Cultura
Mordecai Richler e le scorrettezze del politicamente corretto

Dentro “La storia di Mortimer Griffin”, romanzo sull’identità, la moda e i simboli in cui lo scrittore canadese propone una radiografia dei miti d’oggi assolutamente attuale

Il successo della Versione di Barney – assolutamente straordinario in Italia – cominciava non molti mesi prima della morte dell’autore Mordecai Richler. Era il 2001. L’aspro, corrosivo, ironico e autoironico narratore ebreo canadese non era al suo primo libro ma all’ultimo, certo il suo più importante perché complesso, divertentissimo e commovente allo stesso tempo, ma anche perché in grado di tenere insieme ciò che tutta l’opera di Richler aveva espresso nei quaranta anni precedenti. In questa non insignificante produzione La storia di Mortimer Griffin rappresenta una tappa importante eppure quasi del tutto trascurata, perfino nel nostro paese, il più barneyano al mondo, quello in cui della Versione sono state vendute circa cinquecentomila copie.

La storia di Mortimer Griffin esce in inglese nel 1968, ma solo nel 2015 viene pubblicato in italiano. Sull’onda lunga della Versione, pubblicata in Italia nel 2000, l’editore Adelphi ha proposto romanzi e perfino saggi precedenti di Richler. Prima gli altri, il Mortimer per ultimo. In copertina, come nelle due edizioni italiane della Versione – quella principale e quella economica – una fotografia dell’autore, come a riproporre ancora e sempre l’equazione tra personaggio (Barney oppure Mortimer) e scrittore. Una chiave di lettura al contempo suggestiva e fuorviante. Un depistaggio, d’altra parte, a cui lo stesso Richler in qualche misura si prestava.

Può sembrare discutibile soffermarsi oggi su un testo uscito in edizione originale 55 anni fa. Il fatto è che con il tempo il romanzo guadagna vitalità sempre nuova. È un paradosso, uno dei molti che popolano l’universo vagamente dadaista di Richler: oggi il libro è più attuale che al momento della sua uscita. Sia chiaro, non significa che il messaggio sia per forza condivisibile o accettabile, significa che non possiamo fare finta di nulla, che ci colpisce come una frustata. Il grande tema affrontato da Richler un po’ in tutti i suoi libri, ma qui con inusitato vigore, è quello che viene usualmente definito “politicamente corretto”. Polcorr, per coloro che ne sono più spesso ossessionati – quasi sempre i suoi più accaniti fustigatori. Nel 1968 delle università occupate e delle rivendicazioni sindacali, delle ombre nere e rosse, del “vogliamo tutto” e del “vietato vietare”, del femminismo e dei prodromi della questione ambientale, delle comuni cinesi e della guerra sporca in Vietnam ma anche oltrecortina della libertà invocata e repressa, in questo anno che assurge a simbolo più che a segno di uno spartiacque La storia di Mortimer Griffin cade come un oggetto fuori tempo. Il pretesto di Richler è sparare ad alzo zero contro la Swinging London e certi diffusi slogan, vezzi e mode della meglio gioventù di quegli anni. Ma la critica feroce dello scrittore canadese, come detto, travalica i tempi ed è oggi più viva che mai.

Mortimer Griffin è un tipo normale con una famiglia normale, una vita normale, un lavoro normale, ambizioni normali. Ed è in procinto di essere travolto da un misterioso, potentissimo produttore hollywoodiano che ambisce a conquistare l’immortalità; da nuove segretarie della casa editrice in cui lavora più simili ad androidi che a umani; da crescenti, angosciati dubbi sulla propria virilità; da spregiudicati giornalisti, amici e colleghi che lo accusano di antisemitismo, razzismo, conformismo e chi ne ha più ne metta; dalla moglie – tutta cremine e saponette profumate fino al giorno prima – che comincia una relazione alla luce del sole con un personaggio che più sudicio non si può; dal figlio di otto anni che a scuola viene avviato al sesso (i testi in adozione sono le opere del marchese De Sade) in nome della verità e della spontaneità, del chiamare le cose con il loro nome, del rifiuto del moralismo, della repressione e così via (non manca una recita scolastica in cui i giovani studenti hanno da dimostrare quanto hanno appreso). Il problema è che Mortimer è normale. Maschio, bianco, adulto, cittadino, belloccio, eterosessuale, wasp. Davvero troppo normale. Di conseguenza – qui la satira di Richler esplode feroce – è colpevole. E allora giù randellate, in un tunnel dove le tinte prevalenti sono quelle del comico e del grottesco, ma in cui Richler sparge anche qualche pizzico di horror. Neanche a dirlo, fa ridere da matti.

Qualche parola in più merita il rapporto di Mortimer con l’ebraismo, o meglio con gli ebrei che affollano le pagine del libro. Mortimer non è infatti ebreo, diversamente dai protagonisti di altri romanzi di Richler. Lui, quantomeno, è convinto di non esserlo anche se c’è qualcuno che non è d’accordo. Lo spregiudicato giornalista Jacob Shalinsky, che ritiene che non esista piacere più grande dell’essere ebreo ed è sempre in caccia dei “nostri ragazzi”, è infatti convinto che lo sia e vuole sapere perché e quando si è cambiato il cognome. Va da sé che Shalinsky nutre la propria missione di certezze granitiche. Quando Mortimer racconta gli approcci del molesto giornalista al suo amico Hy, che è ebreo per davvero, comincia la frana. Il racconto zoppica, la battuta non riesce. Nessuno ride. Imbarazzo. In breve, per Hy Mortimer diventa un antisemita, un odiatore di ebrei, un nazista.

“Non ti ho visto molto in giro, ultimamente” disse un giorno Mortimer a Hy.
“Sto perlustrando le strade in caccia di bambini cristiani” replicò Hy […] “Ci servono per i nostri cruenti rituali, non lo sapevi?”.

Poi la cosa dilaga in tutta la casa editrice presso la quale i due lavorano. L’ambiguo Tomasso gli fa:

“Mort, sei antisemita?”.
“No”.
“Sei ebreo, allora”.
Mortimer si alzò di scatto.

In una battuta, il cortocircuito del politicamente corretto – secondo Richler: s’intende che possiamo anche non essere affatto d’accordo. Mortimer non si trattiene e sbotta contro il suo persecutore, l’onnipresente Shalinsky, “quel rompiscatole di un ebreo” da cui tutto è cominciato. Apriti cielo. Seguono lettere, una petizione, dialoghi a dir poco kafkiani, l’addio della fino ad allora fidata miss Fishman. In un vertice di comicità in tutti i sensi nera,

l’indomani Mortimer fu fermato per la strada da un giovanotto dall’aria seria che si presentò come uno dei luogotenenti di Colin Jordan nel British National Party. “Noi siamo a disposizione” disse. “Se c’è qualcosa che possiamo fare -”.

Il British National Party è il principale movimento neonazista inglese dopo la Shoah, Colin Jordan il suo esponente più noto per decenni. E questo è solo il primo dei movimenti e dei lupi solitari, “altri gruppi e cani sciolti, tutta gente da tempo consapevole dell’esistenza di una cospirazione internazionale ebraica”, che “gli scrissero invitandolo a tenere conferenze e offrendo il loro aiuto. Tutte cose che spinsero Mortimer a bere ancora di più”.
Mortimer cede. Va da Shalinsky. È disposto, almeno in teoria, ad ammettere tutto purché lo sollevi dalle sabbie mobili in cui si è (o lo ha?) impantanato. In un brano che rappresenta un manifesto perfetto dell’incomunicabilità tra esseri umani degno del migliore teatro dell’assurdo, Mortimer gli confessa addirittura il tradimento della moglie Joyce:

“Mia moglie mi ha piantato per un altro. Sono stato buttato fuori di casa”.
Shalinsky fece un cenno di assenso, con un’aria indicibilmente triste. “I matrimoni misti” disse “non funzionano mai”.
Mortimer batté il pugno sul tavolo. “Ma perché sto qui a parlare con lei…”
“Ah, Griffin…”.
“Ho lasciato il mio posto alla Oriole”.
“Griffin, il capro espiatorio”.
“Ci sono dei killer che mi cercano, anche in questo momento”.
“Be’, adesso lo tocca con mano, adesso sa. È difficile essere ebrei”.
“Io non sono” disse Mortimer afferrando Shalinsky per le spalle e scuotendolo “ebreo!”.
“Ma Griffin, Griffin, non capisce? Un ebreo è un’idea. Oggi lei è la mia idea di un ebreo”.

Mordecai Richler, La storia di Mortimer Griffin, Traduzione di Giovanni Ferrara degli Uberti, Adelphi, pp. 243, 18 euro

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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