Cultura
Primo Levi e l’etica del lavoro

Esiste per Levi una moralità del lavoro che è quanto di più alto è dato nella vita all’uomo e in cui possiamo leggere una risposta al lavoro coatto di Auschwitz sul duplice piano etico e politico

L’uomo è il più intelligente degli animali perché ha le mani, si legge in un frammento del filosofo greco Anassagora. Oltre duemila anni prima di Darwin, Anassagora non dice che l’uomo è più intelligente degli animali, ma che è il più intelligente degli animali, cioè che fa parte del regno animale ma si distingue dagli altri animali per una intelligenza superiore – e non per il possesso esclusivo di essa.

Riconduce, inoltre, il motivo di questa più spiccata intelligenza al possesso delle mani, suggerendo una relazione stretta tra intelligenza e manualità, tra pensiero e azione plasmatrice e creatrice. Sappiamo che Primo Levi, curioso nei riguardi di soggetti vasti e vari, non era un appassionato di filosofia, verso la quale anzi ammetteva di nutrire sospetti fin dal liceo frequentato in anni fascisti quando a imperare nella scuola italiana erano le inafferrabili, proteiformi metamorfosi dello spirito sotto la doppia egida gentiliana e crociana. Levi tuttavia avrebbe certo condiviso la posizione di Anassagora, perché sapeva che il mestiere implica sempre l’uso combinato delle mani e dell’ingegno. Ovunque e ad Auschwitz, dove tutto è portato all’estremo, più che altrove. Intelligenza e manualità combinate costituiscono la base di quella che nel Lager viene chiamata “organizzazione” e che consiste nell’azione incessante per cercare di sfruttare ogni piccolo vantaggio o ridurre gli svantaggi anche a danno degli altri deportati. Levi ha d’altronde più volte affermato che senza il mestiere di chimico – in cui si saldano pensiero e operazione manuale – non si sarebbe salvato.

Le mani del chimico che in laboratorio traffica tra alambicchi e vernici sono le stesse mani che Primo insieme all’amico Sandro mette sulla roccia, trovando nell’alpinismo una via di libertà capace di condurre lontano dall’aria inquinata del fascismo che come una cappa plumbea domina la città. Con quelle stesse mani i due amici impugnano le armi nella guerra partigiana cominciata dopo l’8 settembre: Levi in valle d’Aosta per breve tempo fino all’arresto e alla deportazione, Sandro fino a un giorno di aprile del 1944, quando viene assassinato da un quindicenne fascista a Cuneo, dove una targa oggi lo ricorda. Nel Sistema periodico, lo stesso libro in cui Levi racconta l’amicizia con l’“uomo di ferro” Sandro, lo scrittore torinese evoca la propria passione per il mestiere di chimico: “Mi buttai nel lavoro con lo stesso animo con cui, in un tempo non lontano, attaccavamo una parete di roccia; e l’avversario era sempre ancora quello, il non-io, il Gran Curvo, la Hyle: la materia stupida, neghittosamente nemica come è nemica la stupidità umana, e come quella forte della sua ottusità passiva. Il nostro mestiere è condurre e vincere questa interminabile battaglia”. In anni in cui l’interesse della critica era soltanto agli albori, Paola Valabrega ha mostrato che la mano per Levi non è semplice esecutrice di pensieri, ma “indispensabile generatrice di idee”. Lo scrittore aveva ben chiara d’altronde l’importanza della mano nel processo evolutivo nella descrizione di Darwin.

C’è naturalmente un altro genere di lavoro centrale nelle opere di Levi, ed è il lavoro forzato nel Lager. Si tratta non di un mestiere voluto, ma evidentemente di un lavoro imposto che ha il solo scopo di sfruttare fino allo sfinimento l’energia dei deportati, posticipando la loro uccisione di massa di alcuni mesi. Intorno all’universo concentrazionario vediamo però anche altre figure oltre alla moltitudine in larga maggioranza di ebrei condotta verso l’annientamento. È il caso di Lorenzo, il muratore piemontese che salva Levi dalla morte per fame fornendogli una parte della sua razione di cibo tra l’estate e l’autunno 1944. Lorenzo non è un deportato e pur essendo costretto dai tedeschi a prestare la propria opera di manovale “volontario”, cerca di svolgere il proprio lavoro al meglio. Il suo istinto del lavoro ben fatto sopravvive perfino in luoghi dove sarebbe logico sabotare. Nei Sommersi e i salvati Levi lo descrive come persona che “detestava la Germania, i tedeschi, il loro cibo, la loro parlata, la loro guerra; ma quando lo misero a tirare su muri di protezione contro le bombe, li faceva diritti, solidi […] non per ossequio agli ordini, ma per dignità professionale”. Lorenzo ricorda in parte il colonnello inglese Nicholson nel Ponte sul fiume Kwai. Anche l’ufficiale di sua maestà britannica che nel film di Lean viene obbligato dai giapponesi a costruire un ponte in Birmania cerca di compiere l’opera nel migliore dei modi e finisce per scontrarsi con i suoi compatrioti che per danneggiare il nemico vogliono farla saltare. Nicholson però agisce in nome di una supposta superiore maestria nel lavoro inglese e per una sorta di rivincita morale; Lorenzo lavora bene – perfino per i tedeschi – in nome di un’etica del lavoro in sé inattaccabile.

C’è una continuità tra il lavoro forzato del Lager e il lavoro in fabbrica dopo il ritorno a Torino? Tra l’assassinio di massa e la quotidianità in tempo di pace? I contesti sono evidentemente lontanissimi, eppure in più di una circostanza, soprattutto negli ultimi anni di vita, Primo Levi ha suggerito che qualcosa in comune c’è. Sia chiaro, dal punto di vista quantitativo la distanza è enorme, eppure c’è qualcosa per Levi nella qualità della vita ordinaria – di cui il lavoro è parte fondamentale – che contiene una scintilla che troviamo come incendio nel Lager. Non è una posizione provocatoria e non deve sconvolgere. L’intento dello scrittore è collocare Auschwitz saldamente sulla terra, sottraendola alla regione metafisica e tutto sommato confusa del “male assoluto” o del “silenzio di dio”. Auschwitz è stata, ed è stata prodotta da uomini, quindi è possibile che si ripeta. Rappresenta un estremo non comune, ma possibile. La scintilla non è un incendio, ma può provocare un incendio. D’altra parte nella Tregua il Greco dice che “guerra è sempre”, cioè anche dopo l’apertura dei cancelli di Auschwitz e la fine del conflitto mondiale. Lo stesso titolo del secondo libro di Levi, quello in cui racconta l’avventura picaresca e a tratti comica del ritorno a casa attraverso l’Europa liberata, suggerisce non un giro di pagina ma una sospensione momentanea. Una tregua appunto. Così come l’ultima pagina agrodolce di Se non ora, quando?, in cui alla nascita di una nuova vita è contrappuntisticamente accostata la notizia della bomba atomica su Hiroshima.

Che il lavoro renda liberi è una grande verità che Levi condivide. Il fatto è che i nazisti la affiggono grottescamente all’ingresso dei campi della distruzione, come una modalità tra le tante per disintegrare l’umanità prima ancora di distruggere fisicamente le vite degli uomini. Per questo, e non perché non vera, è una frase oggi indicibile. Esiste tuttavia per Levi una moralità del lavoro che è quanto di più alto è dato nella vita all’uomo e in cui possiamo leggere una risposta al lavoro coatto di Auschwitz sul duplice piano etico e politico. Sul piano etico, perché con il lavoro è possibile a ciascuno realizzarsi come individuo e raggiungere almeno potenzialmente sprazzi di felicità. Sul piano politico, perché al lavoro collettivo dei deportati-schiavi corrisponde l’alternativa del lavoro catalizzatore di consapevolezze, relazioni sociali, scoperte: un lavoro creativo disalienante in un mondo che dai tempi di Marx è cambiato, nonostante qualcuno si ostini a chiudere gli occhi di fronte alle trasformazioni.

A questo lavoro inteso come massima espressione delle potenzialità umane Levi dedica La chiave a stella, in cui si mette in ascolto dei racconti colorati e rocamboleschi del montatore Faussone. Faussone è figlio di una tradizione artigiana di attaccamento al lavoro tipicamente piemontese, una tradizione umile del fare bene ciò che si sa fare e di ammirazione per l’opera finita. Come notava fin dall’uscita nel 1978 Corrado Stajano, La chiave a stella non è un racconto dell’aristocrazia operaia ma la storia di chi fa quello che fa con attenzione e intelligenza, credendoci profondamente. Non è un libro costruito sull’ideologia – mosca bianca in quegli anni tra i contributi sul tema – e per questo non invecchia. Altri recensori erano stati di avviso diverso. Per alcuni il lavoro operaio andava classificato in quanto tale come sfruttamento e condanna. Tuttavia la polemica contro Levi sulle pagine di “Lotta continua” oggi è totalmente e giustamente dimenticata, le pagine della Chiave a stella sono invece più vive che mai.

Il rapporto con la propria professione è simile a quello con il proprio paese, scrive Levi. Quindi complesso, spesso ambivalente e di solito “compreso appieno solo quando si spezza” con l’esilio o l’emigrazione in un caso, con il pensionamento nell’altro. È un mestiere, non semplicemente un lavoro meccanico. Di lavori se ne possono fare tanti, di mestiere si è fortunati se in una vita se ne trova uno. “Il mio mestiere è quello di scrivere, e io lo so bene da molto tempo”, esordisce Natalia Ginzburg in uno dei racconti più iconici delle Piccole virtù, e non va confuso con i tanti lavori svolti per avere uno stipendio. Il mestiere di Primo Levi era quello di chimico o di scrittore, oppure di chimico-scrittore? In ogni caso era un mestiere fatto con le mani e con la testa.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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