cucina regionale italiana del secolo scorso come specialità tipica locale.
Sempre a proposito di preparazioni tradizionali, non si può non dedicare una nota finale a una delizia presente nei ricettari regionali così come nella tradizione culinaria ashkenazita.Parliamo dei ciccioli d’oca, come vengono indicati nella tradizione della Bassa Lodigiana e padana in genere, dove sono indicati anche come gripole o gribale. Presenti pure a Venezia con il nome appena diverso di gribole, e protagonisti di una preparazione tipica del ghetto come la fugazza cole gribole (dove vengono impastati con il pane), si presentano in tutti i casi come dei pezzettini di pelle, recuperati dall’animale in fase di macellazione o di salatura e quindi cotti fino a diventare croccanti.
Giunta in Italia alla fine del Trecento, questa specialità della cucina ashkenazita fu introdotta nelle nostre regioni dai profughi della Renania e della Baviera. Qui, fin dai tempi più antichi i “gribenes” erano il risultato della preparazione dello smahltz. A conferma che dell’oca non si butta via nulla, per sfruttarne anche la pelle, tanto ricca di grasso quanto velocemente deperibile, presso le comunità ebraiche del Nord Europa si usava friggerla a tocchetti nel suo stesso unto e consumarla al momento, o quasi. Diffuse presso tutti i livelli sociali, le gribole venivano mangiate come antipasto nelle famiglie più ricche, rappresentando invece il piatto principale di carne per quelle più povere. Semplice spuntino del sabato nelle case più fortunate, diventavano ingrediente portante di zuppe e insalate in quelle meno abbienti. E se in tempi più recenti lo spauracchio del colesterolo ha frenato anche i più accaniti buongustai, questi piccoli concentrati di grasso, sapore e calorie non hanno perso la propria aura di cibo sfizioso per eccellenza e, nel loro piccolo, di gustoso punto di contatto, scambio e confronto tra culture solo apparentemente distanti.

Oca conservata (antica ricetta veneta)

Ingredienti:
un’oca ben grassa
grasso d’oca
olio extravergine d’oliva o di semi
sale

Spennare l’oca, fiammeggiarla per eliminare la peluria residua, svuotarla e lavarla. Staccare quindi i filetti del petto e i quarti posteriori, metterli in un recipiente non metallico, spolverizzarli con abbondante sale e lasciarli riposare in luogo fresco per 8 giorni.
Appendere i pezzi d’oca in luogo caldo e ventilato e lasciarli così dai 7 ai 10 giorni, fino a quando la carne sarà bene asciutta. Strofinarla quindi con un canovaccio per pulirla e asciugarla, poi trasferire i pezzi in vasi di vetro o di terracotta con coperchio a chiusura ermetica perfettamente puliti e asciutti.
Coprire la carne con grasso di oca fuso unendo eventualmente dell’olio di oliva o di semi se non dovesse bastare. Chiudere i vasi e riporli in dispensa.

Ciccioli d’oca e oca in vaso (antica ricetta lombarda)

Ingredienti:
un’oca
3 spicchi d’aglio
una bustina di spezie
sale

Staccare la pelle all’oca con annesso grasso e tagliarla a pezzetti, metterli in una pentola con un bicchiere di acqua fredda e far bollire lentamente rimestando ogni tanto fin quando si formeranno i “ciccioli”. Lasciarli dorare, scolarli e salarli, conservando il grasso rilasciato.
Spolpare l’oca e tagliare la carne a pezzetti di circa 3 cm, metterli in una zuppiera, salarli e aggiungere l’aglio sbucciato e tritato con le spezie. Mescolare e lasciare riposare per 2 ore.
Trasferire la carne in un vaso e versarvi sopra il grasso scaldato dei ciccioli, in modo da ricoprirla completamente. Mescolare e chiudere ermeticamente. Conservare in frigo.

Schmaltz mit gribenes (antica ricetta ashkenazita)

Ingredienti
500 g di grasso d’oca
240 g di pelle d’oca
1 cipolla dorata

Spezzettare il grasso e tagliare la pelle a striscioline, poi riunirli in una padella capace e dal fondo spesso con mezzo bicchiere d’acqua e cuocerli a fiamma media e senza coperchio per circa 35 minuti o comunque fino a quando l’acqua si sarà asciugata e il grasso sciolto.
Abbassare la fiamma al minimo e aggiungere la cipolla sbucciata e tritata, poi cuocere per circa 1 ora, fino a quando la pelle avrà assunto una colorazione dorata intensa.
Scolare i gribenes e filtrare il grasso di cottura, poi conservarli in frigo in contenitori separati.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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