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Olivo simbolo di fertilità, salute e benedizione

Secondo alcune interpretazioni, l’albero della vita nel Giardino dell’Eden avrebbe potuto essere proprio un olivo e l’olio ricavato dai suoi frutti sarebbe il più adatto ai riti religiosi proprio perché estratto dall’“albero della misericordia”

Non è possibile parlare delle olive senza occuparsi dell’albero che le produce. E non solo per ovvie ragioni botaniche, ma perché il valore simbolico delle une è indissolubilmente legato a quello dell’altro. Basti pensare al celeberrimo ramoscello di olivo e al suo rapporto con la pace. È in questa forma che la pianta delle olive compare per la prima volta nelle Scritture, quando nel Libro della Genesi si presenta a Noè una colomba con un suo rametto nel becco. Prova che le acque si erano ritirate dopo il diluvio e che la terra aveva ricominciato a dare i suoi frutti, quel ramo sarebbe diventato un simbolo universale di pacificazione.

È poi all’albero dell’olivo, in quanto sempreverde, che nel Salmo 52,10 sono paragonati i giusti che si riparano sotto la protezione di Dio. Secondo alcune interpretazioni, l’albero della vita nel Giardino dell’Eden avrebbe potuto essere proprio un olivo e l’olio ricavato dai suoi frutti sarebbe il più adatto ai riti religiosi proprio perché estratto dall’“albero della misericordia”. Passando dal sacro al profano, l’olivo è da sempre considerato anche un sinonimo di regalità. E l’olio estratto dai suoi frutti sarebbe per questo il più adatto a ungere i re.

Senza inoltrarsi negli infiniti utilizzi e nelle altrettante sterminate simbologie dell’olio, ci limiteremo qui ad affrontare il tema dell’albero e dei suoi frutti. Simbolo di fertilità, di salute e di benedizione, la pianta di olivo è mostrata nelle Scritture come ricca di tralci che spuntano dalle sue radici proteggendone il tronco e assicurandone la continua esistenza nel caso fosse tagliata. Deriverebbe da qui l’immagine contenuta dei Salmi dei “tuoi figli come alberelli di olivo intorno alla tua tavola” così come il legame con lo sradicamento e il mettere radici. E sarebbero soprattutto le sue caratteristiche di longevità e di resistenza alle avversità a trasformare l’olivo in sinonimo di fertilità e di rinnovamento.

Tra i paesi culla dell’olio di oliva, terra in cui ancora oggi fruttificano piante millenarie, non è un caso che lo Stato di Israele presenti nel proprio stemma due rametti di olivo che circondano una menorah, mentre in quello del suo esercito si vede un ramo circondare una spada. Albero dell’olio e della saggezza, l’olivo era considerato simbolo di pace già presso gli antichi Greci, che ne utilizzavano un ramoscello, capace di scacciare gli spiriti maligni e portare l’abbondanza, come supplica per gli Dei e i potenti. Da qui il suo significato si sarebbe diffuso presso le culture prima del bacino del Mediterraneo e poi di tutto il mondo.

Passando dalle simbologie all’albero in sé, secondo alcuni storici le sue origini risalirebbero a migliaia di anni fa nel sud della Siria, dove tuttora cresce anche in forma selvatica. Coltivato in Palestina prima dell’arrivo degli Israeliti, quando questi vi giunsero trovarono vasti territori ricoperti di olivi, in particolare nella Galilea occidentale, e impararono dai Cananei come farlo crescere e soprattutto innestarlo per farlo fruttificare. Del resto, si trattava pur sempre di una delle sette specie che secondo il Deuteronomio sarebbero cresciute nella Terra Promessa, insieme al frumento, all’orzo, alla palma da datteri, il melograno, la vite e il fico. Iniziata 6000 anni fa nel Levante, la produzione di olio avrebbe raggiunto in Israele il suo massimo splendore in epoca romana, quando da qui proveniva gran parte delle derrate destinate alle diverse province dell’impero.

Per quanto notevolmente sviluppate, per molto tempo le coltivazioni sarebbero servite solo per produrre olio e al più per sfruttarne il legno, ma non per mangiarne i frutti. Infatti, a causa della oleuropeina, sostanza amara presente in tutte le varietà di olive, queste non sono certo il massimo come alimento da gustare al naturale. E se nel processo di preparazione dell’olio questa molecola in parte si disperde e si trasforma, perdendo le note sgradevoli, per eliminarla dalle drupe è necessario un trattamento ad hoc. Chi sia stato il primo ad applicarlo nella sua forma rudimentale non si sa, ma piace immaginare che migliaia di anni fa un viaggiatore che vagava lungo le coste del Mediterraneo sia stato così affamato da assaggiare un’oliva caduta nell’acqua salata e l’abbia trovata meno terribile rispetto a quelle che si trovavano invece in terra o ancora attaccate all’albero. Da qui l’idea di lasciare immersi i frutti in una salamoia, ossia in una soluzione di acqua e sale, per addolcirli. Il passaggio successivo, quello cioè del trattamento con la liscivia (la soda caustica), sarebbe arrivato grazie ai Romani, che in questo modo trattavano anche le olive verdi, dalla componente amara più intensa. Dopo due settimane di ammollo le drupe erano pronte per essere immerse nella salamoia o passate a secco nel sale. Volendo limitarsi a questo solo trattamento, il tempo di attesa può raggiungere i due anni o “solo” un anno, schiacciando le olive per consentire al sale di penetrarne più facilmente la polpa.

Uno dei parametri che distinguono ancora oggi le diverse categorie di olive è proprio il loro processo di addolcimento e di conservazione. Nel Mediterraneo sono molto amate le cosiddette olive alla greca, nere e in salamoia, dal caratteristico gusto occasionalmente affumicato, mentre può capitare che alcune tipologie in scatola della grande produzione siano in realtà olive verdi trattate con la soda che hanno preso il colore dall’aerazione e dal contatto con il gluconato ferroso.

Tornando alla raccolta, va ricordato che le olive destinate al consumo possono essere staccate ancora verdi dall’albero tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, a differenza di quelle che dovranno essere spremute, che maturano invece sulla pianta, scurendo e diventando più ricche di olio. Le drupe possono essere raccolte a mano o per scuotimento, battendo la pianta con bastoni. Questo secondo sistema ha l’inconveniente di rompere alcuni rami e di rendere così meno ricco il raccolto successivo. Usato fin dai tempi biblici, tale metodo ha fatto guadagnare all’oliva l’ennesima citazione nelle Scritture, nel Deuteronomio, dove si legge che i frutti dei rami caduti dovessero essere donati ai poveri. La raccolta a mano sarebbe stata comunque la più comune in epoca mishnaica. Chiamata masik, prevedeva che le dita passassero lungo i rami quasi spremendoli e facendo così cadere i frutti ancora integri nelle mani.

Sebbene ne esistessero di varietà e dimensioni diverse, l’oliva è stata indicata come dimensione standard per molti halakhot e l’espressione “terra degli ulivi” è stata interpretata come “una terra il cui principale standard di misurazione è l’oliva”. È alle dimensioni di questo frutto che fa riferimento il kezayit, unità talmudica di volume corrispondente approssimativamente a un’oliva media. Che poi questa stessa oliva, privata del nocciolo e consumata, rappresenti a sua volta un kezyait o una quantità di cibo inferiore, non trova tutti d’accordo, ma in sede gastronomica la questione pare assumere un valore relativo. Nei luoghi in cui questi piccoli e preziosissimi frutti sono più diffusi, ossia i paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente, le olive non sono certo consumate una alla volta. Non solo trafitte da uno stecchino e sospese in un Martini, possono diventare le protagoniste di ogni pasto della giornata. Si va dalla prima colazione dei primi coloni israeliani, che dopo ore di lavoro nei campi le consumavano alle nove del mattino con pane, formaggio e verdure fresche, a quella, ben più opulenta, ancora oggi servita negli hotel di tutto il Paese. Immancabili in molti stufati e arrosti dei pasti feriali e di festa, rappresentano anche una nota vivace da aggiungere a insalate e antipasti.

Le centinaia di olive diverse sono classificate sulla base delle varietà, delle dimensioni, del colore e del luogo di origine oltre, come già detto, del tipo di trattamento subito. Il loro gusto varia dal blando al forte, mentre consistenza e sapore dipendono sia dalla varietà sia dal tipo di clima e di suolo in cui crescono o dal grado di maturazione. Una volta conciate, possono poi essere marinate con innumerevoli tipi di aromi, erbe e spezie, acquisendo così sapori via via più intensi a seconda anche della loro età e della loro capacità di assorbimento.

 

Sigari al tonno e olive nere

 Ingredienti:

200 g di pasta fillo

400 g di tonno sott’olio o al naturale

1 mazzetto di coriandolo

1 limone

1 cucchiaino di semi di cumino

2 cucchiai di capperi dissalati

10 olive nere

2 uova

olio di semi di girasole

peperoncino

Sgocciolare bene il tonno, trasferirlo in una larga ciotola e spezzettarlo con una forchetta. Unirvi abbondante coriandolo tritato, il succo del limone, il cumino, un pizzico di peperoncino, i capperi sciacquati e asciugati e le olive denocciolate e sminuzzate. Aggiungere le uova e mescolare con cura.

Tagliare i fogli di pasta fillo in rettangoli di 30×12 cm, spennellarli di olio, poi sovrapporli formando 20 pacchetti. Distribuire un cucchiaio del composto di tonno lungo uno dei lati corti della pasta, lasciando un margine da richiudere sopra, poi arrotolare il resto ripiegando a metà lavorazione il lato lungo sul ripieno in modo che il ripieno non fuoriesca.

Disporre i sigari così preparati su una placca foderata con carta da forno, spennellarli con un velo di olio e cuocerli in forno già caldo a 160° per circa 35 minuti, fino a quando la superficie apparirà dorata e croccante. Sfornarli e servirli caldi o tiepidi.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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