Cultura
Radicali e di destra, ma senza radici: costanti e mutamenti di un’area poltica estrema – Parte 2

La cancellazione del conflitto sociale dall’agenda politica, ovvero la sua trasposizione sul piano esclusivamente etnico e nazionalista, è il fattore su cui si gioca la visione organicista presente nella destra radicale europea e in quella italiana

Da un immaginario, in sé ossessivo, maniacale, comunque pervasivo perché persuasivo, ossia su quello che alcuni studiosi hanno efficacemente definito come «panico identitario» (la paura di non sapere più chi si è o cosa si è diventati, poiché non si hanno punti di riferimento, né tantomeno speranze per un futuro migliore), derivano ulteriori istanze della destra radicale, come il discorso contro le élite. Le quali sono presentate come il prodotto di una globalizzazione senza volto, lo spirito borghese cosmopolita, quindi senza patria, degli «eurocrati» spietati, dei banchieri e degli speculatori, tracotante espressione dei gruppi di pressione, delle «massonerie», dei «poteri forti» e così via.

Tutti coalizzati contro il territorio e la nazione, in quanto espressione di coalizioni di potere apolidi, la cui forza si basa – per l’appunto –  sul non dovere rendere conto a chi abitava i luoghi fisici. Il capitalismo predatorio sarebbe il prodotto di questo stato di cose, una miscela  permanente tra finanza, rapina ed espropriazione. A ciò il radicalismo oppone la suggestiva difesa del «sano lavoro nazionale», quello manifatturiero, quello artigianale, quello manuale, contro le astrazioni della rivoluzione informatica. In ciò non c’è alcun rifiuto della tecnologia ma la costruzione di un immaginario manipolatorio basato sull’autenticità dei rapporti umani diretti. Non si contesta l’evoluzione degli strumenti della comunicazione collettiva; si denuncia l’artificiosità che i mutamenti avrebbero introdotto nelle relazioni sociali. Così facendo, ci si richiama ad un ipotetico passato dove, invece, la flagranza, la veracità, la spontaneità avrebbero fatto premio su tutto poiché in quei tempi trascorsi vi sarebbe stata un’immediata corrispondenza tra identità degli individui e ordinamento sociale, quest’ultimo inteso come una sorta di organismo olistico, dove le parti avrebbero aderito ad un unico ordine.

Non è un caso se l’adamitismo e il nativismo siano spesso due importanti elementi di corredo nel discorso ideologico del radicalismo di destra. Il tema dell’immigrazione, vista essenzialmente non solo come un atto di espropriazione dei beni collettivi da parte di popoli alieni e abusivi ma come un’azione di contaminazione dei caratteri della «stirpe», è oramai parte anch’esso nel bagaglio di un certo comune sentire. Gli «immigrati», secondo una tale logica, non sono solo coloro che vengono a «rubare il lavoro» ma anche quelli che intendono violare l’integrità del corpo sociale, la sua coesione, ancora una volta la sua intrinseca «purezza». Tali costrutti, nella loro intelaiatura più profonda, si rifanno a un consolidato immaginario antisemitico, che è l’archetipo per i razzismi presenti (e a venire) in tutta l’Europa. A volere dire: “l’ebreo è quello che sembra come te ma non lo è per davvero; semmai è contro di te. Nel momento stesso in cui ti sta accanto, penetra dentro il tuo corpo, ti possiede e ti svuota della tua linfa vitale, dei tuoi averi, della tua stessa indentità”. Questa mitografia, una tale fantasmagoria ideologica, allora come oggi, risulta molto pregnante per un certo tipo di subcultura diffusa, basata sulla politica della paura. Sono infatti immagini che ritornano. Sono immagini presenti e pressanti nelle idealizzazioni di quella parte della collettività che si sente abbandonata a se stessa e che cerca una guida alla quale rifarsi. Soprattutto, che è alla ricerca di una qualche sostanza espiatoria, una colpa, da attribuire ai propri fantasmi.

All’attacco contro le élite borghesi si accompagna infine il recupero del discorso aristocratico: poiché la democrazia non solo non è utile né necessaria in quanto non protegge, essendo semmai corruzione, l’autentica forma di rappresentanza della collettività è piuttosto il ritorno al governo dell’«aristocrazia dello spirito». La quale è costituita da pochi individui, investiti di una funzione carismatica, che non deriva dalla selezione esercitata attraverso il voto dal basso ma per il tramite di una sorta di selezione “naturale”. Il capo, infatti, non è scelto dal gruppo ma si impone per le sue doti sovraumane. Richiede obbedienza, offre tutela. Domanda fedeltà, garantisce identificazione. A modo suo, è comunque la promessa di un domani a venire. In questo quadro di merito si inseriscono ulteriori elementi sui quali riflettere. Alle spalle si hanno almeno tre decenni di spostamento continuo dell’asse politico verso la radicalizzazione della comunicazione.

La lotta per il controllo dei significati da attribuire alla lingua di senso comune è un vecchio cavallo battaglia del radicalismo, di destra come di sinistra. Intervenire sul modo in cui si raccontano le cose induce ad avere un maggiore spazio di azione nel controllo dei pensieri altrui. Soprattutto, implica la capacità di acquisire un’influenza nel determinare progressivamente le priorità dell’agenda politica. Il programma di Sansepolcro dei Fasci italiani di combattimento, licenziato nel marzo del 1919, ne è una evidente esemplificazione, laddove segna una netta invasione di campo all’interno del lessico usato dai movimenti sociali di massa dell’epoca. Il conflitto semantico è quindi uno scontro di merito: non un’esclusiva battaglia di forme bensì una guerra sui contenuti, per rielaborarli ex novo. Il linguaggio corporativista del Ventennio mussoliniano si adoperava in questa direzione: si presentava come “sociale” per alimentare il suo pervicace antisocialismo; faceva appello all’individuo per rendere più accettabile la privazione di una parte delle tutele liberali e democratiche; parlava alle moltitudini non per riconoscerne i diritti bensì per mobilitarle verso nuovi orizzonti di guerra.

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Un altro aspetto delle destre radicali di movimentazione e mobilitazione è quindi il presentarsi come soggetti “mediani”, ossia capaci di costituire la sintesi di interessi contrapposti. Non si tratta solo del vecchio richiamo interclassista e paternalista. La chiave di questa auto-rappresentazione è infatti il mascherarsi come figure nuove, attraverso il rimando al fatto che l’“autentica politica” si collocherebbe nell’essere «né di destra né di sinistra». Un tema molto diffuso e condiviso, quindi di senso comune. Di queste due polarità identitarie se ne dichiara pertanto la decadenza, sostituita da una superiore sintesi, di cui il radicalismo si candida ad esclusiva espressione, nel nome degli interessi della «nazione», della «stirpe», della «comunità» o, più prosaicamente, della «gente». Nella sua visione organicista della società, dove tutto deve coincidere con un centro (che sia lo Stato, il movimento, il popolo ma anche la razza, la classe o l’etnia), non c’è spazio per il conflitto tra interessi contrapposti. Anzi, esso è rifiutato, aborrito come una sorta di inquinamento dei «valori superiori», alla cui signoria indiscutibile e inconfutabile, tutti dovrebbero invece piegarsi. I tanti movimenti populisti, o variamente definibili in tale modo, vanno spesso in tale direzione.

Non sono organizzazioni di matrice fascista o neofascista; tuttavia riprendono un tale tipo di costrutto mentale, prima ancora che politico. Il quale, tra l’altro, inibisce il diritto al conflitto. Se il conflitto sociale è l’elemento costitutivo delle democrazie contemporanee, la sua cancellazione dall’agenda politica, ovvero la sua trasposizione sul piano esclusivamente etnica e nazionalista, è il fattore su cui si gioca una buona parte della visione organicista presente nella destra radicale europea e – segnatamente –  in quella italiana. Non si dà conflitto sociale, tra interessi materiali contrapposti: c’è semmai antitesi etnica, che permette un effetto di sostituzione. In buona sostanza: “noi, oppure voi”. A questa riconfigurazione ideologica della società si ricollega l’«individualismo proprietario»: tra i suoi elementi costitutivi entrano a fare parte il tendenziale rifiuto della socialità; la scarsa propensione alla coalizione se non sulla base della mera protesta; quindi, l’unione in gruppo ma solo in forme occasionali, cioè nei momenti del rancore, nelle situazioni di rabbia e non per la costruzione di un progetto condiviso, bensì per condividere un rifiuto. Rancorosità diffusa, ricerca di capri espiatori e delega a figure carismatiche contraddistinguono il processo di spossessamento dello spazio della politica, fenomeno che è oggi al nocciolo delle crisi di mutamento che le società a sviluppo avanzato stanno vivendo.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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