Cultura
L’ebraismo in Piemonte – seconda parte

L’ebraismo piemontese, soprattutto quello di derivazione “francese”, nel tempo, ha manifestato una vocazione a consorziarsi, a moltiplicare le occasioni di scambio, superando le difficoltà della dispersione territoriale

Proseguiamo, dunque, con il nostro ordine di riflessioni. Posto che luoghi e tempi, gruppi e comunità, saperi e identità, cambiano sempre nel corso del tempo. Ossia, muta il significato di ciò che intendiamo con queste ultime parole. Il pensiero, consolandosi da sé, tende invece a ritenere che nulla sia destinato a cambiare. Ma, come faceva dire Shakespeare al suo Amleto, «ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia». Abbiamo già detto che nel Piemonte, in età medioevale, poi della prima modernità, la presenza ebraica era, al medesimo tempo, relativamente esigua e, al medesimo tempo, disposta spazialmente secondo mutevoli criteri. Seguiva in ciò le concessioni che venivano di volta in volta offerte a quei capifamiglia che esercitavano perlopiù l’attività del credito. La quale, per essere intesa appieno sul piano storico, richiede, per l’appunto, di seguire la via del prestito ad interesse, ossia non solo del denaro ma anche della sua cessione. L’unico vera risorsa sulla quale l’ebraismo italiano, disseminato in una società cristiana, poteva confidare. Non per virtù propria bensì per licenza altrui. Qualcosa, per capirci, che nel tempo avrebbe costituito non solo elemento di forza ma, anche e soprattutto, di segregazione se non di persecuzione.

La presenza ebraica in Piemonte, come in altre regioni, segue storicamente il criterio per cui i nuclei residenti, quanto meno in ciò obbligati temporaneamente, si raccogliessero intorno al capo famiglia e alla «condotta», di cui già si è detto. A lui, infatti, ovvero alla sua capacità di rispondere al sistema di regole e di scambi che ad essa si legava, dipendevano le sorti dell’intero nucleo domestico. Spesso assai numeroso. Posta una tale premessa, rimane il fatto che rispetto al sistema di regole formali – basate sulla rigida separazione tra «giudei» e cristiani – all’atto concreto non seguissero comportamenti così netti. Bisogna porsi, dinanzi ad un tale stato di cose, con spirito non solo realista bensì secolarizzato. In altre parole, nessun gruppo (che sia di minoranza così come di maggioranza), può continuare ad esistere se non si ibrida, o non si “contamina”, con l’ambiente circostante. Al pari, viceversa, per ciò che riguarda la maggioranza, rispetto a ciò che per essa costituisce elemento fondamentale del suo dominio, ossia la forza di trasmettere, in maniera circoscritta ad un numero ristretto di elementi, il proprio ruolo e le sue risorse. Si tratta di capacità di adattamento, quella condizione per cui non si continua ad esistere poiché “rigidi”  e immutabili. La qual cosa, ad onore del vero, implica non solo aspetti di relazione e scambio ma anche di ordine affettivo.

Dopo di che, il matrimonio endogamico, ossia la perpetuazione di legami famigliari tra appartenenti al medesimo gruppo religioso, a fronte della dispersione territoriale, richiedeva la costruzione di una vera e propria rete di relazioni e rapporti in grado, successivamente, di portare all’unione tra i futuri sposi. Posta una tale premessa, tanto più in casi come questo, a valere per i maschi non erano i rapporti carnali (che in genere precedevano la matrimonialità e potevano eventualmente consumarsi anche al di fuori del futuro legame nuziale, quindi con non ebrei) ma il vincolo tra famiglie di cui, tanto più nel passato, la coniugalità era un suggello definitivo. In altre parole, il desiderio (e il suo concreto soddisfacimento), il matrimonio e il patrimonio, quest’ultimo inteso soprattutto come riscontro del fatto che i beni familiari sarebbero rimasti nel medesimo circuito, erano tre condizioni distinte. Il legame affettivo, per come lo intendiamo in età contemporanea, tendeva a sfuggire a molte di queste dinamiche. In sé, tuttavia, a ben vedere non si trattava di una mera prerogativa ebraica. Semmai, in quest’ultimo caso, il tutto era rafforzato dalla dispersione territoriale degli ebrei, dall’esiguità delle famiglie (e quindi delle figure cadette per un matrimonio) e dall’oggettiva difficoltà di riuscire a costruire legami tali da sancire, con le stesse politiche matrimoniali, la continuità di un vincolo non solo religioso ma anche socio-culturale. Essere minoranza, in fondo, da sempre non implica il rifiutare le maggioranze bensì il continuare a chiedersi in che cosa consista la propria condizione. Cercando, in qualche modo, di non estinguerla.

Anche per quest’ultimo ordine di ragioni, l’ebraismo piemontese, soprattutto quello di derivazione “francese”, nel tempo ha manifestato una vocazione a consorziarsi, a moltiplicare le occasioni di scambio, quand’anche ciò fosse reso più concretamente faticoso dalla dispersione territoriale. Non si trattava, beninteso, di un esercizio proprio ad ogni famiglia bensì della propensione prevalente di una parte di esse. Anche da ciò, quindi, come ricorda Alberto Cavaglion, tra i maggiori studiosi di queste dinamiche, si determinò, in età moderna, una sorta di legame particolarmente stretto tra alcuni centri ebraici e, nel caso specifico, tra Asti, Fossano e Moncalvo. Ad oggi, l’insediamento di ebrei in quei luoghi è pressoché inesistente. Tuttavia, cinque secoli fa costituivano fiorenti presidi della presenza ebraica, al punto da dare corpo ad un proprio ritualismo liturgico. Il cosiddetto «rito Appam» (dall’unione di Asti, Fossano – dove il fonema f si trasforma in p – e Moncalvo), nel quale convergevano sia elementi della tradizione sefardita che di quella aschenazita, si inseriva in questa dinamica. La dimensione liturgica suggellava aspetti dell’identità comunitaria, al di là dell’elemento puramente religioso e spirituale. Dacché ne deriva il riscontro del sincretismo tra prassi distinte, che ha spesso accompagnato la Diaspora nel corso del tempo. Una sorta di capacità di adattamento alle circostanze date (la resistenza delle minoranze di contro alla prevalenza di una grande maggioranza) ma anche una diversificazione interna all’ebraismo peninsulare. Non a caso, l’ebraismo piemontese, nella sua frammentazione territoriale, subì direttamente gli effetti delle trasformazioni che dal XIV  secolo in poi si verificarono nell’area regionale, con la competizione economica, durata per lungo tempo, tra Torino, Saluzzo e Casale Monferrato.

Con Emanuele Filiberto di Savoia, detto «Testa di ferro» (1528-1580), conte di Asti (dal 1538), duca di Savoia, principe di Piemonte, conte d’Aosta, Moriana e Nizza dal 1553 al 1580, nonché re titolare di Cipro e Gerusalemme, la condizione degli ebrei andò migliorando. La loro espulsione da altri territori voluta da Pio V, fece sì che un buon numero di essi riparasse nel Ducato di Savoia. Ad un tale flusso, soprattutto provenzale, suddiviso nel tempo, si aggiunse poi anche un’ulteriore ondata migratoria, in quest’ultimo caso proveniente dagli Stati cristiani e dall’Impero ottomano. Non si trattava solo di profughi, destinati a rimanere tali ma di elementi che andarono a rinforzare il tessuto economico, civile e di relazioni del territorio. Tuttavia, già alla fine del XVI secolo, le autorità ecclesiastiche si adoperarono per limitare le funzioni civili e professionali attribuibili agli ebrei, identificando tre obiettivi: l’impedimento nell’accesso alle professioni medicali, per le quali si esercitavano anche un certo numero di rabbini; il controllo, e la repressione, nella diffusione dei testi ebraici, ed in particolare del Talmud (quest’ultimo, un cavallo di battaglia dell’antigiudaismo, soprattutto in età moderna); la limitazione del numero di domestiche cristiane al servizio di famiglie ebree. A ciò si aggiungeva in alcuni casi la pratica, per nulla esauritasi, del ratto dei bambini, sottoposti a battesimo coatto e quindi cristianizzati a forza.

Benché con l’Inquisizione anche il Piemonte conoscesse ulteriori restrizioni, soprattutto nel merito della circolazione della letteratura ebraica, rimane il riscontro che le correnti di pensiero che ebbero maggiore consolidamento fossero non quelle mistico-cabaliste bensì le razionaliste, derivate dall’ampio e complesso magistero di Mosè Maimonide. Quindi, oltre alle opere liturgiche e ai commentari talmudici, si aveva a che fare soprattutto i trattati di stampo logico-razionalista applicati sul versante delle scienze e della cultura giuridica. La più abituale contrapposizione tra il misticismo e il razionalismo, e tra l’ortodossia e una qualche ibridazione modernizzante, non trovò in regione una terra particolarmente interessata ad ospitarne manifestazioni significative. Così come, su un binario parallelo, nel tempo andò invece determinandosi un dialetto giudaico-piemontese strutturato idiomaticamente. Di esso, ad oggi, se ne sono perse molte tracce ma rimangono, tra le pieghe della lingua parlata, alcuni elementi.

L’ebraismo dei territori piemontesi visse il XVII secolo anche nella diversità degli ordinamenti giuridici ereditati a seconda delle sovranità e dei domini esercitati sui singoli ambiti locali, laddove le vecchie comunità si confrontavano con quelle di più recente acquisizione, come nel caso di Casale, Moncalvo e Alessandria. Nel 1723, quindi, subentrò l’imposizione, per parte della Costituzioni regie, di costituire i ghetti in quegli ambiti urbani dove ciò fosse stato materialmente possibile. Se in realtà come Alba l’esiguo numero di residenti rendeva pressoché inadempibile una tale disposizione, in molte altre località si aprirono innumerevoli conflitti sull’identificazione e sulla collocazione degli stabili in cui dare materiale corso alla segregazione. Non di meno, il fatto che gli ebrei fossero elementi attivi del tessuto produttivo locale, costituiva un ulteriore vincolo a scelte volte alla separazione fisica degli individui. In teoria il ghetto, in quanto istituzione urbanistica, civile e relazionale, avrebbe dovuto filtrare tutti i rapporti con la popolazione cristiana. Nei fatti, proprio per l’intensità e la quotidianità di questi, diventava molto difficile mantenervi un adeguato rigore. Peraltro, le stesse Costituzioni regie, nel mentre imponevano vincoli spaziali ne allentavo quelli professionali, permettendo agli ebrei l’accesso a nuove attività. È anche per una tale ragione che nel Piemonte si andarono sviluppando manifatture tessili, lavorazioni d’argenteria e di oreficeria. Nel complesso non si trattava quasi mai di attività ricche, essendo produzioni e commerci ai margini dei settori più facoltosi, in mano ai cristiani. Non di meno, le aree dei ghetti divenivano così rifugio anche per una piccola ma brulicante umanità composta di vagabondi, inoccupati, mestieranti occasionali. In generale, il mercato del lavoro (e con esso quelle delle professioni) era fortemente vincolato da tutta una serie di fattori endogeni (l’inevitabile legame con il gruppo di appartenenza, a partire dalla famiglia) ed esogeni (l’interdizione legale da molti settori produttivi). Per chi avesse voluto acquisire uno status di rilievo, in genere la via obbligata era quella degli studi rabbinici. Oppure, si aprivano le non meno incerte strade del commercio e del prestito. Pressoché impossibile era il lavoro agricolo così come l’adempimento di pubblici uffici, ossia lo svolgimento di attività e l’assunzione di cariche amministrative.

Alla fine del Settecento gli ebrei piemontesi erano circa 5mila, pari ad uno ogni cinquecento abitanti, con una forte concentrazione (quasi un terzo della cifra globale) a Torino.  Ma a quel punto, le cose stavano per mutare un po’ ovunque, e quindi anche nella regione. Prima ancora che sul piano politico e culturale, già durante la seconda metà del secolo si erano manifestate spinte che erano volte a rompere con gli assetti preesistenti, tra i quali anche la segregazione ebraica. Più che da una visione strettamente umanitaria, e dall’avanzare con sé di una visione universalista della cittadinanza, l’elemento propulsivo era progressivamente introdotto dalle trasformazioni economiche, la cui eco era destinata a raggiungere il nord della penisola investendolo, prima nelle campagne e poi nei centri urbani. Una sorta di trasformazione globale stava per investire anche le minoranze, destinate, a loro volta a conoscere un ribaltamento di secolari interdizioni così come di oramai consolidate abitudini

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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