Cultura
Ritratto di Irène Némirovsky

Un viaggio nel mondo dell’autrice di “Suite francese”

A mia madre “rimprovero di non aver capito la situazione o, peggio ancora, di averla capita ed essere rimasta lì, ad aspettare… Passione per la scrittura? Immersione completa in ciò che lei voleva fosse il suo Guerra e pace? Un fatalismo molto russo? Non lo so, ma a volte abbiamo pensato che i nostri genitori ci avessero in qualche modo abbandonato”. Dopo tanti anni Denise Epstein si sforza di essere giusta, ma davvero non è facile quando si parla dei genitori precipitati nella voragine della Shoah. Denise è morta nel 2013 ma in un libro di conversazioni con Clémence Boulouque intitolato Sopravvivere e vivere (Adelphi) ha fatto in tempo a raccontare di sé e della sua famiglia. E naturalmente di Irène Némirovsky, sua madre.

Oriente/Occidente
La vita di Irène Némirovsky è allo stesso tempo tipica e unica, come si legge nella biografia curata da Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt (Vita di Irène Némirovsky, Adelphi). Nata a Kiev nel 1903 in una famiglia dagli ampi mezzi, lascia il suo paese nel 1917 nel pieno della rivoluzione. Dopo due anni di spostamenti tra Finlandia e Svezia, la famiglia si stabilisce a Parigi. Una gioventù solitaria e infelice e soprattutto il pessimo rapporto con la madre, segnato da reciproco odio mai ricomposto, incide profondamente sulla futura scrittrice i cui romanzi, a partire da David Golder, sono costellati di ritratti di madri spregevoli e comunicano spesso la sensazione di un’infanzia negata. Forse per questo Irène con le due figlie Denise e Élisabeth è estremamente apprensiva.

La vita famigliare che segue il matrimonio con Michel Epstein, celebrato nel 1926 con rito tradizionale ebraico, è una svolta radicale. Con disponibilità molto più modeste di quelle della famiglia in cui era cresciuta ma ricca di una quiete nuova, la vita adesso si snoda tra la serie di grandi gatti neri chiamati tutti con lo stesso nome, Kissou, le passeggiate lungo il boulevard des Invalides fino al luogo preferito, il giardino del museo Rodin, e le vacanze nei Paesi Baschi. Anche in Francia l’identità russa sopravvive sotto la superficie e di tanto in tanto riaffiora. “Quando nevicava entrava improvvisamente in uno stato di eccitazione e dovevamo trovarci all’aperto il prima possibile”, racconta Denise, “lì, sotto quei radi fiocchi di neve parigina, mia madre mi rammentava che lei era russa e che per i russi la neve era un elemento fondamentale”.

Irène Némirovsky parla correntemente francese, inglese e russo. Dice però di sognare soltanto in francese. D’altronde la Francia è tra le due guerre oggetto di un innamoramento che trova paralleli in altri racconti di immigrati orientali, spesso ebrei (come la meravigliosa e debordante figura della madre nel romanzo di Romain Gary La promessa dell’alba, Neri Pozza). La Francia per Irène e il marito è la patria ideale, la terra di elezione, tutto ciò che la Russia non è e non potrà mai essere. In un impeto patriottico, France è anche il secondo nome dato a Denise. Nel 1939, con la guerra all’orizzonte e in un estremo tentativo di proteggersi, tutti e quattro i membri della famiglia si fanno battezzare. Inutile aggiungere che non esiste alcuna convinzione religiosa dietro la decisione. Dal 1933 c’è invece la preveggenza che l’ascesa al potere di Hitler in Germania sia segno della fine. Quando scoppia la guerra Irène Némirovsky ha trentasei anni. Gliene restano tre da vivere.

Scrivere
Il primo libro, Un bambino prodigio (Giuntina), esce nel 1927. Due anni dopo è la volta del primo successo, David Golder (Adelphi, come tutti i successivi). Amici e famigliari vedono Irène scrivere senza interruzione, in modo febbrile, incapace di separarsi dai suoi personaggi. “Quando smetteva di scrivere, aveva uno sguardo vuoto, un po’ assente”, dice Denise. L’impegno nella scrittura comincia subito dopo il matrimonio, a sancire la svolta nella vita dell’autrice. Ma il ritmo di lavoro cresce nel tempo, come dicono i tanti titoli di racconti e romanzi, tra i quali vanno menzionati almeno Il ballo, Il malinteso, Come le mosche d’autunno, L’affare Kurilov, Il vino della solitudine, Jezabel, Due. Irène riesce a trovare la concentrazione anche con le figlie intorno e non perde un attimo. A patto naturalmente di non rinunciare al rito preliminare della scelta della penna stilografica e dell’inchiostro (il suo preferito è l’azzurro “Mari del Sud”). Nel 1940, mentre la Francia si piega alla Germania nazista, esce uno dei suoi libri più belli, I cani e i lupi. Nei due anni successivi, trascorsi nell’area sotto il controllo del governo collaborazionista di Vichy, non smette di scrivere a un nuovo libro. Sarà un grande romanzo sulla disfatta e la Francia occupata. Non le verrà dato il tempo di terminarlo, tuttavia sarà il suo capolavoro.

I cani e i lupi
Nei romanzi di Irène Némirovsky il rapporto tra Oriente e Occidente, cioè tra la Russia e la Francia, è una costante. Non di incontro pacifico si tratta; semmai di scontro brutale segnato da paura e incomprensione. La dinamica viene riflessa all’interno del gruppo famigliare, dilaniato dagli strali velenosi della rivalità, dell’ostilità e del disprezzo che coinvolgono in modo particolare la relazione tra madre e figlia. Nella maggioranza dei casi questi personaggi sono ebrei. Ma non è tutto qui. Uno dei temi ricorrenti nell’opera della scrittrice è il confronto tra ebrei ricchi e la grande massa degli ebrei poveri che vivono in ghetti sordidi nutrendosi di risentimento e odio. Non stupisce che Némirovsky sia stata accusata di antisemitismo. Alcuni suoi personaggi incarnano i più grezzi stereotipi antiebraici: l’unica ossessione per il denaro, per giunta non frutto di produttività industriale o agricola ma di speculazione finanziaria, l’assenza di radici, la spregiudicatezza combinata a volgarità e talvolta perfino marcati tratti di sgradevolezza fisica. Senza voler procedere con una difesa d’ufficio, va tuttavia detto che Némirovsky descrive l’ambiente che conosce e per questo tramite apre uno squarcio sull’orizzonte di ciò che è umano in generale, in ogni tempo e a ogni latitudine. Quando descrive la sordidezza morale e fisica degli ebrei orientali non suggerisce che gli ebrei sono come gli altri – assunto condivisibile ma banale – bensì che gli altri sono come gli ebrei.

A questo primo motivo universalistico se ne aggiunge un secondo. La scrittrice mette in scena l’ambizione di ascesa sociale anche a costo di calpestare il vicino e perfino il consanguineo. Qui risiede la grande verità secondo cui le vittime della persecuzione, come gli ebrei nella Russia zarista, non sono anime immacolate. Quanto più la persecuzione è dura, tanto più coinvolge le sue vittime, le ingloba nel proprio perverso meccanismo trasformandole in rotelle dell’ingranaggio. Il male, quanto più è radicale, tanto più sporca. È un’illusione pia ritenere che la vittima di un sistema iniquo si conservi pura. La verità è diversa e parla di contaminazione, di bianco che si colora di grigio e anche di nero. È una dinamica su cui si sofferma meglio di chiunque altro Primo Levi ne I Sommersi e i salvati a proposito di Auschwitz.

I cani, per riprendere l’immagine del romanzo del 1940, sono riusciti a realizzare il sogno più ambizioso uscendo dalla foresta e addomesticandosi. Non abitano più i fetidi quartieri fatiscenti dei ghetti ma case signorili, proprio come gli altri, i non ebrei. Hanno mani curate, vestono elegante, vanno a teatro. Grazie a ricchezza e lusso stabiliscono la distanza dai lupi rimasti nell’intrico selvatico in feroce lotta gli uni contro gli altri. Tuttavia a sottolineare la loro diversità dagli altri, i non ebrei, rimane un invisibile diaframma che prende le forme di sfiducia in se stessi, senso di non appartenenza e sradicamento, precarietà ma anche immaginazione e desiderio. Perché cani e lupi sono pur sempre parenti prossimi. Nelle parole di Ben “una razza avida, affamata da così tanto tempo che la realtà non basta a saziarci” (I cani e i lupi). Per gli ebrei dei quartieri alti dove non infuriano fame, malattie e pogrom l’orrore più grande è allora il ritorno del rimosso, come nella scena in cui due bambini in fuga dai cosacchi si rifugiano nella villa dei parenti ricchi suscitando raccapriccio e costernazione perché ricordano loro chi sono stati, chi in fondo ancora sono.

La valigia misteriosa
Il 13 luglio 1942 all’ora di colazione i gendarmi francesi bussano alla porta, entrano e portano via la sola Irène. Un breve addio senza lacrime, ricorda Denise, che termina con una veloce raccomandazione alle figlie: “Comportatevi bene”. Nelle settimane che seguono Michel è completamente stravolto, tanto da suggerire a Denise che l’arresto di lui a ottobre sia accolto come una liberazione. Forse spera di ritrovare Irène o almeno di condividerne la sorte. Prima di partire il padre riesce a trovare la forza di affidare le bambine alla signorina Julie, ex dama di compagnia dei genitori di Irène, e di far promettere a Denise che non si separerà mai da una misteriosa valigia in cui sono affastellate foto, carte, biancheria e il cosiddetto “quaderno”, ovvero il manoscritto incompiuto dell’ultimo e più grande romanzo, Suite francese.

Irène e Michel, deportati in momenti diversi, vengono assassinati ad Auschwitz insieme a molti parenti e amici. Le due bambine invece si salvano, trascinando per due anni da un nascondiglio all’altro la valigia con quello che rimane dei genitori. Solo molto tempo più tardi Denise e Élisabeth leggeranno il manoscritto lasciato incompiuto dalla madre e che avrebbe voluto costituire un nuovo Guerra e pace. Il capolavoro di Irène Némirovsky attinge alla vita in presa diretta durante il biennio 1940-1942 e guarda finalmente alla Francia con freddezza. La Francia rimane il paese della libertà, ma allo stesso tempo quello le cui difese si sono sgretolate di fronte ai carri armati tedeschi, quello del collaborazionismo, del nazionalismo su scala ridotta di Vichy, dell’antisemitismo e della xenofobia. Quello, ritratto in pagine memorabili, dell’infinita fila di veicoli di ogni tipo che da Parigi si snoda verso il sud ancora libero nei giorni della disfatta. Nel manoscritto sono compiute soltanto due delle cinque parti previste. Dopo un’incertezza durata decenni, nel 2004 Denise ha deciso comunque di pubblicarlo. Il caso letterario che è seguito, che ha incluso una giuria che ha modificato le regole di assegnazione del prestigioso Prix Renaudot per conferire il riconoscimento a titolo postumo, l’ha convinta di aver fatto la scelta giusta. Per anni, dopo la guerra, le capitava di correre dietro alla sagoma di donne che si rivelavano poi perfette estranee. Con Suite francese, cioè condividendo con i lettori le ultime parole di Irène Némirovsky, finalmente “mia madre ha iniziato a rivivere”.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

1 Commento:

  1. Molto interessante. Cercherò di seguire i vostri articoli. Questa mattina mi siete stati segnalati dalla rassegna stampa delle pagine culturali di radio 3.


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