Cultura
Radicali e di destra, ma senza radici: costanti e mutamenti di un’area poltica estrema – Parte 3

Lo spregiudicato ricorso all’uso politico di tre ingredienti: il risentimento che attraversa le collettività, la paura di essere “invasi”, l’odio non tanto per la diversità in sé bensì per il pluralismo…

Dalla difesa del proprio «territorio», in chiave quasi neotribale, uno spazio fisico e geografico dentro il quale relegarsi, deriva il nuovo perimetro della propria identità. È come se si rimandasse all’appartenenza ad una comune famiglia che, in quanto tale, non va tradita. Una famiglia di destino, una comunità con un unico orizzonte di senso. La destra radicale aggiunge a ciò la polemica contro le élite finanziarie cosmopolite. Se queste hanno abbandonato le comunità locali al loro orizzonte di sofferenza (e di insofferenza), legato alla crisi dei territori, dei concreti luoghi fisici, essa invece si incarica di raccoglierne la rappresentanza in una comunione razziale, ossia etno-nazionale. L’unica possibile. Anche qui c’è qualcosa che ritorna dell’esperienza del vecchio fascismo storico, quella del regime mussoliniano, laddove esso si incaricava di portare a termine il processo di «nazionalizzazione delle masse» (ovvero di accesso delle classi subalterne nella scena pubblica) nella loro posizione subalterna, orientandone quindi il consenso. In alternativa ad ogni forma di pluralismo, aborrito e quindi indicato come la madre di tutte le disgrazie, si offriva alla società italiana una piattaforma alternativa, basata sul sentirsi parte di una comunità nazionale (infine declinata in «razza») non sulla scorta di un progetto di eguaglianza bensì di uniformità.

L’eguaglianza, infatti, presuppone la possibilità di accedere a pari diritti, fruendone dei benefici ma alimentando la propria soggettività. Non è quindi un valore astratto ma la via per una redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta, insieme alla valorizzazione pluralistica delle differenze. Richiama l’emancipazione, aborrita da ogni forma di totalitarismo. L’uniformità, invece, implica che gli individui vengano ridimensionati a semplice duplicato di un’unica matrice, senza alcuna possibilità di esprimere una qualche autonoma specificità. Il regime si incaricava di incentivare questo secondo modello, destrutturando le residue propensioni al primo. La polemica antiliberale ruotava intorno a questo asse ideologico. Diverse analogie, al netto delle differenze storiche, si possono trovare con l’esperienza del «socialismo reale»: alla soppressione delle libertà, infatti, si accompagnava quella degli spazi di autonomia, in questo caso non nel nome dell’unione razziale bensì in omaggio all’omologazione sociale realizzata con la mitologizzazione dell’«internazionalismo proletario». Anche da ciò si desume come l’impalcatura ideologica fascista e, in immediato riflesso, neofascista, non possa essere ricondotta, in chiave moralistica, alla presunta “cattiveria” delle sue leadership, ai loro meri calcoli di interesse.

Semmai si tratta di una complessa riorganizzazione della società attraverso lo spregiudicato ricorso all’uso politico di tre ingredienti: il risentimento che attraversa le collettività nei momenti in cui una parte dei loro componenti si sentono sottrarre qualcosa che ritengono invece appartenergli a prescindere da qualsivoglia riscontro; la paura di essere “invasi” e dominati da qualcuno o qualcosa di estraneo; l’odio non tanto per la diversità in sé bensì per il pluralismo, intendendo quest’ultimo come manifestazione di un’impossibile coesistenza tra “troppo diversi”, destinata ad alterare un presunto ordine naturale delle cose, dei rapporti sociali, dei legami interpersonali. Le destre radicali dichiarano che, a fronte del disordine sopravveniente, sarà loro compito ristabilire la giusta successione gerarchica, messa in discussione dal “permissivismo” lascivo, dal “buonismo” imbelle, dal “liberalismo” ingannatore. Come tali, si presentano sempre come organizzazione che si incaricano di difendere la “vera natura” degli esseri umani. Quanto meno, di quelli che hanno diritto ad essere considerati tali.

Sul piano della ricerca del monopolio nell’eversione agli ordinamenti democratici, tra le forze del passato e quelle del presente non esiste necessariamente un effetto di sostituzione. Semmai è meglio parlare di sovrapposizione e di concorrenzialità, a volte oppositiva, altre volte compensativa o comunque transitiva. In altre parole: non è vero che una emergenza sostituisca l’altra. Se la scena europea del radicalismo pare oggi dominata dall’angosciante manifestazione del terrorismo islamista, destinato purtroppo ad accompagnare a lungo le trasformazioni delle società a sviluppo avanzato, la presenza del neofascismo e del neonazismo in Europa non si è per nulla mitigata. Ancorché apparentemente contrapposti in diversi dei loro capisaldi di fondo, i radicalismi a matrice religiosa e quelli di natura politica trovano infatti alcuni comuni denominatori nel loro concreto agire. Tra di questi, i tentativi di dare corso al reclutamento di simpatizzanti, sostenitori e militanti, attraverso la legittimazione della prevaricazione sistematica, con una proposta d’azione del tipo: “sii tu stesso parte attiva di questo meccanismo” (la militanza identitaria); quindi, la messa in campo di una strategia d’azione basata sulla violenza che, se in molti casi, raccoglie il biasimo, il discredito e quindi il rifiuto della maggioranza della popolazione, tuttavia non ad essa si rivolge bensì a soggetti predeterminati, i quali ne subiscono invece un vero e proprio effetto di fascinazione (anche in ragione proprio del rifiuto dei più); il ricorso ad una persistente e martellante offensiva ideologica, dove gli obiettivi ossessivamente richiamati sono essenzialmente tre: l’enfatizzazione della appartenenza ad un gruppo di “iniziati” e di predestinati, per il fatto stesso di condividere dei convincimenti radicali e irriducibili a qualsiasi mediazione; l’odio di fondo, che si fa concreta avversione fisica, nei confronti della collettività (alternativamente presentata come composta da miscredenti, da apostati, da “nemici”, da inani, imbelli e inetti che “non meritano di continuare a vivere” se non come subalterni); l’avversione sistematica per il liberalismo, inteso come filosofia politica basata sulla centralità dell’individuo nell’esercizio della sua libertà di scelta, così come soprattutto per la democrazia sociale e partecipativa, ridotta a oclocrazia, ossia il governo esercitato dalle moltitudini disordinate, confuse e degenerate.

Il restante neofascismo sta dentro questo tracciato, allo stesso tempo vecchio e nuovo. A ciò unisce un’irrisolta pulsione di morte, un vitalismo funereo, una passione esasperata per il cadaverico. Ciò parrà essere qualcosa di tendenzialmente irrilevante non meno che sgradevolmente inconsistente ma, è bene ricordarlo, dal fascismo storico, tra il 1919 e il 1943, ai neofascismi, dal 1943 in poi, il rimando a questo insieme di fattori si è rivelato ideologicamente strategico. Riassumendo: il settarismo esasperato; un aristocraticismo dello «spirito» dei cosiddetti «migliori», che in realtà è la copertura del disprezzo per la dimensione sociale, ossia per il rapporto di cittadinanza; il rifiuto dell’individualità responsabile e consapevole, altrimenti intesa come centro della vita umana, e la sua sostituzione con una pulsione narcisista; la passione per ciò che è inanimato, ovvero uniforme, nel senso di eternamente identico e, quindi, incapace di esprimere qualcosa di personale, soggettivo, in un parola di autentico. Il fascismo, infatti, più che una compiuta teoria politica si presenta storicamente come una visione regressiva sia dell’antropologia dell’uomo (quindi dei suoi caratteri più profondi) sia dei rapporti che questi intrattiene con i suoi simili.

Occorre quindi prendere coscienza che la sua concezione reazionaria delle relazioni umane – persistente da quanto la destra radicale vide la luce come risposta alla Rivoluzione francese del 1789, così come il suo ritorno sulla scena in tempi più recenti, a partire da alcuni paesi dell’Est che i conti con il proprio passato li stanno facendo alla rovescia – ne denunciano la sua stringente attualità. Per coglierne l’emergenza non c’è peraltro bisogno di assistere all’adunata di camicie nere, al Musocco di Milano, oppure ai pellegrinaggi predappini o, ancora, alla crescente presenza di CasaPound insieme alle minacce, anonime o firmate che siano, nei confronti di quei giornalisti che indagano sul sottobosco neofascista. Sono solo alcuni tra gli estremi, altrimenti falsamente liquidati come residuo folcloristico, di una presenza invece carsica che, come tale, mai è venuta meno nel corso del tempo. Negli ultimi anni ha poi trovato nuova linfa, inserendosi anche nel disagio sociale,  ma soprattutto rivelando al medesimo tempo una capacità metamorfica e di adattamento che fanno del lascito del fascismo, di buon grado, «un passato che non passa». Il cambiamento culturale consumatosi in questi decenni, infatti, è stato segnato dal ritorno di temi e di motivi che sono transitati, dal loro originario costituire patrimonio di piccole nicchie, quindi ai margini della scena politica, ad oggetto di discussione e di considerazione nell’agenda di alcuni governi e di una parte dell’opinione pubblica.

In altre parole: non si è dinanzi al ritorno del fascismo-regime, in sé completamente consumatosi, e neanche davanti alla rivincita del neofascismo “storico”, bensì all’adozione di una serie di parole chiave (tali perché capaci di scaldare gli animi e di mobilitare parte della collettività), che derivano dal lessico neofascista, non solo per la loro origine ma anche e soprattutto per l’accezione che assumono nell’odierna discussione pubblica. La qual cosa pone molti problemi. C’è chi ha scritto, riferendosi al linguaggio, che: «gli usi delle parole costituiscono, soprattutto nello spazio pubblico, strumenti fondamentali di lotta politica, perché hanno l’effetto di determinare cosa può essere detto e cosa no in una congiuntura specifica. Rendono cioè lecite espressioni fino ad allora ritenute scandalose e provocano la censura o l’autocensura per espressioni fino ad allora ritenute accettabili. Per questa ragione le trasgressioni linguistiche sono sempre state tra i principali strumenti utilizzati per condurre dei colpi di mano in politica» (Esquerre, Boltanski, 2017).  Già si è avuto modo di richiamare, al riguardo, la traiettoria del fascismo storico, dal sansepolcrista manifesto dei Fasci italiani di combattimento del 1919 fino alla carta di Verona del tardo autunno del 1943: le incursioni nel lessico degli oppositori connotano non di certo un’adesione ai loro moventi; semmai l’obiettivo è esattamente opposto, ovvero quello di carpire l’uso delle parole più importanti, manipolandone il significato profondo. Per poi farlo definitivamente proprio. La guerra ai «nemici» la si fa anche e soprattutto cercando di deprivare gli oppositori di uno dei beni più preziosi, nel passato al pari del presente, ossia la capacità di comunicare dei significati condivisi, sulla base dei quali stabilire piattaforme di lotta politica.

In altri termini, come già si è avuto modo di ricordare, i radicalismi da sempre si alimentano del furto dei significati delle parole che rimandano alla mobilitazione collettiva, stravolgendone i contenuti a proprio favore. Tutto il linguaggio della destra radicale odierna deriva quindi da questa precisa operazione: saccheggiare il vocabolario del pluralismo politico, per poi azzerarlo completamente. Ciò che conta, nel pensiero di queste organizzazioni, è non il fare politica bensì il limitarne gli effetti partecipativi. Il radicalismo, infatti (ed è questa un’altra sua fondamentale caratterizzazione), non promuove la politica medesima, per sua natura conflittualista, ma la sua più completa delega a pochi gruppi di interesse. Ciò che si adopera nell’offrire a chi vi aderisce, è semmai il gusto dell’azione fine a se stessa, dall’invettiva denigratoria al menare le mani, fino agli esercizi di violenza più inauditi poiché totalmente prevaricatori.

Il ritorno della tentazione totalitaria sta allora nel fatto che essa offre di sé un’immagine protettiva. Del pari al dire ad una folla angosciata: “se ti senti abbandonato dalle istituzioni, se ti ritieni leso nei tuoi diritti, se temi di essere espropriato di ciò che già hai ma che pensi possa esserti ingiustamente sottratto, noi potremmo essere la tua soluzione”. Poiché il cliché radicale in politica veste da sempre i panni sia della distruzione del “nemico” sia della tutela degli omologhi a sé. Sono le sue due polarità fondamentali: eliminazione di ciò che è visto come diverso (ossia lo stesso pluralismo politico, culturale e sociale) e, quindi, presentato in quanto minaccia; offerta di riconoscimento ai soggetti “obbedienti”, destinati ad allinearsi e a comportarsi secondo una prevedibilità di condotte quasi mimetica: si esiste poiché ci si comporta nel medesimo modo e si pensano le stesse cose, non avendo (ne ambendo) l’ambizione ad un pensiero autonomo.

Il radicalismo di destra, che non è più la stanca riedizione dei regimi degli anni Trenta, avendo sviluppato semmai una sua autonomia politica da quelle esperienze storiche, si presenta oggi come una complessa e stratificata galassia. I moventi e le radici, insieme agli sviluppi e alla sua capacità di adattarsi alle condizioni date, inducono quindi a parlare più di «estrema destra postindustriale» (sulla scorta di quando già il politologo Piero Ignazi sottolineava diversi anni fa) che non, in senso più stretto, di «fascismo di ritorno». La cifra comune, tra i diversi movimenti che affollano la scena continentale, è un radicalismo non solo politico ma anche culturale e morale. Come tale dichiarato, rivendicato poiché compiaciuto di sé. Si tratta di un’area rumorosa che, in più circostanze, si intreccia, mantenendo irrisolti rapporti di contiguità e scambio, con soggetti al governo in una parte della stessa Europa. È un gioco di reciprocità, che sta producendo i suoi effetti. La destra radicale vive peraltro la crisi di rappresentanza delle sinistre, riformiste e non, come un’opportunità senza pari. Può carpirne una parte del suo elettorato, smarrito dai cambiamenti e in crisi di ruolo. Alla società sostituisce il concetto di «comunità», quest’ultima costituita da soggetti affratellati da vincoli di sangue e di reciprocità etnica; ai percorsi di spaesamento e di smarrimento della soggettività contrappone l’idea di una «identità» forte, basata sul binomio tra «sangue e suolo»; contro il senso di espropriazione materiale e di subalternità economica statuisce l’idea che la difesa degli interessi sia prerogativa di un tradizionalismo che trova nella cristallizzazione feudale delle appartenenze la sua falsa realizzazione; alla farraginosità dei sistemi rappresentativi risponde con il ricorso all’autorità carismatica e all’insofferenza verso i diritti. Tre sono quindi i fattori di maggiore tensione, allo stato attuale delle cose: il declino della democrazia partecipativa, la crisi dei sistemi di Welfare e gli effetti continentali delle immigrazioni.

Tutti e tre segnalano la grande movimentazione che ha coinvolto le società a sviluppo avanzato, inserendosi a pieno titolo dentro le logiche di mutamento che ne accompagnano l’evoluzione. Dall’insicurezza che da essi deriva, così come dal mutamento di statuto sociale del lavoro, oramai retrocesso a figura ancillare nella creazione delle identità collettive, il radicalismo politico sta traendo un significativo giovamento. Ha saputo infatti rilanciare la carta della socialità, abbandonata oramai dalla parte restante della politica (ripiegata sul mero riconoscimento dei diritti civili), declinandola però sul versante delle appartenenze territoriali. E alla crisi del capitalismo industriale risponde indicando la necessità di una guerra senza quartiere a quello finanziario, al quale dà il volto del «mondialismo» giudaico (o «sionista»). Non è una destra che non si confronti con la modernità, semmai incorporandone numerosi aspetti, a partire dalla dimensione tecnologica. La presenza sul web, così come il ricorso alla musica e alle tante forme di socialità come fattori di aggregazione e di proselitismo, sono due indici significativi della capacità pervasiva dei suoi messaggi. Ma se in questo caso propende ad occupare e colonizzare culturalmente la parte più giovane di società in via di veloce invecchiamento, il recupero in chiave fobica di due temi quali l’omosessualità (intesa come manifestazione di perversione della «natura umana») e l’immigrazione (segno di contaminazione), diventano i cavalli di Troia del binomio «legge ed ordine», da rivolgere indistintamente a tutti.

Il radicalismo si presenta quindi, nella sua essenzialità, come un discorso sulla necessità di rimoralizzare una società che avrebbe perso i suoi autentici «valori»: in campo pubblico, dove tutto sarebbe malaffare, latrocinio, pandemonio, confusione e distruzione; in campo privato, dove sarebbero invece prevalse le spinte “contro-natura”, indirizzate a disgregare, attraverso le politiche dei diritti civili, la “naturale gerarchia” tra aristocrazie morali e subalterni.  Ciò che il radicalismo fascistizzante prefigura non è quindi la restaurazione di qualcosa che è già stato ma la distruzione di ciò che c’è e che starebbe fallendo: la democrazia. Di fatto, professando queste posizioni, ambisce a portare a compimento lo smantellamento brutale dello Stato dei diritti per sostituirlo con la condizione dell’eccezione permanente, quella che deriva dal doversi opporre ad un nemico, chiunque esso sia, rimanendo in uno stato di mobilitazione spasmodica. Una società che si senta perennemente sotto pressione, risulterà comunque meno disponibile a tutelare le proprie libertà, semmai negoziandole e poi cedendole a favore di quanti dovessero presentarsi come coloro che la sanno tutelare, ossia proteggere, dalla minaccia pervasiva e incombente del rischio di un’ecatombe collettiva. In tale modo, il radicalismo di destra, si candida a rappresentare e a governare quelle parti delle società a sviluppo avanzato che si sentono abbandonate a sé. Il problema, al di là degli allarmismi di circostanza, privi di riscontri, è allora quello di capire quanti contemporanei si sentano vittime di un percorso di esclusione. Poiché le fortune dei movimenti eversivi, oggi come nel passato, si sono sempre giocate su questo piano di trascinamento.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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